PINOCCHIO: IL MITO DEL BURATTINO SECONDO FOLCO QUILICI
NSA) – ROMA, 15 OTT – «C’è ancora molto, molto da scoprire su d i lui», con questa frase si chiude il bel Viaggio nel mondo di Pinocchio di Folco Quilici (durata circa 50 minuti) che Raitre proporrà domenica alle 23.10. Realizzato da un’idea di Paolo Fabbri e prodotto da Raitre con Arte Geie, Ex Nihilo, F.Q.P.E. e Avro Tv, il film documentario attraversa il mito di Pinocchio in ogni sua forma. Si va dalla vita di Lorenzini di cui si sfatano alcune leggende («Non era Massone come qualcuno ha detto, nè donnaiolo e giocatore», ci tiene a dire Quilici) alle mille versioni di Pinocchio che sono state date in tutto il mondo. Si visita poi la fondazione di Carlo Collodi che raccoglie centinaia di edizioni del libro, si vedono sequenze del primo film a lui dedicato nel 1911 fino al Pinocchio di Comencini e a quello di Disney. Ma ci sono anche due rari cartoni animati: uno russo, ‘Buratinò e l’inedito Pinocchio di Enzo D’Alo ancora in produzione per la Rai. E anche, infine, un omaggio alla singolare lettura del mito Pinocchio che ne ha dato Carmelo Bene. E il Pinocchio di Benigni? Risponde candidamente Folco Quilici a margine della proiezione stampa a Viale Mazzini: «Non l’ho ancora visto. Il fatto è che devo mettere insieme tutti i miei nipotini per andarlo a vedere». Per il resto dal documentarista anche una sua lettura del mito Pinocchio: «Pochi sanno che Collodi non ha avuto padre e forse il suo Pinocchio alla ricerca del babbo non è che una sua proiezione e anche un qualcosa che in un modo o nell’altro riguarda ognuno di noi». Sulla messa in onda in seconda serata del film documentario interviene il direttore di Raitre Paolo Ruffini: «non è vero che è un orario penalizzante – dice il direttore -. In fondo non è un programma per i ragazzi, ma chissà si potrebbe anche pensare a una replica in un altro orario più agevole».
Contrariamente all’opinione
comune non bisogna credere che tutte le gemme più bel le siano maledette, anzi,
alcune di esse sono state considerate per secoli delle vere e proprie panacee,
capaci di cose mirabolanti fino al punto di conservare il corpo dei defunti
dalla corruzione della morte. Quella stessa essenza divina che le permea, come
può rendere pericolosissime, può anche fame una benedizione per chi le
possiede, una sicura protezione da ogni pericolo, una cura infallibile per
qualsiasi male.
La perla, per esempio, che pur non essendo una pietra
preziosa è sempre stata considerata come tale per la sua bellezza. purezza e
rarità, ha rivestito in molte e diverse tradizioni un carattere simbolico quasi
esclusivamente positivo. ricco e complesso.
Mircea Eliade, che ha diffusamente studiato il simbolismo della
perla, dice in proposito: “…Sono state trovate perle, conchiglie, nelle
sepolture preistoriche: la magia e la medicina le utilizzano; si offrono
ritualmente alle divinità dei fiumi, occupano un posto privilegiato in alcuni
culti asiatici; le donne le portano per ottenere fortuna in amore e fecondità.
Vi fu un tempo in cui la conchiglia, la perla, avevano
dappertutto un significato magico religioso: gradatamente il loro campo si è
ristretto alla stregoneria e alla medicina.
Perché la perla ha un significato magico, medicinale o
funerario’?
Perché è “nata dalle acque”, perché è
“nata dalla Luna”, perché rappresenta il principio femminile, yin, in
quanto si trova dentro ad una conchiglia simbolo, appunto, della femminilità
creatrice.
Tutte queste circostanze trasfigurano la perla in
“centro cosmologico” nel quale coincidono i prestigi della Luna,
della Donna, della Fecondità, del Parto. La perla è carica della forza
germinatrice dell ‘acqua in cui si è formata; “nata dalla Luna” ne
divide le virtù magiche e per questo si impone come ornamento femminile; il
simbolismo sessuale della conchiglia le comunica tutte le forze che implica;
infine la somiglianza tra perla e feto [e conferisce le proprietà genitali e
ostetriche (l’ostrica pang “gravida di una perla, è simile alla donna che
ha il feto nel ventre”, dice un testo cinese).
Da questo triplice simbolismo (Luna, Acqua, Donna)
derivano tutte le proprietà magiche della perla, medicinali. ginecologiche e
funerarie.
Nel Cristianesimo e nello Gnosticismo il simbolismo della
perla si arricchisce e si complica senza tuttavia allontanarsi mai dall’
originario significato.
Sant’ Efrem, padre e dottore della chiesa siriaca,
utilizza il mito antico della perla per illustrare tanto l’Immacolata
Concezione quanto la nascita spirituale di Cristo nel battesimo del fuoco.
Anche Origene, filosofo e teologo cristiano di Alessandria, insieme ad altri
numerosi autori riprende l’identificazione di Cristo con la perla.
Nell’Inno della Perla degli Atti di Tommaso, celebre
scrittore gnostico, la ricerca della perla simboleggia il dramma spirituale
della caduta dell’uomo e della sua salvezza, e finisce per significare il
mistero trascendente reso sensibile, la manifestazione di Dio nel Cosmo.
La tradizione mistica cerca sempre di raggiungere il suo
ideale e il suo fine: ciò è chiamato “la perla dell’ideale”.
La
ricerca della perla rappresenta la vera e propria ricerca dell’ essenza sublime
nascosta nel profondo dell’ uomo, la sua immagine simbolica evoca la purezza,
ciò che è nascosto, ciò che è perduto negli abissi e che è difficile da
raggiungere.
Nella storia naturale, Plinio afferma che la bianca lucentezza delle
perle è tanto maggiore quanto più è profondo il mare in cui esse nascono: in
quei fondali, dove per la scarsa profondità delle acque riescono ad arrivare i
raggi del sole, le perle nascono giallognole e imperfette; ma negli oceani, sul
fondo dei quali regna un’eterna profondissima notte, si sviluppano gli
esemplari più belli, di un candore impareggiabile.
La perla in ogni tradizione simbolica gioca un ruolo di centro
mistico, rappresenta la sublimazione degli istinti, la spiritualizzazione della
materia, la trasfigurazione degli elementi, il positivo compimento
dell’evoluzione. Può essere facilmente connessa con l’androgino, l’uomo sferico
di Platone, immagine dell’ideale perfezione delle origini e della fine
dell’uomo. così come essa è il frutto della congiunzione del fuoco e dell’acqua
secondo i musulmani, che immaginano anche l’eletto al paradiso racchiuso,
insieme alla sua Urì, dentro a una perla.
Secondo alcune leggende, la perla nasce all’interno della conchiglia
per effetto di un lampo o di una goccia di rugiada, e i miti persiani
l’associano alla manifestazione primigenia, la divinità avvolta nell’oscura
notte primordiale. L’Atharva-Veda la definisce figlia del Soma, che è tanto la
Luna, quanto la bevanda di immortalità, e le attribuisce la virtù di allungare
la vita.
Nella Cina antica vi era la convinzione che essa subisse una mutazione
parallela a quella delle fasi lunari, ed era ritenuta simbolo di vita eterna.
Analogo è il simbolismo delle perle infilate in un filo: sono il rosario, il
sutratma, la catena dei mondi penetrata e tenuta unita dall’ Atman, lo Spirito
universale.
La collana di perle rappresenta quindi l’unità cosmica del multiplo,
l’integrazione delle componenti diverse di un essere nell’unità della persona:
quando però è spezzata, essa diviene allora immagine di disgregazione, dell’
uni verso disordinatamente sconvolto, dell ‘ unità infranta.
Molteplici sono le maniere nelle quali si esplicano le virtù curative
delle pietre, alcune bastava portarle come amuleti, altre era necessario
ingerirle come medicine, ma qualunque fosse il modo. aiutavano sempre il corpo
ad espellere il morbo che lo tormentava. o a tenerlo lontano.
La perla è un prodotto organico; essa nasce e si sviluppa nelle
profondità del mare e soffre se non viene trattata con cura, e può deteriorarsi
perdendo lentamente il suo splendore.
La medicina orientale la utilizzava per le emorragie, l’itterizia e
per guarire indemoniati e folli. La luna, anche in Occidente, era considerata
la maggiore responsabile di tutte le malattie mentali e quindi quale
medicamento poteva essere migliore del frutto stesso dei raggi lunari?
In un trattato di medicina orientale del 1240 circa, la perla è
consigliata per i mali che affliggono gli occhi, come antidoto per gli
avvelenamenti, per guarire dalla tisi e come salutare ricostituente.
In Cina veniva usata per gli scopi curativi solo la perla vergine,
cioè non perforata, perché il fatto che non fosse stata manipolata dall ‘uomo
assicurava che anche le sue virtù erano rimaste intatte, non si erano disperse
né indebolite.
A partire dal] ‘ottavo secolo il suo uso medicinale si diffonde anche
in Europa e immediatamente la richiesta di perle aumenta, e con questa il loro
prezzo.
Viene raccomandata da numerosi autori in special modo per l’epilessia,
chiamata anche mal lunatico; per la pazzia, per la malinconia, per fortificare il
cuore e come elisir di lunga vita.
Essendo stata per millenni l’ emblema della forza generatrice, della
fecondità, la perla venne, in epoche più moderne. considerata un potente
afrodisiaco. un ottimo rimedio contro la sterilità e un buon mezzo per
facilitare i parti.
Presso i Greci le perle furono sempre in stretta relazione con
divinità femminili, particolarmente Afrodite, nata anche Ici dalla spuma del
mare, divenendo l’emblema dell ‘amore e del matrimonio. In Siria, Afrodite era
chiamata “Signora delle perle” e a Antiochia “Margarita”.
che vuol dire. appunto, perla.
Nella medicina araba le perle erano ritenute efficaci per eliminare
Ie macchie della cornea e quelle dei
denti, usandole come dentifricio. per curare le palpitazioni cardiache, le
paure e le angosce derivanti dal sangue intossicato.
Se si riesce a sciogliere le perle così da ricavarne un liquido
trasparente, questo, frizionato sulle parti del corpo macchiato dalla lebbra.
fa tornare la pelle sana e perfetta.
Se
invece si versano alcune gocce di questo stesso liquido nel naso, sparisce il
mal di testa conseguente all’infiammazione dei nervi che si trovano nella zona
oculare.
Nel Medio Evo si usava questa gemma per riuscire a scoprire i ladri:
quando in una casa veniva a mancare qualche oggetto, la padrona recitava delle
formule magiche particolari tenendo in mano una perla. poi la metteva dentro
una coppa di vetro rovesciata e, fissandola. elencava i nomi di tutte le
persone che conosceva o che sospettava: al solo pronunciare il nome del
colpevole la perla si sarebbe improvvisamente mossa come se volesse fuggire,
denunciando così infallibilmente il ladro.
Accanto alla tradizione che vede le perle come apportatrici di salute,
amore e fecondità. ce n’è una che Ie considera portatrici di lacrime e
disgrazie, in particolar modo per le donne sposate. ed è una credenza questa
che in alcuni paesi è ancora avvertita e radicata.
Era ipotesi
comune che a generare le perle fossero state le lacrime e che quindi dal dolore
non potesse derivare altro che dolore. Una leggenda dice che Adamo ed Eva, dopo
la morte di Abele, abbiano a lungo sconsolatamente pianto il loro amato figlio
e che queste lacrime, cadendo nel mare, si siano trasformate in perle.
A seconda del colore le perle hanno un diverso influsso su chi le
porta; quelle dalle sfumature azzurre rendono volubili e leggeri, quelle rosate
donano costanza e perseveranza nei propositi, che saranno poi coronati dal
successo, e assicurano fedeltà in amore.
Infine, quelle nere. tanto rare a trovarsi. portano grande fortuna e
sono I ‘emblema della più leale amicizia e della più totale devozione.
“Herbis, verbis et lapidibus” (con le erbe con le parole e
con le pietre), questo motto latino. usato di frequente nel Medio Evo, riassume
efficacemente il concetto di terapia degli antichi: era soprattutto a questi
tre elementi che ci si rivolgeva per portare soccorso all’uomo.’
Taranto
è stata sempre un’ ambita meta strategica per la politica militare di qualunque
potenza. Napoleone Bonaparte apprezzò in modo particolare la sua collocazione
geografica e la sua disposizione che ben si prestava ad essere un punto di
riferimento per la strategia militare nel Mediterraneo. Ed è proprio a
Napoleone che la città deve uno dei suoi maggiori tributi per lo sviluppo che
ricevette in quel periodo. Dopo la prima fase dell’occupazione. conclusa nel
maggio 1802. l’anno successivo, il 18 maggio 1803, con la dichiarazione di guerra
dell’Inghilterra alla Francia, Napoleone ordinò che fosse nuovamente occupata
la Puglia. nominando il generale Laurent Gouvion Saint Cyr comandante del Corpo
d’Osservazione del Mezzogiorno. In questo periodo, il 3 settembre 1803, morì P.
A. Choderlos de Laclos.
Laurent Gouvion
de Saint Cyr
Laurent,
marchese de Gouvion Saint Cyr, Maresciallo ( 1 8 1 2) e Conte dell’ Impero (1 8
1 5), nacque a Toul il 13 aprile 1764, morì a Hyères il 17 marzo 1830.
Non
ha perduto una sola battaglia e si distinse tra i Marescialli napoleonici per
la sua fermezza e la sua indipendenza di carattere. Figlio di un conciatore,
non aveva che tre anni quando sua madre abbandonò la famiglia. Dopo un viaggio
di due anni in Italia, diventò maestro di disegno a Toul e successivamente a
Parigi. Nel 1792 decise di aderire all’esercito repubblicano. E la che aggiunse
“Saint Cyr” al suo nome, per distinguersi dai suoi cugini. Combatté
nell’esercito della Mosella.
Intelligente,
istruito, capace, aveva un eccellente colpo d’occhio. Gouvion. Saint. Cyr
guadagnò rapidamente i galloni militari. Il 16 giugno 1794 era già Generale di
Divisione. un record di rapidità, comandò una divisione dell’esercito a Rhin c
Mosella. Nel 1798, ricevette il Comando provvisorio dell’esercito a Roma che
invase gli stati pontifici c creò la Repubblica Romana. Gouvion ripollò la
disciplina nei ranghi degli ufficiali. che erano in procinto di essere
destituiti da Massena.
Il
26 luglio 1798: risultava nei ranghi dell’Armata d’Italia e partecipò . sotto
Joubert, alla battaglia di Wom, il 15 agosto 1799. Dopo la battaglia, si
ricongiunse al resto del]’ armata. Quando Massena va a rimpiazzare Joubert.
ucciso a Novi. Gouvion ottiene d’essere destinato all’ armata d’ Italia e batté
l’esercito austriaco. Per le sue vittorie in Italia Napoleone gli conferì il
brevetto di primo tenente dell’ armata e la spada d’onore.
Destinato
all’armata di Germania sotto Moreau. conquistò Friburgo e partecipo” alla
battaglia d’ Hohenlinden, il 3 dicembre 1800. Nel 1801, venne incaricato di accompagnare
Luciano Bonaparte in Spagna. Due anni dopo, fu tenente del Corpo di occupazione
a Napoli, sotto Murat.
Comunque.
si rivelò un po’troppo indipendente sul piano politico. secondo le
impressioni dei suoi superiori. Nel 1804, non sarà nominato maresciallo, ma
diventò Colonnello Generale dei Corazzieri. Nel 1 805, entra nei ranghi dell
‘esercito che deve sottomettere il Regno di Napoli, ove Giuseppe è il nuovo Re.
Comandò un corpo d’armata durante la campagna di Polonia nel 1 807, e venne
nominato governatore di Varsavia. Nel 1808 prende il comando del VII corpo con
carta bianca per operare in Catalogna. Gouvion guadagnò vittoria su vittoria.
Malgrado la carenza di artiglieria e di munizioni, giunse a conquistare il forte di Roses il 4 dicembre
1808 e Barcellona. Ricevette allora degli ordini che considerava
irrealizzabili, enza gli valse gli arresti ed una nuova quarantena.
Nel
1811 Napoleone lo richiamò al Consiglio di Stato affidandogli il comando del VI
corpo della Grande Armata. Gouvion si rituffò nelle battaglie: sconfiggendo
nuovamente Wittgenstein a Poiotsk. Il 18 agosto 1812 e ricevette il bastone di
Maresciallo con il titolo di Conte.
Partecipò
alla battaglia di Dresda il 26-27 agosto 1 813. con l’incarico ricevuto da
Napoleone di difendere la città, ma dovette arrendersi per mancanza di munizioni e di
viveri, capitolando l’ I i novembre 1813. Fu prigioniero sino al giugno 1814. Quando
ritornò in Francia. Luigi XVIII lo nominò Pari di Francia. Al ritorno di Napoleone dall’sola
d’Elba, Gouvion a Orleans fa portare la coccarda bianca al suoi uomini in segno
di lealtà al re. Seguì Luigi XVIII a Gand e fu incaricato per diversi affari
dal Ministero della Guerra tra il 1815 e 1821, contribuì a far avvicinare alla
monarchia molti ufficiali di Napoleone. Fece votare l’ importante legge
militare del IO marzo 1 8 1 8 per la riorganizzazione del] “esercito, che
regolava la materia dell ‘ arruolamento e dell ‘ avanzamento nella carriera
(avanzamento di grado per anzianità e
abrogazione del privilegio dei nobili di entrare nell’esercito direttamente con
i gradi di ufficiale). Ma dovette affrontare l’ostilità degli estremisti che la
esclusero definitivamente nel 1821. Luigi XVIII l’ aveva fatto Marchese nel
1816.
Scrisse numerose
opere di storia militare sulle campagne della Rivoluzione e dell Impero.
Dalla sua sposa c
cugina Anne Gouvion ebbe dopo vent’ anni di matrimonio un figlio, Laurent
François i . Per la storia massonica la figura di Gouvion Saint Cyr
non è da ignorare in quanto proprio per il suo avallo si innalzarono le prime
colonne del Tempio massonico d’Otranto. organizzate da un controverso
personaggio della storia politica dl tempo nonché uno dei protagonisti della
costituzione del Grande Oriente d’Italia, il generale bresciano Giuseppe Lechi.
Il massone Lechi
e l’indipendenza Italiana
Giuseppe Lechi
nato ad Aspes presso Brescia il 5 dicembre 1766, venne avviato giovanissimo
alla carriera militare a Vienna dal padre. conte Faustino Lechi, affiliato ad
una loggia bresciana intorno al 1770. Nel 1793, congedatosi dall’esercito
austriaco e rientrato nella città natale, fu tra i promotori del circolo
“Buoni Cugini”, che aveva assorbito le idee di libertà, uguaglianza e
fratellanza della rivoluzione francese, e venne arrestato il 4 maggio 1794.
Dopo l’esperienza della Repubblica Cisalpina, Lechi fuggì in Francia, ove tra
il 1799 e il 1800 costituì la Legione Italica partecipando alla seconda
occupazione di Napoleone in Italia. Dopo la pace di Luneville tornò a Milano
ove probabilmente fece parte della Loggia la Concordia prima ed alla L’ Hereuse
Rencontre successivamente. Con la nuova guerra anglo-francese del 1803 fu
nominato comandante del terzo reggimento del Corpo di Osservazione del
Mezzogiorno, giungendo a Bari l’ I l luglio 1803 con una colonna di Polacchi2
. Quella di Giuseppe Lechi si può definire una famiglia intrisa profondamente
di spirito massonico, Oltre al padre Faustino, erano massoni anche i fratelli
Teodoro Lechi. Colonnello della Guardia Reale. nominato I Sorvegliante tra i 28
Grandi Ufficiali “in esercizio” della Gran Loggia Generale Simbolica
del Grande Oriente d’ Italia; Angelo Lechi, Vice Comandante, Scuo, nominato tra
i suddetti come Cerimoniere: Giacomo Lechi, legislatore, nominato Porta
Stendardo tra i 28 Grandi Ufficiali in esercizio del Gran Capitolo Generale del
G. O. I.
Giuseppe Lechi fu
un personaggio molto controverso. Taluni storici lo considerano di dubbia
moralità per via del{e accuse di ricatti ed estorsioni che avrebbe compiuto
quando era di stanza a Barletta. a Bari. a Lecce: avido di denaro che non si
peritava di procurarsi nei modi più disinvolti. Altri invece lo considerano.
seppur con un carattere impulsivo ed impetuoso, uno dei precursori dell ‘unità
italiana. Tale giudizio scaturisce dalla polemica sorta sulla presunta congiura
di Lechi contro i francesi a favore del re borbone. Il 5 ottobre 1803 il
Capitano Carlo Maml!i, si presentò al ministro borbone Acton. in nome e per
conto di Lechi. proponendogli un patto segreto secondo il quale Lechi e il
generale Ver. suo intimo amico c fratello massone, disgustati dal comportamento
dei Francesi. tesi a depredare il regno d’ltalia dei suoi teson e noncuranti
delle esigenze dei patrioti italiani di indipendenza. erano disposti, con
congruo compenso. ad attuare un colpo di mano contro i francesi, impegnati
nelle campagne contro I’Inghilterra. lasciando il suolo italiano dal dominio
straniero e ponendovi a capo proprio il re borbone. quale garante dell’unità
nazionale.
Essendo
tristemente nota la fama di Lechi, Acton organizzò un incontro in gran segreto
in una stazione postale nella campagna di Cerignola tra questi ed un suo
fiduciario, i! Colonnello Giovanbattista Colaianni. AI Colaianni Lechi confermò
il suo piano pur con molta prudenza dialettica. Tale proposta non venne accolta
positivamente dalla corte napoletana che. anzi, considerandola una provocazione
dei francesi per far manifestare sordo livore nei loro confronti informarono
l’ambasciatore Alquier a Napoli. Della situazione venne informato lo stesso
Napoleone, che conoscendo I .echi come un “grande rivoluzionario si
rifiutò di credere a tale verità, preferendo invece supporre una macchinazione
della corte napoletana. Alla fine chi passò i guai fu solo il capitano Mameli.
che venne arrestato e ritenuto l’autonomo ideatore della truffa tentata alla
corte borbonica per spillare quattrini. Come interpretare il comportamento di
Lechi?
Carlo Di Somma
Circello; ipotizzò che effettivamente Lechi avesse tramato con Ver ma non per I
‘indipendenza
italiana bensì per lucro. Quaranta anni dopo invece “un altro storico. il grande pugliese Antonio Luccarelli di Acquaviva
delle Fonti. con maggiori fonti documentarie risolse che “al di sopra di
ogni dubbio e di ogni preconcetto sta il fatto indiscutibile che un insigne
italiano – quantunque esuberante dalla probità morale che non sempre.
purtroppo, si accompagna alla dirittura politica – ammirato per esimio valore.
posto dal Bonaparte a capo di nunzerose truppe ed elevalo ad eminenti onori, va
formulando un audace piano per la redenzione della Patria, e già intravede la
necessità di capitanare il moto unitario. all’infuori di ogni straniera in fratellanza,
da un sovrano nazionale, che la sua autorità e la sua .forza – premio il regno
dell’Italia una e indipendente – ponga a servizio del nostro Risorgirnenlo.”
Filippo Severoli
Altro
personaggio insigne fu il generale Filippo Severoli, nato a Faenza nel 1766 ed
ivi morto nel 1822. Arruolatosi nelle truppe cisalpine si distinse per l’alto
valore dimostrato tanto da essere nominato presto colonnello e nel 1 800
generale di brigata. Partecipo” nel 1803 alla spedizione del generale
Massena all’occupazione del Regno di Napoli, ed ad altre campagne militari. Il
25 ottobre 1804 Severoli era di stanza a Taranto. Nell’aprile del 1805
risultava affiliato come Secondo Sorvegliante alla Loggia Della Filantropia all’Oriente
di Lecce, una loggia castrense formata da ufficiali dell e Armata
Francese.
L’abate
Antonio Tanza, vicario arcivescovile reggente la diocesi di Taranto. scrisse a
tal riguardo una gustosissima lettera al suo arcivescovo. Mons. Giuseppe
Capecelatro. autoesiliatosi a Napoli (a seguito della sua ambigua condotta per
i fatti del 1799), che merita di essere riportata integralmente per la sua
tipica vena:
Taranto.
17 febbraio 1805
E’
partita questa mattina con tutte le benedizioni una diavola americana che stava
in questo palazzo da camerata col Sig. generale (Severoli) : una vera puttana
errante, una diavola porca e sporca, una voragine. Nell ‘assenza del generale
si sfrenò tanto che tornato lui ed informato la cacciò via a calci in culo e
questa mattina sopra un legno sdruggito
la fatta partire. questa porca stava nel quarto inferiore al mio, non soffriva
che posassi l’orinale dopo essermi servito. Il ‘*mio chierico. il mio
domestico, i miei cursori erano in una suggestione di dover camminare colla
punta dei piedi sino a tardi perché la noia fino a tardi altum stendebat. Il
generale l’amava e la trattava da quella
che non era e duolsi che un prete vedeva e pensava meglio di lui: perché
qualche cosa gli .fu detto anche a nome mio.”
Il
buon abate Tanza era di spirito molto disincantato. e pratico dei fatti della
vita. Fu sempre lui. in altra corrispondenza con Capecelatro, a descrivere il felice
approccio dei tarantini con i francesi con rara efficacia:
“Io, “minchione,
andavo affligendomi per le signorine che avrebbero voluto entrare nei monasteri
(che erano il
ricovero delle ragazze di buona famiglia). Niuna ha mostrato tal desiderio: eunbabus
ulnis
(trad. a braccia
aperte) direbbe il “mio Pisino, e qualche altro: divaricatis coxist
Le Logge
“Della Filantropia” e “L’Amica dell’uomo”
Tra
la fine del 1804 e gli inizi del 1805 Lechi costituì in Taranto due logge:
Della Filantropia e L’ Amica dell’uomo. La loggia “Della Filantropia”
era composta da militari italiani, francesi, polacchi. corsi, che facevano
parte dell’ Armata Francese, come si nota dal piedilista qui riprodotto:
Francesco
Jovy, nato a Corfù il 30.9. 1772, capitano nella V Maestro Venerabile.
Giacinto
Provana. nato a Torino il 12.6.1775, tenente, Maestro Prilno Soprintendente,
Alpidio Ponte, nato io Corsica nel
1760, Capo Batt. ne. Maestro Secondo Soprintentente.
Pietro
Grosso. nato a Casale l’ l . I l . 1780, Furiere, Segretario.
Paolo
St. Paul, nato a S. Croix il 25.4. 1773. Aiut. di campo del gen. Severoli, M.
Oratore.
Cesare
Gini. nato a Bologna il 1776, Pagatore della Divisione. Maestro Tesoriere,
Pietro
Manini, nato a Bologna 1’8. IO. 1779. Militare, Maestro.
Filippo
Severoli. nato a Faenza nel 1776. Generale. Maestro.
Gaetano
Stokolski, nato in Polonia il } 9.7.1779. Tenente di Cavalleria polacca.
Maestro.
Luigi
Albini, nato a Villafranca il 22.9.1777. Aiutante M. e nella V, C01npawno.
Luigi
Allegro. nato a Napoli il 13. I . 1 775, Sergente dei Granatieri. Apprendista,
Antonio Scassi. nato in Corsica il 19. i
0.1771. marinaio impiegato nella Divisiuone,
Carlo
Rossi, nato a Reggio. Aiutante di campoi del gentile. Apprendista
Pasquale
Ghidini. nato a Parnlail 7.3. 1779, segretario del gen. Severoli. Apptrendista.
Giuseppe
Milanesio, nato a Savigliano il 1 7.1.1771 , Capitano, Apprendista,
Antonio
Gout, nato a Napoli il 21.6.1779, Tenente, , Apprendista.
Bertrand,
Capitano del Genio, Apprendista.
Cesare
Varrone, nato a Bologna il 15.1 ()-1781. Segretario, Apprendista. (Fonte E
Bramato)
Essa
quindi non era stanziale ma seguiva i movimenti della truppa, tanto che nel
marzo del 1805 la loggia si trovava di stanza a Lecce ove erano stati
trasferiti i suoi componenti militari 7 . Considerazioni diverse
merita la loggia “L’ Amica dell’ Uomo” in quanto formata da
Tarantini. Come si rese possibile la costituzione di due logge massoniche se la
Massoneria era proibita e perseguitata nel Regno di Napoli?
Essi
facevano capo al Grande Oriente presso la Divisione dell ‘Armata d’ Italia
retta dal Gran Maestro Giuseppe Lechi, ed in quel momento politico re
Ferdinando aveva dovuto accettare suo malgrado le guarnigioni militari in
Abruzzo ed a Taranto. ln quale ambito Lechi individuò i costituenti’? Quale
tipo di persona poteva condividere un’ impostazione massonica se non chi aveva
partecipato pochi anni prima, nel 1799, alla rivoluzione che aveva come ideali
la libertà, l’uguaglianza e la fratellanza? Lechi contattò uno di questi
reduci, Giuseppe La Gioia, tramite l ‘ Aiutante di campo de] gen. Severoli
Carlo Rossi, affidandogli l’incarico di costituire la loggia a Taranto.
La
Gioia, già noto per i fatti del 1799. fu giudice del Tribunale di Prima Istanza
di Lecce, e tra i capi della Carboneria in Terra d’Otranto tra il 1817 e il
1821.
Non
una mezza figura quindi ma un personaggio di primo piano nella società del
tempo.
La
in breve tempo riuscì a coinvolgere altri sci interessati, individuati
nell’ambito del clero e della buona borghesia cittadina. I sette
“bussanti” furono iniziati nella loggia “Della Filantropia”
e subito elevati agli alti gradi. Quindi costituirono formalmente la loggia ‘
‘L’Amica dell’Uomo”.
Oltre
Rossi e La Gioia, che ricoprivano la carica di Esperto e Maestro Venerabile
facevano parte della loggia i sacerdoti mons. Saverio Trippa, Segretario e don
Giuseppe Ceci, Primo Sorvegliante oltre a Bitetti. Secondo Sorvegliante e
Rinaldi. Oratore, ed il fr. Ponti.
Dalla lettera
del 20 Agosto 1804 del Venerabile La Gioia al G. M. Lechi, si desume che
l’Amica dell’Uomo avesse una serie di difficoltà, che rappresentava al G. M.
chiedendone aiuto: aspettava la bolla di fondazione. che non era ancora
pervenuta; mancavano i rituali di elevazione al secondo e terzo grado; non
sapevano come mantenere i contatti, considerato che non c’era da fidarsi delle Poste reali;
comunque ‘ •L’ Amica dell ‘Uomo” riuscì a resistere almeno sino al 22 giugno
1805. quando compare nel Tableau delle Logge del Grande Oriente d’Italia, otto
logge, di cui cinque a Milano. una a Bergamo e Verona. oltre quella Tarantina,
ed oltre a cinque logge castrensi, tra cui quella de “La
Filantropia”.
Dopo
tale data non si ha alcuna notizia. E quindi probabile che L’ Amica dell’Uomo
non abbia resistito a lungo. Le difficoltà non erano di poco conto se si
considera il timore espresso dal Venerabile La Gioia nella corrispondenza con
Lechi. Probabilmente ne L’ Amica dell’Uomo si era verificata una fuga di
notizie da parte di qualche affiliato di non provata fiducia. Lo stesso Lechi
in una lettera da Mola di Bari del 1 8 febbraio 1 805 raccomandava “Gran
circospezione nell’ammettere i profani, i frusti esempi di traditori che
introdotti furono al Travaglio del Tempio siano sotto i vostri occhi”.
Bisogna
considerare che la Massoneria era proibita per i sudditi del Regno di Napoli per
via dell’editto di Ferdinando ancora in vigore, sebbene le autorità chiudessero
tutti c due gli occhi per le logge castrensi formate da militari alle
dipendenze dell’ Armata Francese, ma li tenevano aperti per quelle formate dai
sudditi.
Il
timore di essere scoperti trapela dalla lettera del Venerabile La Gioia del 28
febbraio dove precisa che “siamo sotto un Governo, che invigila tutte le
ore sulla nostra condotta: e perciò non ci è permesso eseguire quanto
vorremmo”. Tale doveva essere la conseguenza della fuga di notizie che si
può dedurre non solo che la loggia non poteva far proselitismo ma che le
riunioni dovevano altresì essere infrequenti. Sc si considera inoltre che la
situazione politica internazionale mutò rapidamente quadro. di modo tale da
attirare l’attenzione francese su altri fronti e quindi abbandonare il Regno di
Napoli’, ben si può comprendere l’affievolirsi della struttura massonica anche
a Taranto.
Come
si può notare prima del 2() giugno 1 805 esisteva già una Obbedienza in
territorio italiano retta dal generale Giuseppe Lechi. le cui logge miste di
italiani e francesi erano accomunate nella realizzazione dei principi massonici
di libertà. forza e prosperità.
Filantropismo,
cosmopolitismo e nuovo umanesimo furono altrettanti aspetti che dal 1804 si
dette per struttura in Grande Oriente l
Quindi
nel periodo 1804-1805 esistevano in Italia due tipi di strutture massoniche, una dipendente del Grande Oriente di Francia
e installata nei territori direttamente annessi all’impero o da Napoleone
Imperatore dal 2 dicembre 1804, affidate ai suoi vicari; e quella inglobata
nella Gran Loggia Generale Scozzese di rito Antico e Accettato, “che
comunque voleva comprendere tutti i riti”.
Durante
l’ installazione della Gran Loggia Generale del 20 giugno 1805 venne approvata
la proposta di Lechi di riunire i due Grandi Orienti per fare “un solo e
medesimo centro luce “
Il Rito Moderno o Unito o Riformato francese del 1802
Napoleone considerò ed organizzò la Massoneria come uno
strumento di sostegno e controllo politico. Doveva, però, fare i conti con il
rito scozzese, che riconosciuto dall’Inghilterra, non dava garanzie di fedeltà
e docilità assoluta. Ragioni squisitamente politiche lo indussero a creare in
Francia un nuovo rito indipendente.
L’Assemblea Generale del Grande Oriente di Francia
istituì nel 1802 il
Rito Unito, conosciuto all’estero come Rito Moderno o
Riformato, perché voleva essere una “riforma” del rito scozzese.
Infatti, la sua “piramide” contava undici scalini invece degli
scozzesi trentatré, ed erano:
Apprendista
Compagno
Maestro
Eletto Segreto
Grande Eletto Scozzese
Cavaliere d’Oriente
Sovrano Principe Rosa-Croce
Cavaliere Kadosh
Cavaliere Templare
Cavaliere Templare Maestro o Principe del Regio Senato
Illuminatissimo Gran Maestro (1)
Gran
Maestro fu nominato Giuseppe Bonaparte, Luogotenente Cambacérès, Rappresentante
particolare Roittiers de Montaleau.
Tale rito si rese caratteristico per l’istituzione di
alcune commemorazioni come la Festa del Risorgimento della Natura fissata al 21
maggio, e quella del Riposo della Natura fissata a fine novembre. Ovviamente
l’Inghilterra non riconobbe tale rito e vennero a cessare i rapporti massonici
con la Francia. (2)
Penetrato nel regno di Napoli, il 24 giugno 1809 sorse
nella capitale il Grande Oriente di rito riformato comprendente tutte le logge
del regno, retto dal Gran Maestro Gioacchino Murat, re di Napoli. (3) Murat fu
iniziato il 26 dicembre 1801 nella loggia “Hereuse Rencontre” di
Milano, costituita il precedente 26 giugno all’obbedienza del Grande Oriente di
Francia; loggia costituita da 18 elementi, di cui 11 provenienti dall’esercito
o dall’amministrazione pubblica; (4) a seguito del suo trasferimento a Parigi
fu eletto Venerabile della loggia “La Colombe” del Grande Oriente di
Francia, (5) quindi nominato nel 1803 Primo Gran Sorvegliante dello stesso
Grande Oriente di Francia (6)
Completamente differente era la massoneria di rito
scozzese, ormai indebolita dal nuovo corso ma non estinta se l’11 giugno 1809
riusciva a costituire il Supremo Consiglio del 330 grado, ma proprio
la posizione di fragilità la indusse ad un concordato con Murat conferendogli
il Titolo di Sovra
no Gran Commendatore.
Secondo il marchese Orazio De Attellis, massone scozzese,
nel 1810 i vecchi scozzesi fondarono la società dei Carbonari, complottando con
i borboni e gli inglesi contro i francesi.
Nel 1812, in occasione della campagna di Russia che
allontanava Murat dal regno di Napoli, molte logge rientrarono nel rito
scozzese, ed in breve tempo si ricostituì il Supremo Consiglio autonomo, in
antitesi al Capitolo del rito riformato.
I massoni di rito scozzese si affiliarono alla Gran
Loggia di Edimburgo, costituendo il 23 febbraio 1814 la Gran Loggia Madre di
Rito Scozzese. Ormai lo scozzesismo napoletano aveva assunto apertamente il
ruolo dell’opposizione antinapoleonica e anglofila. Allarmati da tale minaccia,
la regina Maria Carolina fece demolire la Gran Madre
Loggia, ed il
marito, Gioacchino, emanò il 4 aprile 1814 1’editto contro le vendite
carbonare, anche se l’anno successivo tentò una disperata riconciliazione per
fini politici. (7) Nel 1815, ultimo anno dell’epopea napoleonica, crollò il
rito riformato, , ma il rito scozzese continuò a svilupparsi sino al 1820-21.
(8) In Francia, nel 1816 venne ricostituito il Grande Oriente ed eletto Gran
Maestro il Maresciallo Macdonald, che adottò il rito scozzese. Nel regno di
Napoli alla fine del 1820 regnava sotto il versante massonico lapiù grande
confusione, al punto tale che, seppure per breve tempo, si contarono tre grandi
orienti massonici: il primo di Giuseppe Zurlo, già alto dignitario di rito
riformato, di tendenza aristocratica; il secondo di rito scozzese, di tendenza
borghese e costituzionale; il terzo formato da carbonari di Salerno. (9)
La Loggia “Nemica dell’Ambizione’
Dal Quadro
delle logge regolari del Grande Oriente di Napoli per l’anno 1813 risulta che a
Taranto esisteva dal 1810 la loggia “Nemica dell’Ambizione” di rito
riformato, retta dal Venerabile Saverio Trippa e con l’indicazione del deputato
nella persona di Nicola Libetta. (10) Chi erano gli altri componenti? Non
disponendo di un piedilista possiamo considerare qualche ipotesi. Nell’Archivio
di Stato di Lecce si rinviene un elenco di 19 attendibili (=sospetti) di
Carosino, redatto dall’Intendente di Terra d’Otranto il 10 maggio 1829. Il
primo della lista è Saverio “Trippa, arciprete di Carosino, antico
settario prima del 1820, massone e carbonaro, Gran Maestro della seconda, fu
“effervescente” (=ribelle, incontrollabile) e promotore di sette.
Tale rapporto indica solo un altro nominativo come massone, Giuseppe Capriulo,
proprietario, antico settario prima del 1820, effervescente. (11) Stessa
ipotesi può applicarsi ad un altro personaggio citato dall’Intendente nella
lista degli “attendibili” di Taranto, Filippo Mazza, definendolo
“Gran Cordone di Massoneria”, installatore di Vendite. (12) Sempre su
tale elenco si ritrova la setta di Roccaforzata, denominata dei ‘Massoni e
Carbonari”, che contava tra gli elementi più significativi il parroco Vincenzo
Martino, effervescente, partecipante all’assemblea generale dell’Alta Vendita
di Terra d’Otranto, tenutasi a Galatina nel 1817, installatore di sette. (13)
Viene inoltre segnalato l’arciprete di Faggiano Angelo Lenti, antico settario,
massone e carbonaro, organizzatore della Vendita dei “Massoni e
Carbonari” di Faggiano; (14) Salvatore Mendutti di Massafra, canonico,
massone e carbonaro (15); Pietro Luccarelli di Taranto, sacerdote, già Massone,
capo della setta “La Repubblicana” dei Patriotti di Taranto. (16)
A questo punto, possiamo verosimilmente iscrivere costoro
al piedilista della loggia Nemica dell’Ambizione, tenuto conto che non sorsero
altre logge nel periodo 1814-15. Inoltre la qualificazione di antico settario
era riferita a chi era nota l’appartenenza in setta da lungo ternpo.
E quindi quale era la setta che da lungo tempo minacciava
l’ordine
borbonico se non la Massoneria? Trippa, Lenti,
Luccarelli, Martino, Mendutti, oltre ad avere in comune l’appartenenza
massonica presentavano un’altra
affinità: appartenevano
al basso clero. La storia massonica di Taranto è contraddistinta da questa
particolare presenza già a partire dal 1799 con don Giovambattista Gagliardi,
proseguendo con i prelati della loggia Amica dell’Uomo, esistita negli anni
1804-1805. (17) A questo punto non sarà troppo azzardato ipotizzare che questi
prelati sono gli stessi che componevano prima la loggia Amica dell’Uomo e dopo
la Nemica dell’Ambizione. Già il titolo di questa loggia appare inconsueto
rispetto a quello delle altre improntate a valori come l’amicizia, l’amore, la
perfezione, la costanza, a mentre quello della loggia tarantina inneggia
all’umiltà, che è nemica dell’ambizione. Virtù non molto considerata dalla
massoneria dell’epoca ma 0 che ben si concilia con esponenti del basso clero in
loggia, quei prelati che sono a contatto quotidiano con la gente, ne conosce
ansie e umori.
Un clero che, profittando della pausa quindicinale di
condanne papali 6 ritrova in loggia “la stessa dirigenza con la quale
interagisce quotidianamente nel sistema imperiale (18) E sarà proprio quel
“clero massonizzante dell’età napoleonica ad affiancare poi i liberali e
democratici del protorisorgimento nella richiesta di costituzioni e
nell’assecondare il proti cesso di unificazione nazionale”. In altri
termini, era l’istanza di “evangelismo o, cristiano” (19) che questo
tipo di clero portava utopicamente e se profeticamente avanti, ed il percorso
settario dei sopra citati prelati vuole esserne un eloquente esempio.
Il
Venerabile Arciprete Figlio di Raffaele e Anna Lacava, Francesco Saverio Trippa
nacque a Carosino, piccolo paese in agro di Taranto, il 15 gennaio 1766.
Abbracciato l’abito sacerdotale fu dapprima parroco, poi arciprete di Carosino.
Dotato di grande cultura partecipo’ alla rivoluzione del 1799 accettando la
carica di deputato della municipalità ed in concorso con altri deputati e col presidente piantò l’Albero della
Libertà nella piazza del paese. Rubricato
tra i rei di stato riuscì ad evitare il carcere e beneficiò dell’indulto del
febbraio 1801. (20) Ma l’indole libertaria dell’arciprete non si sopiva dinanzi
ad un provvedimento di clemenza. Durante il periodo dei Napoleonidi, regnando
Giuseppe Bonaparte, proponendosi come
municipalista (figura affine all’odierno consigliere comunale), Trippa,
fece notare per spregiudicatezza politica, al punto tale da suscitare le prime
occupazioni di monsignor Capecelatro, l’enigmatico arcivescovo di Taranto,
discusso protagonista del moto repubblicano autoesiliatosi a Napoli, finissimo
dialettico. Capecelatro in una lettera inviata alfedele vicario abate Tanza,
confidò questa preoccupazione innanzitutto per Trippa e poi per lo stesso vicario che da questi
aveva ricevuto doni e denaro te (paventando quindi un tentativo di corruzione
da parte di Trippa), suga gerendo la sottile soluzione di presentare
l’effervescente arciprete non come candidato bensì come cooptato dalla
municipalità di Carosino alla e carica di municipalista. (21)
Col tempo Saverio Trippa maturò come il buon vino la sua
vocazione e rivoluzionaria.
Tra la fine del 1804 e gli inizi del 1805 in Taranto
operavano due logge massoniche, una castrense “Della Filantropia” e
l’altra ordinaria “L’Amica dell’Uomo”, comprese nel piedilista del
Grande Oriente presso la Divisione edell’Armata d’Italia, retta dal generale
bresciano Giuseppe Lechi, dipendente dal Grande Oriente di Francia.
Nella loggia L’Amica dell’Uomo ritroviamo Saverio Trippa
con la carica di Segretario. La loggia cessò di operare dopo il 1805 ma
monsignor Trippa
proseguì l’attività massonica come Venerabile della
loggia “Nemica dell’Ambizione” (1810-1815) all’obbedienza del Grande
Oriente di Napoli, retto da Gioacchino Murat.
Conclusa l’epopea napoleonica anche la massoneria subì
una battuta d’arresto, ma l’esperienza settaria accumulata consentì a Saverio
Trippa di fondare una Vendita carbonara a Carosino, e di organizzare attentati
e insurrezioni nel 1817 e nel 1820, al punto tale da meritare l’attenzione del
generale borbonico (e massone di affiliazione inglese) Riccardo Church. (22)
Trippa si serviva di una struttura di occultamento della setta massonica prima
e della vendita carbonara dopo: la Confraternita del SS Rosario di Carosino.
Gran parte dei rubricati del 1801 e del 1829 erano iscritti alla Confraternita:
“L’opera diplomatica di sensibilizzazione condotta dal clero locale e da
don Saverio Trippa in particolare, con la complicità degli intellettuali
confluiti in gran parte nel sodalizio del Rosario aveva scosso le coscienze
anche dei più increduli; le adesioni alla setta lievitarono rapidamente,
soprattutto fra i confratelli, ed il loro numero, andando ben al di là dei
rubricati sfuggiva ad ogni sospetto”. Gli uomini della vendita-confraternita
erano inseriti saldamente al potere del decurionato, per cui si verificava
paradossalmente che quando l’intendente ordinava la formazione di un corpo di
polizia o di rappresentanza formato da persone di specchiata fede borbonica
venivano indicati i settari della confraternita. “Il clero e la
Confraternita del SS. Rosario continuarono ad avere un ruolo centrale, subendo
sino all’ultimo (unità d’Italia) i sospetti della polizia che non perdeva
occasione per colpire sodo”. (23)
Nel 1818 la commissione militare esiliò Saverio Trippa
per 19 anni, di cui scontò appena un anno, godendo dell’indulto regio (24).
Morì a Carosino il 18 novembre 1829. (25)
Nicola Libetta
Dottore in Legge, fu sindaco di Lecce dal 1792 al 1794. Secondo una fonte fu giacobino e per tale appartenenza venne coinvolto nel
processo del 1793-94.
Nominato giudice venne trasferito a Catanzaro, e nel 1799
processò i rivoluzionari locali, ma il cardinale Ruffo, constatata la sua
moderazione di giudizio, chiese al ministro Acton di processarlo. Nel 1806 fu
nominato Procuratore regio del tribunale speciale straordinario di Trani-Lecce
e Lucera. Nel 1809fu tra gli ideatori del codice penale. Da tale anno visse a
Napoli ove esercitò l’avvocatura. Ben noto agli ambienti intellettuali di Terra
d’Otranto, fu indicato quale deputato della loggia “Nemica
dell’Ambizione” di Taranto, proprio perché residente a Napoli. Il Grande
Oriente era strutturato in modo tale che i deputati (=rappresentanti) portavano
le istanze delle logge di periferia. ln tal modo venivano conosciute fatti ed
esigenze delle logge, che altrimenti non potevano esser note per via delle
distanze, dei mezzi di comunicazione, e della sicurezza della comunicazione.
Libetta nel 1813 era stato nominato Consigliere di Cassazione da Murat, e nel
Grande Oriente di Napoli rivestì la carica prestigiosa di Gran Presidente della
Gran Loggia di Amministrazione.
Con il ritorno dei Borboni non solo non cadde in
disgrazia ma fu promosso, nel 1820, a Presidente della Suprema Corte di
Giustizia. (26)•
NOTE
BIBLIOGRAFICHE.
(l) Anonimo, Rituali e Società Segrete, Ed.
Convivio-Nardini, Firenze 1991, p, 43;
(2) Anonimo,
Rituali e Soc. cit. p. 69;
(3) Giuseppe
Gabrieli, Massoneria e Carboneria nel regno di Napoli, Ed. Atanor; Roma
1981, pp. 23-25;
(4) Vittorio
Gnocchini, Almanacco Massonico, Ed. A, Pontecorboli, Firenze 1994, p. 26
giugno;
(5) Vittorio
Gnocchini, Napoleone e la Massoneria, in Agorà n. 3/97 p. 16;
(6) Vitt0iio
Gnocchini, Almanacco cit. p. 26 dicembre;
(7) Renato
Soriga, Le società segrete e i moti del 1820 a Napoli, in Le Società segrete,
l’emigrazione politica ed i primi moti di indipendenza, Modena 1942, p. 80;
(8) G.
Gabrieli cit. pp. 23-25;
(9) R.
Soriga, cit. pp. 90-91;
(IO) Giuseppe Gabrieli, II Grande Oriente murattiano, in
Rivista Massonica del G. O.
1. n. 7/1976p. 421;
( Il) Archivio Stato Lecce, Intendenza Terra d’Otranto,
Atti di Polizia, Pacco 58, Attendibili, fasc. 1488 p. 291 anno 1829,
integralmente riportato da Antonio Cinque Sopravvenienze storiche di una
comunità in Carosino, Editore Mandese, Taranto 7988, P• 146;
(12) Vincenzina Zara, La Carboneria in Terra d’Otranto,
Ed. E Ili Bocca, Tormo 1913,
p. 150 nota;
(13) Ferrante
Tanzi, VArchivio di Stato in Lecce- Note e documenti, Stabilimento Tipografico
Giurdignano, Lecce 1902, p. 203;
(14) C.
Tanzi. cit. p. 204;
(15) Aychivio
Stato Lecce, Intendenza Terra d’Otranto, Atti di Polizia, Attendibili, fasc.
1237, riportato da Michela Pastore in Settari in Terra
d’Otranto, Lecce 1961;
(16) Salvatore
Panareo, Dalle carte di Polizia all’Archivio Provinciale di Lecce, in
Rinascenza Salentina, anno 1938, pp. 1-4; cfr. C. Tanzi, cit. , p. 206;
(17) Francesco
Guida, La Massoneria tarantina durante l’occupazione francese (1804-
1805) in Agorà, anno IV n. 4 dicembre 1999, p. 41;
(18) Aldo
Alessandro Mola, Le stagioni massoniche dell’età napoleonica: dal giacobinismo
all’Impero, in Libertà e modernizzazione, Ed. Bastogi Foggia 1996, p. 105:
(19) Gian
Mario Carzaniga, La Religione dei moderni, Ed. FTS Pisa 1999, pp. 236-237;
(20) Nicola
Vacca, I Rei di stato Salentini del 1799, Trani 1944, p. 48;
(21) Nicola
Vacca, Terra d’Otranto fine settecento inizio ottocento, Soc. Storia Patria per
la Puglia Bari 1966, p. 102;
(22) Antonio
Cinque, La Confraternita del SS. Rosario nei rapporti tra Chiesa e Società a
Carosino, Ed. Mandese, Taranto 1993, pp. 53-57;
(23) A.
Cinque, La Confraternita cit. , idem;
(24) Pietro
Palumbo, Risorgimento Salentino, Lecce 1911, p. 303:
Il prorompente progresso tecnologico dell ‘ era spaziale
che incalza, febbrilmente e spasmodicamente proteso alla ricerca di risposte
sempre più eclatanti ai tanti interrogativi che l’umanità si pone, si rifiuta,
pur tuttavia, di accettare l’esistenza di una “suggestione satanica”
che possa indurre a compiere un delitto, ispirato dalla “magia nera”.
Ad onor del vero, nel pieno rispetto della casistica
della giurisprudenza contemporanea, non esiste un solo caso di “processo
per magia”. ovvero per pratiche di occultismo nero.
Con lo spegnersi della brace degli ultimi roghi
medioevali, e col perdersi nel vento delle urla di coloro che, accusati di
stregoneria, venivano torturati, la “magia nera” e il
“satanismo” non rappresentano più, oggi, un caso giuridico. Nessuno
si sognerebbe mai, alla soglia del III millennio, di accusare un proprio simile
di stregoneria, per il semplice piacere di farlo bruciare in una piazza, ovvero
di vederlo torturato prima, e alla gogna poi, perché reo confesso di non
credere in Dio.
La mutazione degli usi e dei costumi della società, che
si modifica con un ritmo sempre più vertiginoso, unitamente alle esaltanti
conquiste della scienza, non potevano non mettere a dura prova l’equilibrio di
questa “umanità ” di fine secolo. L’ accadimento degli eventi, per il
loro incessante e fatale sovrapporsi, ha determinato in tutti uno stordimento
tale da non farci rendere conto che qualcosa di misterioso, di diabolicamente
sottile, stava insinuandosi tra noi. negli usi e nei costumi della gente, senza
distinzione di estrazione sociale e di censo.
“E’ il Maligno che si ripropone con la ben nota
arte della mimetizzazione, per fare nuovi proseliti…
sentenziano, stancamente, ripetendo a se stessi, i più
anziani, quasi a voler giustificare l’inspiegabile e ciclico diffondersi
dell’interesse verso tutto ciò che appartiene alla “sfera dell
‘inspiegabile ‘
Le pratiche di “satanismo” e di
“vampirismo associate a quelle tipicamente legate ai presunti contatti con
“entità aliene “, a detta di alcuni venute dallo spazio, non potevano
non coinvolgere l’attenzione dei giovani, di questa società che si avvia
stancamente verso il “Duemila”, delusi irrimediabilmente, purtroppo,
dalle mille promesse fatte, e giammai mantenute, da politici egoisti e da
cattivi amministratori della “cosa pubblica’ .
Essi, pur di assurgere agli onori del potere, non
disdegnano mai di presentarsi come “illuminati messia”, pronti ad
elargire benessere e giustizia, a tutti gli uomini di buona volontà.
Incessante e sistematico, poi, il bombardamento di
notizie distorte, relative spesso ad accadimenti che coincidono con misteriosi
e terrificanti riti, non solo non mette in guardia gli sprovveduti ma,
alimenta, anzi, il diffondersi del “satanismo ” e con esso, una
fatale propensione verso le pratiche magiche. Diventa, così, oltremodo
difficile distinguere ciò che effettivamente appartiene all”‘arcano”
dalle turbative di natura psichica quasi sempre legate a terrificanti rituali
dove soltanto “orrore efollia ” sono le supreme dominanti.
L’ interesse sempre più crescente per il “mondo dell
‘arcano “, pur mettendo in moto il meccanismo micidiale e inarrestabile
dell’indagine, riesce ad avviare un processo di attualizzazione del metodo
interpretativo dell”‘inspiegabile”, tanto da presentare gli
avvenimenti ad esso legati come se fossero la risultanza di uno “psichismo
collettivo “, scaturito da un diffuso senso di insoddisfazione.
L’occulto, il satanismo, il vampirismo e tutto ciò che
appartiene al mistero, entrano così a far parte del mondò degli X-files.
Per la moderna terrninologia, con questo nome in codice.
entrano a far parte del mondo degli X-files anche i fenomeni psichici che, pur
privi di spiegazioni razionali, liberano quelle forze represse, inconsce, che,
una volta scatenate, sfociano sempre in aberranti e orrendi coinvolgimenti
psicofisici.
Uno degli ultimi casi, quello della quindicenne
Heather Wendorf di Eustis, piccolo centro nei pressi di Orlando, in Florida,
che ha massacrato i suoi genitori con l’aiuto di quattro suoi coetanei,
rappresenta l’esempio classico di questo particolare e pericoloso
coinvolgimento. La ragazzina, faceva parte di una setta i cui componenti
praticavano il vampirismo ed i diabolici rituali adottati dai proseliti,
unitamente al plagio vicendevole, al pari di una droga micidiale, inducevano
gli adepti a sacrificare topi e animali domestici con lo scopo di berne il loro
sangue, ancora caldo. Altre volte, producendosi ferite, si scambiavano generose succhiate di rossa linfa.
Superare il limite dell’impensabile, ed in
particolare con pratiche che con il mondo dell’umano hanno ben poco,
conferiscono al soggetto la consapevolezza di un apparente infinito potere di
vita e di morte che si accompagna, quasi sempre, ad un completo distacco dalla
sfera dei sentimenti e del socialmente lecito. Non si potrebbero spiegare
altrimenti i tanti, purtroppo, avvenimenti del tipo di quello accaduto a Villa
Polanski, anni addietro, e della strage che ne seguì, ad opera di un tale
Charles Manson e delle sue adepte, chiamate “le schiave di Satana “.
Ecco cosa avvenne. A Hollywood, Charles Manson, conosciuto come Satana Manson,
al termine di un rito di stregoneria, si introdusse nella villa del regista
Roman Polanski, a Beverly Hill, unitamente alle sue fedeli, con lo scopo di
compiere un massacro rituale. La setta, in preda a un isterismo colletti vo, si
accanì con particolare ferocia sui poveri corpi senza vita delle vittime tanto
che Susan Atkins, amica e schiava prediletta di Manson, pugnalò ripetutamente
il corpo dell’ attrice Sharon Tate, moglie di Polanski in attesa di una creatura,
e di aver golosamente bevuto il sangue che zampillava copioso, dalle ferite.
Il rituale di magia nera non poté compiersi completamente per mancanza
di tempo. La Atkins, infatti, aveva ricevuto l’ ordine dal suo “nero
maestro” di strappare gli occhi delle vittime e lanciarli contro i muri,
dopo aver effettuato il totale taglio delle dita di tutti.
Alla luce di episodi del genere, che ci riportano irrimediabilmente
nell’oscuro Medioevo riesce difficile non considerare come la componente non
umana, certamente diabolica, in particolari stati di animazione sospesa prenda
il sopravvento sull ‘uomo inducendolo a compiere atti decisamente contrari al
preordinato ordine della natura.
Si insinua a questo punto il sospetto, malgrado il sole splenda alto e
luminoso nel cielo, dell ‘ esistenza di un mondo sconosciuto, nascosto, pieno
di incubi e di irrisolti interrogativi…:
e se questo mondo misterioso, che vive accanto a noi, forse in noi, nel nostro
inconscio, non più legato ad alcun condizionamento, si scatenasse da un momento
all’altro, senza il volere del nostro Io cosciente… ?
Tutti noi conosciamo il carciofo, pianta
offense, della famiglia delle composite, che in Italia è coltivata su
un’estensione di circa 60mila ettari, principalmente in Lazio, Puglia, Sardegna
e Sicilia. Il vegetale abbisogna per il suo sviluppo di terreni profondi,
permeabili, impiegabili e di clima mite, in poche parole ciò di cui necessita è
quell’ambiente mediterraneo che l’Italia di qualsiasi altro paese che si
affaccia sul mare e che fa dell ‘ Italia
stessa la duttrice ed esportatrice di carciofo nel mondo (circa i 2/3 della
produzione totale).
Il CYNARA
SCOLYMUS, questo è i1 Suo nome scientifico, oltre che primo ingrediente di
gustosi e innumerevoli piatti della nostra cucina è apprezzato per la sua
azione terapeutica sulla ghiandola epatica. Come coleretico, diuretico e
leggero lassativo, stimola beneficamente la funzione del fegato, esercitando
un’azione-benefica sulle forme itteriche, subacute e croniche, e mente nei casi
in cui l’insufficienza epatica manifesta sotto forma di stitichezza e oliguria;
inoltre è antinfiammatorio ed antipruriginoso e gli amari è stato anche usato
come lotta contro il paludismo.
Nell’ analisi della pianta tra i
vari zuccheri ed enzimi è
stato individuato il principio attivo che è all’ origine di tale azione
terapeutica: la CINARINA Con questo nome è indicato l’estere dicaffeico dell’
acido chinico ovvero una molecola organica nata dall’’unione dell’acido caffeico
e dell’ acido chinico e che oggi è il componente principale di pillole, fiale, sciroppi, bevande utilizzati
nella terapia del fegato ammalato.
Ma
il carciofo, umile e generoso al quale oggi si rivolge
l’interesse scientifico ha una lunga storia, che si perde nelle nebbie del
tempo e sfuma in mitiche lontananze da leggenda. Già il suo nome scientifico,
CYNARA SCOLYMUS, richiama alla memoria la sfortunata e bella fanciulla di nome
CYNARA, dai lunghi capelli color cenere (dalla quale il nome), che concupita da
Giove, volle imporre il suo rifiuto al Dio, il quale sdegnato la mutò nella
pianta, oggetto del nostro studio, spinosa, appuntita, pungente al tatto:
(SKOLYMOS), in greco. Tale il mito, del quale peraltro non si rileva traccia
nei maggiori autori antichi, ma che noi interpretiamo in tal senso: CYNARA
SCOLYMUS è il simbolo della Dea Madre, sovrana assoluta della natura feconda,
ovvero la bella fanciulla dai cinerei capelli, che è una probabile ninfa legata
alla Madre Terra e al di Lei sposo Vulcano, dio delle manifestazioni endogene
ed eruttive del nostro pianeta (ecco spiegati i capelli color cenere), rifiuta
l’imposizione ordinatrice del Cielo che le si manifesta sotto le spoglie di un
dio e sacrificando se stessa riafferma la -—ïofie non subordinata della Madre
Terra e del
‘dLei sposo
nei confronti del Cielo. Ma come vedremo inseguito gli esiti di simili vicende non
sempre gli stessi.
Attori classici ed archeologi
del nostro tempo, rispettivamente, trasmettono conoscenze sul carciofo a
beneficio di noi uomini del XX secolo e che le avevamo perse quasi totalmente.
Veniamo a sapere che là nostra
pianta è originaria ria dell’Etiopia ed attraverso l’Egitto giunge nel bacino in tempi remoti,
precedenti alla nostra era.. Essa, però
non è il carciofo spinoso che noi conosciamo, il quale prende il nome dalla parola araba HARSCIOF o AL-KHARSHUF che
significa “spina di terra” e “pianta che punge” e che fa la
sua apparizione definitiva in Toscana,
nel 400, ad opera di agricoltori italiani
e sotto il patrocinio di Caterina de’ Medici. Il CYNARA dell’antichità è il
caro, pianta allo stato selvatico, ovvero il CYNARA CARDUNCULUS coltura e
selezione successiva deriverà il nostro
In
campo medico-farmacologico Pedanio Dioscoride con il suo “SCOLIMO”,
galeno di Pergamo con il suo CYNARA
Teofrato con il suo “Cactoo”,
ci illustrano l’impiego terapeutico della pianta, descrivendone la collocazione
sistematica, le caratteristiche, le droghe e le preparazioni.
Massimo Pallottino, archeologo insigne, ci testimonia
la presenza e la coltivazione del cardo in terra di Etruria già durante il
periodo di egemonia della Confederazione delle 12 città-stato.
Afri autori antichi, fra tutti L.G.M.
Columella, Plinio il vecchio, Esiodo ed Alceo, ci tramandano nozioni
interessanti: Columella nel suo “De Re Rustica” da una descrizione
sui tempi e i modi della coltivazione del carciofo spinoso e ci comunica che è
bene piantarlo perché “…è il tempo
che il mondo si scalda, che figlia il mondo e concepe Amo»; già s ‘affretta all
‘unione, già il grande respiro dell’orbe s ‘affanna per Venere, e spinto da
desideri ardenti, i suoi parti carezza e riempie di vita…”; che caro
sarà al bevitore Bacco e non ad Apollo canoro; che abbisognerà “di molta
cenere, perché a questo ortaggio sembra adattarsi specialmente tale tipo di
ingrasso“. Plinio il vecchio nel
suo “Naturalis Historia” annovera diverse varietà di Cardui: lo
Scolimo, schiacciato e spremuto prima della fioritura, fornisce un succo utile
alla cura dell’ alopecia; lo Scolimo Orientale (Limonia) è diuretico, elimina
il cattivo odore delle ascelle attraverso l’urina, unito all ‘ aceto è utile nella
cura di alcune affezioni cutanee, nel vino ha effetto afrodisiaco. Inoltre la
radice di qualsiasi varietà di Carduo, bollita in acqua, tonifica lo stomaco e
l ‘utero, sembra influire nel
concepimento di figli maschi e provoca la sete ai bevitori.
Esiodo, in “Opere e Giorni”, ed Alceo, tratto dai
frammenti, ci riferiscono che, quando questa pianta è in fiore, le cicale
cantano più forte, e le donne sono più avide di piacere, mentre gli uomini sono
più fiacchi nei riguardi del coito: per una sorta di provvidenza della natura,
le proprietà eccitanti del carciofo sono allora massimamente attive.
Degli autori citati è bene mettere in evidenza alcune elle
notizie forniteci:
la pianta è particolarmente cara a Venere, l’ antica
Dea italica, che Varrone e Plinio ci dicono divinità agricola, e quindi della
fertilità, oltre che dell’ Amore, e che Etruschi e Romani conoscono ed
identificano con i nomi di Turan e di Venere-Afrodite. Riappare in tal modo la
Dea Madre in una delle sue tante identità e dona ai suoi figli mortali un
frutto prodigioso (Pharmakon) per i dolci incontri amorosi e per la
procreazione.
Il carciofo abbisogna di cenere… Un ‘ulteriore
ipotesi sul nome della pianta lo ritiene derivante dal vocabolo cenere, che
ricca di potassio fertilizzante, ricopre la terra dove la pianta cresce.
Ipotesi plausibile, ma a noi piace vedere, soprattutto in questa pratica
concimante la più poetica ripetizione rituale e simbolica del connubio tra
Venere e Vulcano.
Il carciofo provoca la sete ed è caro al bevitore Bacco
e non ad Apollo canoro… Sembra la descrizione dei sintomi provocati
dall’eccessivo alimentarsi con il carciofo (molta sete e poca voce), ma come
anche testimoniato da un rinvenimento archeologico presso la Città del
Vaticano, evinciamo che il carciofo selvatico è caro allo stesso Dioniso e non
solo a Venere. Il reperto, che suffraga la nostra tesi, è una fontana fatta
costruire per la propria residenza decentrata dall ‘ imperatore Nerone e
consacrata al dio del monte Nisa, del quale era adepto lo stesso imperatore. La
fontana culmina con il tipico tirso bacchico, che tradizionalmente è un’ asta
sormontata da un viluppo di foglie di edera, o di vite, o da una pigna, ma che
in questo caso sembra essere proprio un carciofo spinoso (come da ipotesi degli
stessi archeologi). Sappiamo che il tirso, oltre ad essere portato nei cortei
dai seguaci del dio, era utilizzato nelle iniziazioni sessuali femminili
durante i riti dionisiaci. Questo ci porta ad ipotizzare che pigna, carciofo o
foglie che siano, in quanto simbolo del dio e del mondo vegetale a lui caro il
tirso in ultima analisi è sacro alla divinità della natura feconda: Venere,
appunto. Ogni forma vegetale che Etruschi e Romani sfruttano nella coltivazione
è dono della Dea delle Messi, delf ‘ Agricoltura, della Fertilità e così anche
ogni pianta che selvatica, cresce libemda ogni intervento umano. Ma per Dioniso
il nesso con il mondo naturale è duplice ed innegabile. Lo stesso mito del
concepimento e della nascita del Dio è altamente significativo: Semele, futura
madre del Dio, che secondo due versioni distinte è figlia di Cadmo ed Armonia o
Dea Madre di Frigia, viene concupita da Giove ed ella stessa accetta le
attenzioni amorose del Dio, a patto che le si mostri nella propria pienezza.
Allora il Padre Celeste, nell’ unione amorosa, si rivela nella sua piena
potenza folgoratrice e al momento del concepimento Semele rimane incenerita dal
la visione stessa del suo amante, che, pietoso, decide di salvare da morte
certa e portare fino al momento della nascita protetto nella sua coscia il
frutto del suo amore per la sfortunata Semele. Dioniso è il frutto, che nasce
per così dire due volte: la prima come mortale sottoposto alle leggi di Madre
Terra, la seconda come Dio, figlio della maggior potenza ordinatrice del Cielo.
Questa volta Giove riesce, esprimendo la sua tremenda potenza, a vincere una
già arresa Dea Madre. che aveva sì accettato I ‘ imposizione del Cielo, ma che
l’aveva pur sempre sfidata volendone cogliere la pienezza qual pari divinità.
Giove vince e pone il suo ordine
sul mondo naturale, che già aveva regole e leggi antecedenti alla stessa Forza
Celeste. Ma qual figlio ha generato! Il Dio, nato due volte, conserva in sé il
corredo genetico della madre sacrificata ed in tal senso non fa che manifestarsi
come sovvertitore e vendicatore.
Primo passo di Dioniso, accolto tra gli Dei, è di
condurre la Madre dall ‘ Oltretomba alle sedi celesti per restituire la dignità
divina che le compete.
Successivo passo è quello di avvicinarsi al mondo
della natura ed ai mortali. Dona agli uomini la viticoltura, la vendemmia e la
preparazione del vino, ma principalmente reca il divino nella vita umana.
Dioniso si presenta agli uomini sovvertendo con i suoi principi le leggi umane
derivanti dall ‘ ordine superiore divino: viene soprannominato “Lo
straniero in città”. Travolge le norme mortali e lo fa con la pazzia
violenta ed incontrollata (vedasi a questo proposito la vicenda di Penteo, re
di Tebe, ne: “Le Baccanti”), ma soprattutto con un contatto istintivo
e diretto con il divino, senza bisogno di frapporre lunghi e stereotipati
cerimoniafi per comunicare con il Superiore. Travolge in tal modo l’ordine
divino che prevede gli uomini, e per prime le donne, alla base di una piramide
senza possibilità di sottrarsi alla gerarchia e ai rituali religiosi. A Lui,
inizialmente, si rivolgono ceti bassi o frustrati, ma soprattutto donne, che
nello stile di vita e nella filosofia religiosa del Dio, vedono il modo di
fuggire una realtà che le vede relegate, come per l’ordine divino, agli ultimi
posti. Dioniso riporta a una dimensione naturale il divino e come reca il
divino nella vita umana, altrettanto reca I ‘uomo nella vita divina. Ma il
criterio e il percorso seguiti sono più semplici di quelli codificati in quanto
il contatto è raggiunto con l’estasi, irrazionale, lontana dalla logica umana,
che poco comprende di altri tipi di razionalità. Attraverso l’ebbrezza che il
vino da al suo bevitore si raggiunge l’ acme di tale processo. Qui interviene
il nostro carciofo, C YNARA, che secondo un etimo del nome potrebbe derivare
dal verbo greco ” ” (Kineo), che vuol dire: eccitare, sconvolgere,
agitare, scuotere. Qui interviene come predisponente al bere, come
incrementante la sete, e spinge ad un più alto livello di ebbrezza estatica, lontano
da ogni freno inibitorio stabilito dalle leggi scritte e non della società
mortale, lontano dai criteri apollinei del quotidiano. Qui arriva la
“Menade”, o comunque il seguace del Dio, che, come un asino (vedansi
Apuleio ne “L’ Asino d’ oro”, Luciano in “Lucio”),
sprofonda nell’ infimo per giungere al superno. Questa è la più grossa vittoria
delle energie naturali, forze divine, ma sottoposte all’ ordine celeste. Forze
che Dioniso condivide, ma che si rifanno tutte alla Dea Madre, madre del Dio e
di tutti i mortali. per quanto riguarda l’Italia? In Italia il culto del Dio
del Monte Nisa giunge prima in Etruria e in Italia meridionale, poi a Roma. Dai
“Rasenna” Dioniso viene battezzato “FUFLUN” probabilmente
dall ‘ appellativo greco ‘ . ‘ (della città di Biblos) e gli venne consacrata
la città di Popluna (Populania). In breve il Dio acquista un notevole seguito
perché nei suoi insegnamenti i Tirreni vedono la via di fuga da un edificio
religioso che molto pessimisticamente non si sottrae in alcun modo al volere
dei SUPERIORES INVOLUTI Dl (il fato greco e latino). FUFLUN e’ soprannominato
PACHIE (Bacchico) e i suoi seguaci si riuniscono nei
“PACHANA”.
A Roma, proveniente dall’Etruria e dall’Italia
meridionale (Magna Grecia), Dioniso viene unificato con, Libero, dio italico
della fecondità, con Bacco romano e con lacco, figlio di Cerere.
Dal sincretismo delle quattro divinità ne scaturisce
la figura di Dioniso con caratteri che fondano spensierata allegria, benessere
naturale e simbolismo filosofico-religioso.
Interessante e’ notare che il
Dio ha contatti con Cibele di Frigia, Demetra greca e la figlia di lei
Persefone, tutte divinità della natura feconda e personificazioni della
vegetazione in tutto il suo rigoglio, tutte divinità che a lui sono associate o
nei riti di origine agreste o nei Misteri a lui dedicati.
Ma ancor più
interessante e’ dare un’occhiata al seguito divino di Dioniso. Intorno a lui si
stringono le divinità naturali, che la religione del Panthen grecolatino ha
emarginato o dimenticato del tutto. Sono i Daimones a cui si rivolgevano le
popolazioni italiche prima che gli dei del cielo imponessero la loro supremazia
unificatrice. Sono i Re-sacerdoti degli albori della civiltà, elevati a rango
di divinità dopo la loro morte. Venerati come protettori dei campi, dei
raccolti, delle foreste, aleggiavano come spiriti sorveglianti sulle comunità,
ma in vita erano stati uomini dalle potenti doti soprannaturali, a lungo punto
di riferimento per società che tramite loro si mettevano in contatto con il
Superiore. Sciamani in grado di viaggiare lungo l’asse del Cosmo e attraverso i
suoi molteplici piani, capaci di guarire le malattie dell’uomo non più in
equilibrio con l’ Universo, dotati del dono della preveggenza. Questi saggi
abitavano le foreste e le grotte, vivevano in piena sintonia con la Natura, con
la Dea Madre, cogliendone i più intimi segreü. In simbiosi con gli animali
(principalmente l’ orso, il lupo, il cervo e il capro) sentivano con loro e
come loro lo scorrere dei flussi magici nell ‘Universo.
Ad essi da voce nuovamente
Dioniso, recuperandoli ad un mondo divino che li ha accantonati, dimenticandone
il valore.
Alla corte del Dio Bromio sono presenti:
Sileno, precettore e compagno
del Dio, famoso per la saggezza, per il bel canto ed il dono della preveggenza.
Fauno Luperco, detto Fatuo
ovvero il vaticinatore, che in sogno appariva agli oracoli dei boschi a Lui
consacrati.
Pan l’arcadico, Dio dei pastori,
dei cacciatori e del bestiame, preveggente e taumaturgo.
Silvano (l ‘ etrusco Selvans), protettore delle
selve, dei fmtteti e della campagna,’abitatore del bosco sacro di Cerveteri,
quel bosco sacro (Vipina in eù-usco) che Virgilio, nel libro VIII de “L’
Eneide”, nomina quando Enea inconÙa la madre Venere presso le rive del Caetiüs
Amnis (Fosso Vaccina). Bosco che Silvano, annoverato tra gli antichi pelasgi,
divide con Lasa Mpinas (la Dea della foresta – Diana la Dea), in connubio con
ella: sua sposa, sua madre, sua sorella.
Insomma, Dioniso il sovvertitore, si oppone anche con i
suoi cortigiani alle catalogazioni, alle norme, alle leggi scritte ed imposte;
così fa contrapponendo all’Ars Haruspicina di Tagete, genio fanciullo dai
canuti capelli, e all’ Ars Fulgatoria della ninfa Vegoia il sentire più
istintivo e diretto degli DeiSciamani. Ai Libri Sibyllini, che impongono
l’interpretazione catalogata dei segni divini, risponde con la comunicazione
continua, con il rapporto naturale tra Uomo e Divino, attraverso
“canali” che non necessitano della gestione di schiere di sacerdoti indottrinati.
Alla lettura del fegato degli animali, come prescritto nella Disciplina
Etrusca, che tanto influirà sulla divinazione romana, ribatte con la
stimolazione diretta del fegato di ognuno dei suoi adepti. Stimolazione che si
ottiene anche con il carciofo spinoso, che da quanto sappiamo oggi in merito
alla “cinarina”, agisce sulla ghiandola epatica attivandone le
funzioni. Funzioni che per gli antichi, e non solo, vanno ben oltre la consueta
fisiologia medica, poiché il fegato è considerato sede delle passioni e del
coraggio, generatore delle forze endogene e recettore delle esogene.
Dioniso ci indica che non v’è bisogno di
ulteriori metodi, di ulteriori strumenti, nell’uomo è già insito “…(l’organon) che lo pone in diretto
contatto con il divino…”
La caduta dell’impero romano d’occidente determina il
crollo definitivo dell ‘edificio socio-politico-religioso del mondo antico, che
peraltro già aveva dato segni di cedimento strutturale.
La sapienza, accumulata in secoli di civiltà, sembra
sparire calpestata dalla violenza e dall ‘ ignoranza; incalzata dalla barbarie
si nasconde, come un animale braccato, in rifugi lontani dalla luce, in attesa
di tempi propizi…
Il carciofo, continua ad essere coltivato, o meglio
raccolto, per la preparazione degli infusi, decotti tisane, misto al vino e
all’aceto, oltre che per una alimentazione che già Eratostene di Cirene aveva
definito ”per poveri” (e noi aggiungiamo, se il carciofo è alla base di
tutta l’ alimentazione).
In tal modo la cultura contadina conserva tratti della
sapienza di un tempo.
Ma per il resto?
Per il resto bisogna aspettare qualche secolo, attendere che
il Medio Evo sappia esprimere un ordine e se pur precario, dopo il caos della
barbarie.
Ed ora spunta di nuovo il
carciofo, ma come altrc da sé. Compare come motivo decorativo nei capitelli che
sostengono le statue della Cattedrale di Chartres.
Se prestiamo fede agli scfitti di
Fulcanelli, una cattedrale è un libro di alchimia scolpito nella pietra, dove
ogni elemento architettonico è un simbolo con precisi riferimento alchemici. E
allora, come interpretare il carciofo?
L’alchimista dopo aver colto nei
“campi” il Cinabro, lo deve sottoporre nell’ Atanor alle operazioni
di trasmutazione secondo il criterio del “solve et coagula”. Il
Cinabro, in quanto sale minerale, è composto di mercurio e zolfo, sotto forma
di solfuro. I solfuri in alchinua sono detti “fegati”.
Sappiamo che il carciofo agisce
sul fegato, ovvero il solfuro nell’ Atanor umano. Il solfuro deriva dallo
zolfo. Insieme mercurio, zolfo e sale hanno colori distintivi e rappresentativi
in ambito alchemico: il nero, il bianco, il rosso, rispettivamente. Questi
stessi indicano le tre fasi della “Grande Opera”. Nelle
rappresentazioni pittoriche l’Opera alchemica è raffigurata come un alambicco
che contiene tre colombe: una nera, una bianca, una rossa (evidente il
significato, come sopra detto), ma che rappresentano anche il corpo
(mercurio/nero), I ‘anima (zolfo/bianco), lo spirito (sale/rosso).
L’anima, dunque, è una colomba
bianca derivante dai solfuri.
Jung, nella sua interpretazione
dell’ Arte Regia, mette in evidenza che I ‘ anima è per I ‘ alchimista l’
architetto femminile presente nell ‘uomo, comunque è sempre presente.
Gli antichi ci hanno tramandato
che la colomba è simbolo dell’Eros sublimato e in quanto sublimato e in quanto
sublimato è puro, ovvero bianco. Per questo Dodona inviava una colomba quale
messaggera per vaticini e presagi favorevoli nella foresta a lei dedicata.
Nella stessa foresta la quercia di Dodona aveva accanto a sé le colombe sacre,
simboli della Grande Madre Tellufica. Panmenti, ad Afrodite, Dea della
fecondità, erano offerte in dono, dagli amanti, colombe, perché care alla Dea.
Nei bassorilievi funebli si vede spesso una colomba bianca, simbolo dell’anima.
Allora, se il carciofo
contribuisce a far reagire i solfufi, i fegati/solfuri derivano dallo zolfo,
ovvero dall ‘ anima, possiamo, senza timore di smentita, affermare:
La fine di El Niño è arrivata. Ci darà un’estate meno
calda? Se non succede abbiamo un problema
di Giacomo Talignani
Un’inondazione in Russia
Un’inondazione in Russia (reuters)
Secondo il fisico Pasini se l’esaurirsi del fenomeno non
porterà ad un abbassamento delle temperature “dovremmo davvero
preoccuparci. Credo e spero di non essere arrivati a una fase in cui il
riscaldamento accelera a tal punto da non poter tornare indietro. Altrimenti
saranno guai”
16 Aprile 2024
El Niño sta finendo. Anzi, per l’ufficio meteorologico
australiano è “già finito”, mentre per il Noaa (National Oceanic and
Atmospheric Administration) statunitense “si sta indebolendo”. Come
sappiamo dai dati appena pubblicati da Copernicus climaticamente parlando gli
ultimi dieci mesi – i più caldi di sempre e consecutivi, in grado di battere
tutti i record precedenti – sono stati un vero e proprio incubo per il Pianeta.
Il motivo principale dell’innalzamento delle temperature, con conseguenze
drammatiche a livello di fenomeni meteo intensi, è da ricercarsi nella
combinazione fra la crisi climatica innescata dall’uomo e il fenomeno naturale
di El Niño .
Meteo, è stato il mese di marzo più caldo mai registrato:
superato il record del 2016
09 Aprile 2024
Questo fenomeno, anche noto come ENSO, è periodico e
provoca in generale un forte riscaldamento delle acque superficiali del
Pacifico centro meridionale innescando un cambiamento della circolazione e una
serie di condizioni, dalle ondate di calore alla siccità, dalle inondazioni
sino all’aumento delle temperature, che impattano profondamente sulla vita
della Terra. Dopo alcuni anni del suo fenomeno opposto, La Niña – che tende al
raffreddamento (a seconda delle zone) – la scorsa estate gli scienziati avevano
annunciato il ritorno di El Niño prevedendo la durata di circa un anno. Un anno
in cui il fenomeno ha contribuito a pesantissime siccità (dall’America
all’Africa passando per l’Europa) e record di calore superati uno dietro
l’altro.
L’intervista
“L’Europa tra 50 anni sarà bollente e ancora più
fragile, dobbiamo adattarci”
di Matteo Marini
08 Settembre 2023
Ora però la maggior parte degli scienziati concorda su
una netta fase di indebolimento, dopo il picco raggiunto a dicembre e gennaio,
e nelle prossime settimane si entrerà in una fase neutra. Poi, a partire da
agosto circa, dovrebbe subentrare La Niña e ci si attende un generale
abbassamento dellle temperature, anche se non è affatto per scontato dato che
negli anni precedenti a El Niño, quando c’era appunto il suo opposto, non c’è
stato quel contenimento termico che ci si poteva aspettare.
“Il fatto che stia finendo è noto – commenta
Antonello Pasini, fisico del clima del Cnr – e da agosto dovrebbe, dopo una
fase neutrale, iniziare La Niña, anche se per esempio gli australiani sono
ancora dubbiosi e indicano un possibile perdurare della fase neutrale”.
L’ufficio meteorologico dell’emisfero sud sostiene a suo dire che non ci siano
certezze sulla formazione de La Niña entro fine anno o prima, come previsto
invece per esempio dal Noaa.
Crisi climatica
El Niño, gli effetti che preoccupano gli scienziati:
eventi meteorologici estremi e temperature record
di Matteo Marini
15 Giugno 2023
Per l’Australia i segnali forniti dalla superficie del
mare e altri indicatori oceanici mostrano che “ENSO resterà neutrale sino
a luglio 2024” e non è chiaro quando subentrerà La Niña mentre per gli
statunitensi c’è “una probabilità dell’85% che El Niño finisca e che il
Pacifico tropicale passi a condizioni neutre entro il periodo aprile-giugno.
C’è poi una probabilità del 60% che La
Niña si sviluppi entro giugno-agosto. Continuiamo ad aspettarci La Niña per
l’autunno e l’inizio dell’inverno nell’emisfero settentrionale (circa l’85% di
probabilità)” scrivono gli americani.
L’alternarsi delle due fasi è estremamente importante per
le vite, l’economia e l’agricoltura globale, sebbene in Europa gli effetti di
questo passaggio siano meno diretti. Con El Niño, ricorda Pasini, “si
verificano siccità, ondate di calore in Australia e precipitazioni intense per
esempio in America meridionale. Con La Niña ci si aspetta maggiore umidità e
alluvioni in Australia o in certe zone dell’Asia. In generale a livello globale
il passaggio a La Niña dovrebbe portare a un abbassamento delle temperature nel
mondo. Il dovrebbe è d’obbligo però perché negli ultimi anni, fra i più caldi
di sempre, La Niña c’è stata (in precedenza per oltre due anni, ndr) ma le
temperature sono risultate comunque elevate. Quello in arrivo sarà dunque un
banco di prova, anche perché attualmente ci sono molte cose che non tornano e
che dobbiamo capire”.
Il riferimento è agli ultimi dieci mesi risultati
estremamente bollenti a livello globale, con un trend del riscaldamento che
sembra addirittura accelerato rispetto alle previsioni. “Quello che
sappiamo di certo come scienziati è che il surriscaldamento globale di origine
antropica e El Niño insieme hanno contribuito a questi nuovi record, ma ci sono
anche altri aspetti ancora molto dibattuti nella comunità scientifica. Per
esempio ci sono fattori come il surriscaldamento in Europa che potrebbe essere
dovuto anche alla sottostima degli effetti di alcune leggi ambientali passate,
come quelle che hanno portato a dire addio e a combattere le polveri
raffreddanti, come i solfati e quei combustibili pieni di zolfo. Queste leggi
attuate anni fa, che hanno tutelato in maniera importante la salute degli
europei, potrebbero nel tempo aver favorito il brightening, cioè il fatto che
la luce solare – senza più strati inquinanti – penetri più profondamente
arrivando tutta sino al suolo che si riscalda di più riscaldando a sua volta
l’atmosfera. Prima questo stato di inquinanti, nei bassi strati, in qualche
modo la rifletteva all’indietro non permettendo che tutta arrivasse. Ora però
le cose potrebbero essere cambiate”. Un altro fattore potrebbe essere
legato all’eruzione dell’Hunga Tonga nel 2022: “Studi indicano la
possibilità che il vulcano, avendo emesso molto vapore acqueo, che di fatto è
un gas serra, possa aver influito”.
Secondo Pasini, se uniamo tutti questi fattori, dagli
impatti di El Niño alla crisi climatica in corso sino potenzialmente agli
effetti del vulcano o delle leggi, allora “in parte è comprensibile
l’eccezionalità del riscaldamento degli ultimi 10 mesi, anche se secondo me
potrebbero esserci altri aspetti, sfuggiti, da capire. Sicuramente, con
l’arrivo de La Niña, sarà importante osservare i cambiamenti: se le temperature
non dovessero abbassarsi, sarebbe un bel problema” spiega.
In attesa di comprendere come e se la formazione de La Niña potrà cambiare gli equilibri globali, il ricercatore del Cnr spiega che negli ultimi mesi un aspetto preoccupante è il fatto che “i mari si siano riscaldati molto, in particolare l’oceano Atlantico a livello tropicale. Gli oceani hanno una capacità termica alta, fanno fatica a riscaldarsi velocemente, e allora perché si è verificato tutto questo riscaldamento marino? Abbiamo innescato qualche feedback finora non considerato? Credo sia molto importante indagare: se il surriscaldamento assurdo degli ultimi dieci mesi dovesse in qualche modo stopparsi un po’ con l’addio a El Niño, allora molto probabilmente le cause sono da ricercarsi proprio in quel fenomeno iniziato un anno fa. Ma se non dovessero iniziare ad abbassarsi le temperature allora dovremmo davvero preoccuparci. Personalmente, credo e spero di non essere arrivati a un tipping point, una sorta di soglia in cui il surriscaldamento accelera a tal punto da essere estremamente complesso poter tornare indietro. Altrimenti sarebbero guai.
La fantascienza è ormai una realtà! 11 teletrasporto
della materia, si proprio quel che avviene nella serie cinematografica di
“Star Trek”, quando il capitano Kirk e i suoi uomini entrati in
quella strana cabina trasparente simile a una doccia si dissolvono nel nulla
per poi riapparire, nello spazio di pochi secondi altrove, è la imminente
conquista della scienza.
Oggi, la scienza – ed era ora – incomincia a
muoversi verso la fantascienza, confrontandosi con tematiche che seppur
fantasiose, e in apparenza impossibili a realizzarsi, non vengono liquidate più
come assurdità, senza alcuna prova d’ appello.
Lo scorso anno, sulla autorevole rivista
“Nature” è stato pubblicato un articolo riguardo agli studi sul “teletrasporto
della materia” effettuato da un gruppo di ricercatori guidato dal prof.
Anton Zeilinger dell’Università di Vienna. Seguendo un analogo itinerario di
ricerca, un altro gruppo di studiosi, italiano questa volta, coordinato dal
prof. Francesco De Martini, è giunto alla conclusione, dimostrando sia pur in
via sperimentale, che è possibile “teletrasportare” gli atomi della
materia. E’ imminente, pertanto, la pubblicazione dei risultati relativi ai
scienziati stiano oggi ricercando, si rende necessario fare riferimento alla
peculiare proprietà della meccanica quantistica: quella cioè che consente il
passaggio istantaneo di informazioni da un corpo all’ altro. La teoria
quantistica, che consente di descrivere il mondo dell ‘ infinitesimo piccolo, ha
radici lontane e il suo proporsi negli anni “trenta” innescò un
conflitto scientifico di tale portata che i suoi sostenitori, Hesenberg, Bohr e
tantissimi altri, si contrapposero a coloro che sostenevano la fisica classica,
tra cui Einstein e Schrodinger. Quest’ ultimi, infatti, s ‘impegnarono non poco
nel tentativo di demolire il principio dei “quanti”, pur riconoscendo
la validità della nuova teoria.
Tornando al teletrasporto applicato con successo
sugli atomi, è pensabile che a breve termine la sperimentazione possa, grazie a
potenti calcolatori, aprire nuovi sconfinati orizzonti della scienza.
Il teletrasporto degli atomi, in verità, non può che
sollecitare la realizzazione di un sogno fino ad oggi ritenuto impossibile: la
scomposizione di un corpo vivente e la immediata ricomposizione in altro luogo,
dello stesso corpo.
Consapevoli del prevedibile sconvolgimento del
sistema preordinato delle cose che arrecherà questa straordinaria conquista,
come non immaginarci, anche per un istante, quali e quanti cambiamenti
potrebbero verificarsi nella quotidianità. Quale impareggiabile emozione,
pensate un po’, raggiungere in attimo persone, città, continenti, senza
l’utilizzo di alcun mezzo di trasporto, senza perdite inutili di tempo, di voli
cancellati per scioperi o maltempo e così via. E poi, senza fatica alcuna. aver
la possibilità di partecipare ad una tornata di lavori sulla Terra, oppure di
una Loggia di una lontana stazione spaziale orbitante nello spazio e, al
termine degli stessi, senza fare un passo, prender parte a una “Agape
bianca” su una base lunare. Che dire poi di una romantica cena, ovviamente
in buona compagnia, in un caratteristico ristorantino all’aperto, sul pianeta
Venere, a lume di candela, e sotto le stelle del firmamento… ?
La via spirituale, iniziatica, mistica,
ermetica. esoterica, in una parola la via del risveglio è un percorso
disseminato di insidie. Chi si è lanciato nella lunga alla scoperta e conquista
di sé stesso rischia spesso di incontrare delle trappole che possono
incastrarlo e rinchiuderlo in oscure e pericolose identificazioni. Nella sua
opera, “L’ uomo perfettibile”, Robert S. de Ropp mette in risalto
otto insidie corrispondenti ad otto sindromi. Vi propongo di scoprirle in voi
stessi invitandovi a riconoscerle quando le incontrerete. Ma sebbene possa
apparire strano, non dimenticate che queste sindromi non appartengono solo agli
altri. Non dimentichiamo di guardare in noi stessi…
Prima insidia: La sindrome della parola pensata
Si presenta come una insidia raffinata
e sono numerosi coloro che si lasciano prendere. Parlano dell ‘Opera e vi si
riflettono, ma pensare all’Opera e parlarne non da risultato maggiore come i
discorsi sull’ amore non danno la nascita ad un bambino. L’Opera esige infatti
che si metta fine al dialogo interiore ma, abituati come siamo ad un incessante
chiacchiera interiore. non ci sentiamo a nostro agio di fronte al silenzio. E
necessario che parliamo di qualcosa a qualcuno, e se non troviamo nessuno con
cui parlare ci indirizziamo a noi stessi. Questa abitudine, che consiste nel
parlare dell’Opera è incoraggiata da coloro che, immaginandosi di essere sul
Cammino, tendono a costituire dei gruppi. All ‘inizio questi gruppi presumono
di essere utili, di permettere scambi d’ opinione, di favorire l ‘ obiettività.
la sincerità e via dicendo. E raro che le raggiungano perché, nella maggior
parte dei casi, i loro membri non si augurano per niente di confrontarsi alle
loro debolezze.
Si proteggono contro l’eventualità di tale confronto con un complesso
sistema di difesa che non hanno alcuna intenzione di sacrificare. Per aggravare
ancora la situazione. coloro che dirigono questi gruppi sono molto spesso
totalmente ignoranti di ogni disciplina. Quindi non sono in grado di
comprendere le regole personali che reggono il comportamento dei membri del
gruppo. Tra l’ignoranza del dirigente medio e il timore provato dalla maggior
parte dei membri del gruppo all ‘ idea di i
propri labirinti personali, ne consegue che questi gruppi si rivelano inutili.
Seconda insidia: La sindrome del discepolo
Nello stesso modo si può parlare
a tal proposito della sindrome dell ‘ammirazione sconfinata, che suppone la
dedizione fanatica e la fiducia cieca suscitata da un maestro o da una
dottrina.
Tale dedizione priva il discepolo di ogni discernimento e
abolisce ogni capacità di ragionamento obiettivo di cui può essere dotato. Ogni
emozione è incentrata sul maestro che assume agli occhi del discepolo I ‘
importanza di un dio. Il maestro non può sbagliare, i suoi insegnamenti devono
essere accettati totalmente ed alla lettera. Se il maestro afferma che nel
cielo ci sono due lune. esse devono esserci, anche se nessuno ha mai visto la
minima traccia della seconda luna. Se il maestro dichiara che una legge cosmica
trasforma i pianeti in soli ed i soli in galassie, questo dovrà essere vero,
anche di fronte all’impossibilità materiale. La sindrome di ammirazione
sconfinata è un‘insidia potente e temibile. è all’ origine di un gran numero di
disastri che la razza umana si è inflitta. L’essere umano più pericoloso non è
il ladro, né lo stupratore, né il comune assassino, ma il fanatico meravigliato
che, in nome di una ideologia politica o religiosa, è disposto a sterminare
tranquillamente una intera popolazione perfettamente convinto della buona
fondatezza delle sue azioni. Nella maggioranza dei casi, le atrocità del XX
secolo sono state commesse da individui di questo tipo, la cui capacità
distruttiva pare illimitata. Sono totalmente ciechi nelle loro convinzioni,
incapaci di pensare obiettivamente, avendo abolito dentro di sé ogni traccia di
coscienza critica. Questi fanatici hanno due punti deboli, sono creduloni ed
influenzabili. Se un giorno dovesse scoppiare la terza guerra mondiale. non
sarà per maldestri errori militari o per uomini politici dalle idee confuse, ma
per fanatici pronti a far saltare in aria il pianeta in nome della dottrina cui
aderiscono.
Terza insidia: La sindrome del falso Messia
Questa insidia è il contrario
dell’ammirazione sconfinata. Chi vi cade si sente certo dj essere un maestro, capace di trasmettere
ad altri verità certe ed essenziali al soggetto della vita spirituale. La
categoria dei falsi Messia non comprende chi potrebbe definirsi un truffatore
dello spirito. Quest’ultimo crea in modo totalmente deliberato. e nel suo
proprio interesse. una falsa religione e spesso ne trae considerevoli vantaggi,
comportandosi come un connerciante e venditore di suoni, assimilando la sua
attività a una branca dell’industria dello spettacolo. Le vittime antitetiche
di questa terza insidia sono effettivamente sincere. credono nel suo messaggio,
spesso ha vissuto un • esperienza religiosa, talvolta è stato in India ed ha
raccolto qualche idea da un guru, può essere un drogalo ed aver conosciuto
quella che viene definita un’esperienza psichedelica. Si può dire che si sia
accontentato di raccogliere alcune idee, raccontate qua e là e presentate sotto
forma di “sistema”.
Chi cade in questa insidia è in
maggior misura impegnato sulla via dell ‘ego, vuole adepti, e più sono numerosi
più è felice. In questo aspetto si distingue dall’autentico Maestro che non
tenta Inai di fare proselitismo. Al contrario. si sforza di scoraggiarli
mettendoli in guardia contro le difficoltà del cammino. dicendo loro che è
meglio restare comodamente “in sonno’ • che risvegliarsi a metà.
Altra caratteristica delle vittime della sindrome del falso
Messia è che non si privano mai dei loro discepoli che sperano di vedere per sempre
in stato di dipendenza. E per questo che le scuole create dai falsi Maestri hanno un punto comune:
nessuno riesce mai a prendere un diploma, nessuno può lasciare la scuola a suo
piacimento. Il falso maestro fa dei suoi allievi degli schiavi. esige obbedienza totale. scoraggia ogni pensiero ed
ogni azione indipendente. Chi dovesse tentare di affrancarsi da questa
schiavitù viene considerato un traditore. Il comportamento dell’autentico
maestro è completamente differente. Stimola l’ allievo a costruirsi da sé. a
trovare il proprio cammino, a scoprire il maestro che porta dentro sé. Non dà
consigli se non quando gli sono richiesti, può presentare uno specchio ove chi
vorrà vedere potrà vedere ma non forza nessuno a specchiarsi, non fa nulla per
trattenere i propri allievi. se vogliono andarsene li incoraggia ad andarsene,
non ci tiene a circondarsi di un gres. e
di pecore ipnotizzate che aderiscono servilmente ad ogni sua parola. cerca la
liberazione non la sostituzione di una forma di schiavitù con un ‘altra. Quei
giochi dell’ego non lo interessano. Che abbia uno, cento o nessun allievo. che
gli importa ? L’altra caratteristica del falso maestro è la vanità, che prende
forme differenti: il Maestro si veste con abbigliamenti stravaganti e si orna
di titoli altisonanti. si qualifica come uomo giusto. maharishi, grande
iniziato. mago. Tutti i suoi adepti devono chiamarlo Maestro e devono testimoniargli
il filassimo rispetto. Il maestro autentico si comporta in modo totalmente
differente. Rifiuta ogni titolo e non porta abbigliamento articolare. non pensa
minimamente di incoraggiare i suoi adepti a venerarlo. ma li scandalizza
volontariamente comportandosi in un modo che sembra incompatibile con lo status
di Maestro. Liberato dall’ego, g1i è completamente indifferente se la gente l’ammiri
o meno, in quanto non ha affatto bisogno della ammirazione altrui avendo
raggiunto un livello in cui non può sentire né le lusinghe né gli insulti.
Quarta insidia: La sindrome del gruppo
Si tratta di un’insidia molto pericolosa in cui interi
gruppi rischiano di cadere. Gioca un ruolo importante nell ‘Opera dell
‘illusione di cui si potrebbe dire che costituisce la chiave di volta.
La sindrome del gruppo appare quando
un vero Maestro muore. Allora i suoi allievi più anziani ritengono, come gli
dicevano. di continuare la sua opera. Formano quindi un gruppo e si
costituiscono in gerarchia. Il rango che vi occupano non dipende dal loro
livello di conoscenza personale ma dal tempo che hanno consacrato all ‘opera e
dal posto più o meno vicino che occupavano presso il Maestro. Tali gerarchie
hanno la tendenza a fossilizzarsi, scoraggiano l’indipendenza e la libertà di
pensiero e si rinchiudono in una stretta ortodossia. Tutto quanto il Maestro ha
insegnato diventa sacro, anche se si comporta platealmente con delle sciocche
avances per mettere alla prova la credulità di un allievo. Ogni metodo che
utilizzava il Maestro deve essere trasmesso tale e quale lui l’insegnava. I
garanti dell’ortodossia” non tengono alcun conto del fatto che i tempi cambiano.
che gli individui si evolvono. che i metodi che hanno veri ficato l’efficacia
in dato periodo rischiano di non esserlo in un altro periodo e in altri luoghi.
D’altro canto. non comprendono che, sul cammino. L’ anzianità non è sinonimo di
progresso spirituale. che aver consacrato quaranta o cinquant’anni all’Opera o
aver conosciuto bene un tempo il Maestro, non significa necessariamente aver
conquistato la libertà. Si arriva al punto in cui i ‘veterani” dell’Opera
abbiano cessato molto tempo di comprenderne le finalità, Funzionano qualche
volta in modo meccanico. come se
avessero un pilota automatico, conoscono ogni slogans ed ogni tecnica omologata
e possono citarle senza sforzo come se qualcuno pigiasse un bottone. Da queste
cose sembrano di detenere un potere. ed i giovani che entrano nel movimento
possono rischiare alla fine di essere soggetto di un vero lavaggio del
cervello. Infatti. i membri più anziani si sono spesso trovati in un vicolo
cieco, si sono impantanati avendo perso di vista i vari scopi dell’Opera.
preoccupandosi dell’organizzazione politica del movimento: consacrano le loro
energie alle piccole rivalità che esistono in tutti i gruppi. Lungi dall
‘essere dei Maestri, non sono altro che miserabili politicanti, Ci si può del
resto domandare se ci sia qualcuno che. come si dice. possa continuare
Opera del Maestro. L’ autentico Maestro perfeziona i suoi metodi.
che sono conformi alle sue attitudini ed ai suoi interessi. Ma i “garanti
dell’ortodossia” non comprendono che il metodo insegnato dal Maestro
rischia di non essere adattato alle condizioni attuali. non riflettendo nemmeno
se loro stessi abbiano compreso bene l’insegnamento del Maestro. La sindrome
dei gruppo è tanto funesta per i discepoli quanto per i membri della gerarchia
che dirigono l’organizzazione. E grave per i perché
offre loro un modo per rifugiarsi ncll ‘errore, nel nascondiglio. nel
sotterfugio. nell’inganno. Solo perché sono affiliati ad un club ritengono di
essere riusciti in qualcosa. pensano di essere • ‘sul cammino”. si sentono
al loro posto. Se partecipano alle
riunioni del gruppo praticano gli esercizi, si sentono a loro agio. Se sono
assenti per parecchio tempo si elevano nella gerarchia e diventano capi di
gruppi. finiscono così con l’ immaginare di essere diventati loro stessi dei
Maestri. Disgraziatamente tutte queste attività di gruppo rischiano di diventare meccaniche, hanno
pochissimo o nessun effetto su coloro che si dedicano, nello stesso modo in cui
la regolare frequentazione della chiesa non ha quasi mai effetto fervore
religioso. Per tali praticanti andare in chiesa è diventata un’ abitudine. Ci
si va la domenica, nello stesso modo in cui il sabato sera si va al o al
ristorante. E estremamente difficile sottrarsi all’ insidia ciel gruppo. sta
per i membri della gerarchia che ne assicurano il funzionamento sia per i
neoliti che essi sono tenuti a guidare. Vi sono molti che amano questa insidia
e sono felici di starci dentro, preferiscono l’opera d’illusione all’opera
reale ed amano chi dice loro cosa pensare e cosa fare, ciò che risparmia ‘ero
dalla fatica di pensare da sé stessi. Talvolta capita che nell’ambito di una organizzazione
moribonda appaia un autentico Maestro, dotato di un potere sufficiente per
liberarsi dall’insidia ed affrancare chi ne è prigioniero presupponendone il
desiderio di affrancamento. E quanto è accaduto alla Società Teosofica quando
Krisnamurti. che era un autentico Maestro. ha fatto scoppiare l’organizzazione
che era stata da lui (l’Ordine della Stella) messa a nudo, svelando senza pietà
le false apparenze su cui si fondava questa particolare opera d’ illusione. Gli
mancò molto coraggio per agire così, ma il coraggio è una delle caratteristiche
dell’autentico Maestro. Essendosi lui stesso prestato a rompere gli idoli, a
mettere fine ai a distruggere i sistemi di credenza già confezionati. opposto
agli ortodossi e diffidente delle gerarchie, è uno spirito libero il cui solo interesse è aiutare gli altri a
conquistare la libertà.
Quinta insidia: La sindrome della
salvezza personale
E un’insidia raffinata e pericolosa che è stata la maledizione
delle tre religioni uscite da Abramo,
Ebraismo. il Cristianesimo e l’Islam. E quella che li ha stimolati a trasformarsi in culti della
colpevolezza, dove i credenti supplicano i loro dei di perdonarli per i loro
peccati e di accordare loro ciò che si designa con il termine approssimativo di
salvezza. Da cosa dovrebbero essere salvati’.
Probabilmente dall’ Inferno. dalle fiamme eterne che sono
uno dei modi dannosi che i preti di queste religioni inventate per le loro
pecore sono molto terrificanti per portarle
dove vogliono.
La sindrome
della salvezza personale poggia un grande errore. Chi ne è colpito immagina
che l’io. o l’ego. sia condannato alla dannazione. Se va in cielo. è il suo “io’“
che salirà in Cielo, vivrà l’eternità attorniato da angeli che suonano l’arpa:
se va all’inferno. fremerà e urlerà tra diavoli e le fiamme eterne. Perciò chi è invasato da tale assurda
superstizione in di un sentimento di
peccato e di colpevolezza dunque il desiderio
uori posto di accede alla salvezza
individuale. . Piuttosto che un unico grande sforzo chiede una serie di piccoli
sforzi ripetuti incessantemente, necessita di una pazienza infinita, la volontà
di ricominciare ogni volta che sarà necessario. Innanzitutto, non può
concepirsi senza chi ci si sia affrancati da ogni identificazione. in quanto
proprio l’ identificazione distrugge sempre l’opera reale per sostituirla con
l’ opera dell’ illusione, che è talmente insidiosa che chi si lascia fagocitare
in questa insidia è incapace di comprendere dove e come è stato forviato.
. Sesta insidia: La sindrome dello
sforzo supremo
Si può tratteggiare questa insidia
usando anche il nome di sindrome della scalata dell’Everest. Consiste nel
ritenere che I ‘ opera esige degli sforzi smisurati, analoghi a quelli dell ‘
alpinista che intraprende da solo l’ ascensione della cima più elevata del
mondo. L’insidia è tanto più sottile quanto l’ idea su cui poggia non è lontana
dalla verità. L’ opera necessita effettivamente di sforzi considerevoli ma sono
sforzi di un genere molto particolare, che esigono il mantenimento dell ‘ equilibrio
e della coscienza. Possono essere assimilati più all’abilità di un funambolo o
di un giocoliere che ai tentativi accaniti che si fanno serrando i denti per
realizzare delle prestazioni eroiche tali come la scalata dell ‘Everest. La
sindrome dello sforzo disperato poggia su una profonda incomprensione di ciò
che è la natura dell ‘ opera. La vera opera consiste nella lotta contro l’
identificazione. Per identificazione si intende lo stato in cui si è
interamente assorbiti da ciò che si fa, perdendo ogni coscienza obiettiva della
propria esistenza. Molta gente versa in tale condizione per tutta la vita e la
nostra civiltà è concepita in modo tale che si perpetua. Ogni momento siamo
incitati ad identificarci in un sogno, un progetto, una fede, un gioco, un’
ambizione, un desiderio. Questa identificazione ci è talmente abituale che
facciamo fatica a credere che si possa vivere diversamente. Capita spesso che
gli individui s’ identifichino in ciò che credono essere l’opera, dandole
inizio in uno stato drammatico e grave, ritenendo di dover fare non solo degli
sforzi, ma degli sforzi disperati, non comprendendo così che l’opera è un gioco
di equilibrio che deve essere agito da un cuore leggero e con senso di
distacco. Per costoro l’opera si trasforma in una sorta di prova. Tale lugubre
attitudine si traduce con impressioni di tensione e di disagio. Ogni al•resto
nel perseguimento degli sforzi sovrumani comporta come conseguenza un senso di
colpa. La colpa, a sua volta, fa nascere reazioni auto punitive, che sono
state, e continuano ad essere, uno degli aspetti particolarmente odiosi della
vita di certi fanatici. Si puniscono portando il cilicio, digiunando,
praticando la continenza, caricandosi di catene, impedendosi di dormire,
flagellandosi, ecc. , spesso prendono
l’abitudine di punire chi non prende parte alle loro credenze. Furono proprio
tali eccessi che indussero il poeta romano ad esclamare: “Tantum religio potuit suadere malorum”
(Tali sono i mali cui la religione può dar vita). La sindrome dello sforzo
disperato può avere un altro effetto, più sottile. Gli organizzatori
dell’opera, che si lasciano frequentemente prendere da questa piaga, hanno
l’abitudine di riservare un periodo finalizzato allo sforzo sovrumano. Durante
tale periodo, ogni cosa è concepita per rendere l’esistenza più difficile e
disagevole possibile. Viene prevista la lettura interminabile di vari libri
sacri, l’intensa pratica di un difficile lavoro manuale, degli speciali
esercizi che si presumono contribuire alla presa di coscienza. E possibile
anche che l’ alimentazione venga ridotta al minimo, così pure il tempo concesso
al sonno ed al riscaldamento in inverno, e che le condizioni di vita siano, in
linea generale, difficili. La parola chiave è lo sforzo incessante senza
tregua. Bisogna vincere o morire.
E possibile che chi si rende conto
di essere disposto a tanto trae beneficio da tali prove.
Disgraziatamente, sono numerosi
coloro che accettano tale sfida senza aver la minima idea di ciò che li spinge
a farlo. La prova serve allora come scusa per la gratificazione dell’ego, si
instaura uno spirito di competizione tra chi riesce a soffrire di più senza
lamentarsi. I guai seri cominciano nel momento in cui termina l’orgia di
sofferenza che si sono imposti. Inizia la reazione, l’energia acquisita, invece
di essere utilizzata in modo costruttivo viene sperperata negli eccessi cui si
aveva fatto rinunzia durante il periodo di privazione. Chi ha sofferto ritiene
di aver diritto di lasciarsi andare. Non ha tentato degli sforzi eroici’? Non
è, pertanto, autorizzato a rilassarsi ed a godersi la vita? Così disperde tutto
ciò che si è guadagnato dedicandosi a cose futili, spesso nocive. La sindrome
dello sforza supremo impedisce chi né è affetto di comprendere la natura
dell’autentica opera. L’opera non è eroica e non esige alcun impegno fuori dal
comune, si può compararla all’ abile e paziente lavoro di chi taglia e modella
un materiale difficile, la pietra’ l’avorio. Piuttosto che un unico grande
sforzo chiede una serie di piccoli sforzi ripetuti incessantemente, necessita
di una pazienza infinita, la volontà di ricominciare ogni volta che sarà
necessario. Innanzitutto, non può concepirsi senza chi ci si sia affrancati da
ogni identificazione, in quanto proprio l’identificazione distrugge sempre l’
opera reale per sostituirla con l’ opera dell ‘ illusione, che è talmente
insidiosa che chi si lascia fagocitare in questa insidia è incapace di
comprendere dove e come è stato favorito.
Sesta insidia: La sindrome dello
sforzo supremo
Si può tratteggiare questa insidia
usando anche il nome di sindrome della scalata dell’Everest. Consiste nel
ritenere che I ‘ opera esige degli sforzi smisurati, analoghi a quelli dell ‘
alpinista che intraprende da solo l’ ascensione della cima più elevata del
mondo. L’insidia è tanto più sottile quanto l’ idea su cui poggia non è lontana
dalla verità. L’ opera necessita effettivamente di sforzi considerevoli ma sono
sforzi di un genere molto particolare, che esigono il mantenimento dell ‘
equilibrio e della coscienza. Possono essere assimilati più all’abilità di un
funambolo o di un giocoliere che ai tentativi accaniti che si fanno serrando i
denti per realizzare delle prestazioni eroiche tali come la scalata dell
‘Everest. La sindrome dello sforzo disperato poggia su una profonda
incomprensione di ciò che è la natura dell ‘ opera. La vera opera consiste
nella lotta contro l’ identificazione. Per identificazione si intende lo stato
in cui si è interamente assorbiti da ciò che si fa, perdendo ogni coscienza
obiettiva della propria esistenza. Molta gente versa in tale condizione per
tutta la vita e la nostra civiltà è concepita in modo tale che si perpetua.
Ogni momento siamo incitati ad identificarci in un sogno, un progetto, una
fede, un gioco, un’ ambizione, un desiderio. Questa identificazione ci è
talmente abituale che facciamo fatica a credere che si possa vivere
diversamente. Capita spesso che gli individui s’ identifichino in ciò che
credono essere l’opera, dandole inizio in uno stato drammatico e grave,
ritenendo di dover fare non solo degli sforzi, ma degli sforzi disperati, non
comprendendo così che l’opera è un gioco di equilibrio che deve essere agito da
un cuore leggero e con senso di distacco. Per costoro l’opera si trasforma in
una sorta di prova. Tale lugubre attitudine si traduce con impressioni di
tensione e di disagio. Ogni al•resto nel perseguimento degli sforzi sovrumani
comporta come conseguenza un senso di colpa. La colpa, a sua volta, fa nascere
reazioni auto punitive, che sono state, e continuano ad essere, uno degli
aspetti particolarmente odiosi della vita di certi fanatici. Si puniscono
portando il cilicio, digiunando, praticando la continenza, caricandosi di
catene, impedendosi di dormire, flagellandosi, ecc. , spesso prendono l’abitudine di punire chi non
prende parte alle loro credenze. Furono proprio tali eccessi che indussero il
poeta romano ad esclamare: “Tantum
religio potuit suadere malorum” (Tali sono i mali cui la religione può
dar vita). La sindrome dello sforzo disperato può avere un altro effetto, più
sottile. Gli organizzatori dell’opera, che si lasciano frequentemente prendere
da questa piaga, hanno l’abitudine di riservare un periodo finalizzato allo
sforzo sovrumano. Durante tale periodo, ogni cosa è concepita per rendere
l’esistenza più difficile e disagevole possibile. Viene prevista la lettura
interminabile di vari libri sacri, l’intensa pratica di un difficile lavoro
manuale, degli speciali esercizi che si presumono contribuire alla presa di
coscienza. E possibile anche che l’ alimentazione venga ridotta al minimo, così
pure il tempo concesso al sonno ed al riscaldamento in inverno, e che le condizioni
di vita siano, in linea generale, difficili. La parola chiave è lo sforzo
incessante senza tregua. Bisogna vincere o morire.
E possibile che chi si rende conto
di essere disposto a tanto trae beneficio da tali prove.
Disgraziatamente, sono numerosi
coloro che accettano tale sfida senza aver la minima idea di ciò che li spinge
a farlo. La prova serve allora come scusa per la gratificazione dell’ego, si
instaura uno spirito di competizione tra chi riesce a soffrire di più senza
lamentarsi. I guai seri cominciano nel momento in cui termina l’orgia di
sofferenza che si sono imposti. Inizia la reazione, l’energia acquisita, invece
di essere utilizzata in modo costruttivo viene sperperata negli eccessi cui si
aveva fatto rinunzia durante il periodo di privazione. Chi ha sofferto ritiene
di aver diritto di lasciarsi andare. Non ha tentato degli sforzi eroici’? Non
è, pertanto, autorizzato a rilassarsi ed a godersi la vita? Così disperde tutto
ciò che si è guadagnato dedicandosi a cose futili, spesso nocive. La sindrome
dello sforza supremo impedisce chi né è affetto di comprendere la natura
dell’autentica opera. L’opera non è eroica e non esige alcun impegno fuori dal
comune, si può compararla all’ abile e paziente lavoro di chi taglia e modella
un materiale difficile, la pietra non
esige alcun impegno fuori dal comune, si può compararla all’ abile e paziente
lavoro di chi taglia e modella un materiale difficile, la pietra, o l ‘ avorio.
Piuttosto che un unico grande sforzo chiede una serie di piccoli sforzi ripetuti
incessantemente, necessita di una pazienza infinita, la volontà di ricominciare
ogni volta che sarà o necessario. Innanzitutto, non può concepirsi senza chi ci
si sia affrancati da ogni identificazione, in quanto proprio l’ identificazione
distrugge sempre l’ opera reale per sostituirla con l’ opera dell’ illusione,
che è talmente insidiosa che chi si lascia fagocitare in questa insidia è
incapace di comprendere dove e come è stato forviato.
Settima
insidia: La sindrome del ritualismo
E una delle insidie più evidenti ed
ha qualche somiglianza con la sindrome del gruppo.
Chi cade in questa trappola perde di
vista il suo vero obiettivo. Invece di lavorare su sé stesso si contenta di
assistere regolarmente alle riunioni del gruppo, agisce meccanicamente andando
avanti con la forza dell ‘ abitudine, maturando l’ impressione di appartenere
ad un gruppo e la certezza di essere realmente impegnato nel Cammino; durante
le riunioni compie ogni gesto previsto, fa qualche osservazione, ascolta le
conferenze, le letture, e così di seguito, ma una volta terminata la riunione
dimentica l’opera. Per tale soggetto l’opera è diventata una manifestazione
della sua personalità, manifestando un comportamento completamente ipocrita.
Può darsi che una volta abbia avuto un senso, ma da molto tempo ha perso
contatto con la realtà. Il suo lavoro poggia su un’illusione pura e semplice. è
il prodotto del meccanismo che funziona senza pausa nel cervello umano per
creare l’ illusione.
Ottava
insidia: La sindrome della ricerca del Maestro
Si manifesta come una insidia molto
riconoscibile. Chi ne è vittima passa la propria vita passando da maestro a
maestro, chiedendo a ciascuno di loro di rivelargli i segreti dell’opera, non
potendo o non volendo comprendere che non esistono segreti da rivelare. I
segreti dell’opera sanno proteggersi, non possono essere scoperti che con la
pratica tesa a raggiungere un certo livello d’ intensità e di continuità prima
che il segreto possa essere scoperto. Chi cade nella insidia della ricerca del
maestro non ha alcuna intenzione di lavorare intensamente e costantemente.
Aspetta che tutto gli sia servito su un piatto, se l’opera
non gli si è presentata in questo modo ne deduce che il maestro è un impostore
e se ne va alla ricerca di un altro. La sua ricerca non ha mai termine se non
con la morte, per la semplice ragione che non vuole che abbia un esito.
Per questo soggetto la ricerca è diventata un gioco in sé.
Da molto tempo ha dimenticato cosa cercava.•
1 700 anni prima della nascita di Cristo. agli inizi della
media età del Bronzo. una popolazione indigena stabilita nel Tavoliere pugliese
a poca distanza dal fiume Ofanto costruì numerosi ipogei edifici sotterranei
che vennero frequentati come luoghi di culto.
Questa parte del Tavoliere
costituiva a quel tempo un habitat ideale per la vita umana, ricco di
vegetazione boschiva, selvaggina e acqua, prossimo alla costa e ai vivaci
approdi frequentati dai navigatori micenei.
La natura del sottosuolo favoriva la realizzazione di queste
imponenti strutture per la conformazione della roccia calcarea. chiamata dai
contadini “crusta”: essa è infatti particolarmente tenera e dunque
agevolmente scavabile. sia pure a mano e con l’ausilio di piccozze ed altri
attrezzi in pietra.
Nelle contrade di Terra di Corte, nei pressi della cittadina
di San Ferdinando di Puglia e Madonna di Loreto, alle porte di Trinitapoli dal
1987 ad oggi sono stati scoperti dodici ipogei, quattro dei quali esplorati. ma
eloquenti tracce sul terreno rivelano che il loro numero è destinato ad
aumentare.
L’architettura ipogeica, che ricorda in qualche modo
strutture micenee realizzate in Grecia nello stesso periodo, si basa su precise
e complesse norme che si ripetono costantemente, con differenze legate
essenzialmente alle dimensioni e alla forma della pianta. L’accesso è
costituito da un dronzos, stretta e
rapida rampa a cielo aperto proporzionata in lunghezza alle dimensioni
dell’ambiente principale. a cui segue uno stretto corridoio sotterraneo detto stornion, con la volta terminante con un
inconfondibile particolare a forma di cupoletta apicale.
La grande sala principale presenta al centro della volta
un” apertura circolare per l’aerazione e la fuoruscita del fumo.
Gli
ipogei del Tavoliere erano dei templi sotterranei in cui si svolgevano
suggestivi riti di carattere propiziatorio, probabilmente collegati alla caccia
e alla fertilità del raccolto, come sembra dimostrare la frequente presenza di
palchi di cervo e di offerte di animali (cinghiali e maialini da latte).
La chiusura (col conseguente abbandono) di un ipogeo coincide
con la pratica più solenne del rituale, tesa ad impedire in futuro ad altri la
violazione delle strutture. A tale scopo il dromos veniva accuratamente
interrato e poi sigillato con poderosi filari di grandi pietre, una delle quali
al termine della procedura di chiusura veniva infissa verticalmente con
funzione di sema, ossia di segnacolo. Nel corso del riempimento venivano
deposte numerose offerte, si consumavano pasti rituali e libagioni e si
rompevano di proposito dopo l’uso le stoviglie adoperate.
La più singolare tra le cerimonie legate all’abbandono è la
“semina” di isolate parti di corpi umani che venivano deposte a varie
quote durante la procedura di colmatura. con particolare enfasi per quelle
considerate “nobili” come il cranio e la mandibola.
Non conosciamo molto del popolo che realizzò gli ipogei del
Tavoliere e a Terra di Corte e a Madonna di Loreto sembrano mancare tracce
riferibili a grandi abitati ricollegabili alla loro presenza.
In ogni caso. il numero elevato di strutture ipogeiche e le
modalità di costruzione comportarono un massiccio impiego di forza-lavoro c
labilità di maestranze specializzate, propri di un’ organizzazione collettiva
difficilmente compatibile con le risorse umane di un singolo villayio.
E’ perciò possibile che entrambe le località costituissero
una sorta di area sacra che attirava i fedeli che vi si recavano per soddisfare
esigenze connesse al sacro.
L’ esposizione itinerante, già allestita a Manfredonia, Bari
e Trinitapoli, viene riproposta a Toma in una versione ampliata con l’ aggiunta
di nuove strutture recentemente scoperte. ln particolare, è di grande
suggestione l’angolo dedicato ad una sepoltura femminile di alto rango, la
Signora delle Ambre. il cui corredo funerario ne rivela l’ importanza e il
ruolo rivestito.•
(Anna Maria Tun:i Sislo – Curatrice della mostra)
Da cacciatore di selvaggina, mi convertii a
cacciatore di immagini della Natura.
Ad ogni
week-end che si rispetti, preparo i miei attrezzi otografici e, secondo un rito
ormai consolidato, m’incammino tra i boschi per scoprire i segreti della
Natura.
Quella domenica, era il 21 marzo,
mentre camminavo tra gli alberi, qualcosa mi diceva che avrei fatto, quel
giorno, delle fotografie inconsuete. E così fu. Mi trovai, ad un tratto, in
mezzo ad una radura di forma circolare: un cerchio perfetto entro il quale non
cresceva nulla. C’era solo terra. così piatta da sembrare battuta o calpestata.
Il cerchio era delimitato da un
cordone di pietre levigate perfettamente. Le pietre
erano 72 in tutto. Le avevo contate, ed al centro del cerchio vi era una
roccia, anch’essa piatta e squadrata, di media dimensione. L’oriente era
segnato con un piccolo masso, mentre ad occidente si apliva un sentiero stretto
e lungo che portava nel folto del bosco.
Non c’era alcun dubbio che tutto
quello fosse opera umana: il luogo, mi attirava e m’ intimoriva al tempo
stesso.
Solo quando la luce s’affievolì, scomparendo tutto
d’un tratto per lasciare il posto alle tenebre della notte, m’ accorsi del
tempo trascorso. Alzando lo sguardo. notai come la volta stellata, spuntando
tra le cime degli alberi, sembrasse come una specie di tetto per quell’edificio
naturale. Ma la cosa più sorprendente fu il cambiamento che avvenne all’interno
della radura: alla luce delle stelle, sembrava che tutto fosse vellutato. Poi.
udii il silenzio che avvolgeva la radura: tutti gli animali. grandi e piccoli.
si erano zittiti di colpo nell’attesa di qualcosa.
Il mio istinto di cacciatore mi consigliò di trovarmi
al più presto un nascondiglio. Così feci. Mi nascosi tra i rami di un albero,
in modo da poter osservare tutta la radura.
Passarono attimi che mi sembrarono eterni. ed alla
fine qualcosa successe: due fanciulle bellissime, vestite di bianche tuniche,
incoronate da ghirlande fiorite. entrarono nel cerchio.
Preparai la macchina tOtogratica, montando un
teleobiettivo potente. e riinasi nell’ attesa. Le seguii con lo sguardo, senza
perdere nemmeno uno dei loro aggraziati movimenti: si muovevano così dolcemente
da sembrare sospese nell’ aria, mentre collocavano strani oggetti certamente
necessari per officiare un rito.
Le due fanciulle, ad un certo punto, disposero sulla
bianca pietra centrale un mantello bianco dai bordi rossi e, su di esso, al
centro, un gran vassoio dorato in cui erano disposti dei piccoli tronchetti di
legno e un incensiere acceso. Immediatamente dopo, esse versarono qualcosa che
non riuscii a distinguere, e dall’incensiere si sprigionò un fumo bianco e
profumato. Entrambe, una dietro l’altra, girarono attorno al cerchio reggendo
l’incensiere. formando un anello di fumo che presto si alzò fino alle stelle.
Fu allora che m ‘accorsi .della luce che
andava diffondendosi nell’ ambiente circostante. nonostante le tenebre della
notte. Era verdastra quella luce.
ottima per
scattare fotografie, e così mi accinsi a scattare le prime immagini. ln un
attimo le fanciulle scomparvero e, malgrado scrutassi attentamente la radura,
della loro presenza non rimase alcuna traccia. Frattanto, sentii provenire dal
profondo del bosco una dolce cantilena che andava sempre più aumentando con
trascorrere del tempo, finche una fila di personaggi, con strani copricapo,
tutti vestiti di bianco, spuntò dal sentiero d’ occidente. Le lunghe e candide
tuniche bianche conferivano ai loro movimenti la stessa leggerezza e la grazia
che avevano contraddistinto le fanciulle che li avevano preceduti. Essi,
sembravano galleggiare, sospesi nel vuoto, a pochi centimetri dal suolo. Notai
che essi – erano in tutto 72 – procedevano in fila, secondo l ‘ età, e l’
ultimo, doveva certamente essere il più vecchio.
Dopo aver completata, in
processione, la rotazione del cerchio, si sedettero uno dopo l’altro e
l’ultimo, il più vecchio, sulla pietra che segnava l’oriente. M’ accorsi,
subito dopo, che ricomparvero le due angeliche fanciulle: la prima, seduta
accanto al vecchio, ad oriente, e l’altra ad occidente. Entrambe, impugnavano
un regolo.
Ad un certo momento, un vecchio mezzo curvo accese tre
candelotti disposti a triangolo al centro del cerchio, che prima non avevo
notato. Completato il rituale dell’accensione, tutti si alzarono in piedi ed
iniziò, tra loro, un intenso dialogo.
Parlavano una lingua sconosciuta, e
per quanto ce la misi tutta per capire quel che si dicevano, non riuscii a
comprendere una sola parola. Scattai quante più foto potei, cercando di non perdere
niente. Ad un tratto, il vecchio si alzò dal suo scranno di pietra e,
avvicinatosi al centro, appiccò alla pila di tronchetti posti sul vassoio
dorato, sulla pila centrale. Tutti si alzarono, e potei così vedere i loro
volti illuminati dal fuoco. Ero veramente emozionato. anche perché non riuscivo
a spiegarmi come mai un evento così eccezionale fosse capitato a me.
Il vecchio intonò,
alzando le mani al cielo, e sempre davanti al fuoco, un canto melodioso in quel
linguaggio alieno. Guardando il volto bello del vecchio, la cui l’età era pari
al suo linguaggio, avvertii un ‘ accelerazione del flusso sanguigno sentendomi
pervaso da un ‘emozione sempre più crescente. Il fuoco sembrava danzasse,
seguendo intelligentemente la melodia, e creando bizzarre ed ipnotiche figure.
Rispondendo ad un segnale convenuto, tutti si avvicinarono al fuoco ed ognuno,
a turno, prese una fiammella ponendosela sul capo. Calò il buio, e nell’
oscurità vidi chiaramente risplendere le settantadue fiammelle che, muovendosi
quasi danzando, disegnavano strane geometrie.
Non so per quanto tempo, rimasi stupito ed incantato
dalla magnificenza di quello spettacolo, tanto, però, da non accorgermi che il
cerchio era tornato nuovamente vuoto. Solo una lieve penombra era rimasta a
testimoniare la luce di poco prima. Ci vedevo appena e, per paura, continuai a
guardare ed aspettare. Trascorse molto tempo, prima che mi decidessi a scendere
dal mio osservatorio, per fuggire serrando ben stretta la macchina fotografica
col prezioso rullino.
Raggiunsi la macchina, avviandomi verso casa
pregustando lo sviluppo delle foto che avevo fatto. Freneticamente avviai tutte
le procedure per lo sviluppo dei negativi. Li sviluppai e.. .con gran sorpresa,
m’ accorsi che nulla di quanto avevo visto era rimasto impressionato. Era come
se avessi scattato delle foto al buio.
Mi domandai, allora. se tutto quanto avevo vissuto
non era stato un sogno. Risalii sull’auto e ritornai verso il bosco. Dopo
averla parcheggiata, rifeci a piedi il tratto già percorso, fino all’osservatorio
da cui avevo seguito lo strano rituale. Nel bosco, non v’era più traccia della
radura, né tantomeno del cerchio, e di quegli strani esseri che prima l’avevano
popolata. . ..