PINOCCHIO: IL MITO DEL BURATTINO SECONDO FOLCO QUILICI

PINOCCHIO: IL MITO DEL BURATTINO SECONDO FOLCO QUILICI

  1. NSA) – ROMA, 15 OTT – «C’è ancora molto, molto da scoprire su d i lui», con questa frase si chiude il bel Viaggio nel mondo di Pinocchio di Folco Quilici (durata circa 50 minuti) che Raitre proporrà domenica alle 23.10. Realizzato da un’idea di Paolo Fabbri e prodotto da Raitre con Arte Geie, Ex Nihilo, F.Q.P.E. e Avro Tv, il film documentario attraversa il mito di Pinocchio in ogni sua forma. Si va dalla vita di Lorenzini di cui si sfatano alcune leggende («Non era Massone come qualcuno ha detto, nè donnaiolo e giocatore», ci tiene a dire Quilici) alle mille versioni di Pinocchio che sono state date in tutto il mondo.  Si visita poi la fondazione di Carlo Collodi che raccoglie centinaia di edizioni del libro, si vedono sequenze del primo film a lui dedicato nel 1911 fino al Pinocchio di Comencini e a quello di Disney. Ma ci sono anche due rari cartoni animati: uno russo, ‘Buratinò e l’inedito Pinocchio di Enzo D’Alo ancora in produzione per la Rai. E anche, infine, un omaggio alla singolare lettura del mito Pinocchio che ne ha dato Carmelo Bene. E il Pinocchio di Benigni? Risponde candidamente Folco Quilici a margine della proiezione stampa a Viale Mazzini: «Non l’ho ancora visto. Il fatto è che devo mettere insieme tutti i miei nipotini per andarlo a vedere».  Per il resto dal documentarista anche una sua lettura del mito Pinocchio: «Pochi sanno che Collodi non ha avuto padre e forse il suo Pinocchio alla ricerca del babbo non è che una sua proiezione e anche un qualcosa che in un modo o nell’altro riguarda ognuno di noi». Sulla messa in onda in seconda serata del film documentario interviene il direttore di Raitre Paolo Ruffini: «non è vero che è un orario penalizzante – dice il direttore -. In fondo non è un programma per i ragazzi, ma chissà si potrebbe anche pensare a una replica in un altro orario più agevole».
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VLORI ED ATTUALITA’DELLA MASSONERIA UNIVERSALE

Valori ed attualità della Massoneria universale

 

 

 

Gustavo Raffi, Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia-Palazzo Giustiniani

Divenire uomo è un’arte, affermava con convinzione Novalis nei suoi Frammenti antropologici. La Massoneria Universale, scuola che inizia ai grandi misteri della vita, lo sa bene. E da almeno tre secoli lavora instancabilmente a testimoniare la pratica di quest’arte, che nessuno è in grado di insegnare poiché si può imparare solo individualmente. Osservando, intuendo, seguendo negli altri, nel mondo, i segni di una misteriosa orditura che, come faceva dall’alba al tramonto la mitica Penelope, va pazientemente ricostruita come una mappa in grado di condurci a battere, senza timore di perdervisi, i difficili ed accidentati sentieri della vita. Proprio per sviluppare quest’arte il massone ha bisogno, non solo di penetrare nella propria, ma anche nella altrui dimensione interiore. Ha bisogno, come l’aria, del dialogo con gli altri, per apprendere ma anche per contribuire, col proprio bagaglio di esperienze, di conoscenze, di saperi, maturato appunto in una vita illuminata dalla luce della Tradizione, al loro benessere. In questo modo, da muratore esperto nell’arte della edificazione, concorre, recando il proprio simbolico mattone, a costruire il grande Tempio sotto la cui volta celeste si riunirà l’umanità tutta. Ovviamente le modalità di questo lavoro cambiano coi tempi.

Ed in tempi di comunicazione di massa, di villaggio globale, di incontri e di scontri di culture anche la Massoneria non poteva fare a meno di scegliere strade nuove per attualizzare la propria naturale vocazione al dialogo. Il Forum dedicato alla complessa e delicata tematica dei Valori Universali si inquadra esattamente in questo ambito. E la chiamata al lavoro di tutti i Fratelli non solo perché esibiscano, con la propria testimonianza, la profondità dei valori di cui sempre la Massoneria si è fatta portatrice, come la tolleranza, la comprensione dell ‘altro da sé, la difesa intransigente della dignità dell’uomo, ma perché facciano molto di più. Si confrontino, a viso aperto, e senza alcuna reticenza o timore, col così detto mondo profano, sviluppando coram populo quella loro propensione al dialogo con lo stesso metodo del confronto, aperto e leale, tipico del lavoro di Loggia. Tanto più importante appare questa operazione dal momento che il tema affrontato si presenta, considerati i travagli che affliggono la nostra vecchia e cara Terra, sicuramente utile, oltre che, sul piano intellettuale ed umano, straordinariamente stimolante.

E mi fa particolarmente piacere che tutto questo sia maturato in una terra, la Toscana, nella quale è sorta la prima Loggia massonica — che vide la luce nella, per l’epoca, tollerante Firenze nel 1731, lo stesso anno in cui a L’Aja veniva iniziato Francesco Stefano di Lorena, futuro Granduca di Toscana — e dove tuttora opera, nel senso massonico che questa parola possiede, la più numerosa famiglia di liberi muratori del nostro Paese. Per di più questo Forum sui valori, che non si limiterà alle sole problematiche delle Nazioni Unite e della loro (possibile ed auspicabile) Riforma ma toccherà anche, in successive fasi, le identità religiose e culturali, nonché l’identità terrestre, cade in concomitanza con una ricorrenza quanto mai carica di significati per noi Liberi Muratori. Si celebra, infatti, quest’anno il secondo centenario della fondazione del Grande Oriente d’Italia, che ebbe come suo Gran Maestro Eugenio de

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Beauharnais, viceré d’Italia e sodale di Napoleone Bonaparte. Una occasione imperdibile per mostrare il vero volto di una Massoneria che, ancora una volta, sa stare al passo coi tempi, una Massoneria che è, ieri come oggi, progettualità e azione al servizio dell’uomo, al di là di ogni frontiera, oltre ogni angusta limitazione. Proprio per questo, proprio nella consapevolezza dello straordinario “facere ” al quale le Logge ed ogni singolo Fratello vengono ora chiamati, sarebbe oltremodo significativo se, al termine della sessione di questo primo Forum, scaturisse, per mano di coloro che parteciperanno ai lavori, massoni o profani, ma comunque tutti uomini animati dalla buona volontà del bene operare, un documento di intenti da mettere a disposizione di altri uomini di buona volontà che, come noi, intendono agire molto semplicemente per la costruzione di un mondo migliore. Uomini che non possiedono ovviamente la verità, uomini come noi “dalle granitiche incertezze”, ma proprio per questo più autentici e credibili.

Si tratterà di un primo contributo che, auspichevolmente, potrà, dovrà innescare un dialogo aperto a tutte le voci diverse, secondo il tradizionale metodo massonico della ricerca condotta, come recita il nostro rituale, in piena libertà di pensiero da uomini di fede religiosa, di credo politico, di condizione sociale diversa, ma animati dal forte spirito dei costruttori. Il nostro è un piccolo ma non unico passo. Altri ne seguiranno, perché il cammino da percorrere è lungo e la meta, come sanno bene gli iniziati, sfugge di continuo, specialmente quando sembra più che mai a portata di mano. Ci piacerebbe comunque che, iniziative come queste, ed altre che lievitano e stanno lievitando sotto l’azione potente della fiamma di una antica e nobile Tradizione, contribuissero alla realizzazione di un grande sogno che cova nel cuore dei liberi muratori: quello di consentire alla Massoneria universale, di testimoniare, all’interno delle Nazioni Unite, nel consesso dei popoli della terra, nato e formato dalla volontà di grandi liberi muratori quali furono il Fratello Winston Churchill ed il Fratello Franklin Delano Roosevelt, i suoi grandi valori quali la liberazione dal flagello della guerra; la fede nei diritti fondamentali di ogni individuo, nella dignità e nel valore della persona umana, nella eguaglianza dei diritti degli uomini e delle donne; la giustizia, il progresso sociale, la libertà di tutti; la tolleranza e la pace. E questa per noi l’arte della vita, o Arte Reale, che esprime la nostra condizione di uomini di desiderio impegnati a lavorare senza sosta per onorare l’impegno preso quando varcammo, per la prima volta, le soglie del Tempio.

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COMPITI

Compiti.

 

Egli non è un sacerdote, ma qualcosa di molto differente, è l’interprete degli dei, colui che può viaggiare nell’Oltromondo per unirsi agli Spiriti e portare di lì informazioni e consigli per se stesso e la comunità. E’ un esperto in trance estatica e conosce il linguaggio degli Spiriti.

 

Se dovessimo riassumere, le caratteristiche principali dello sciamano sono

 

Capacità di viaggiare nell’Oltremondo o in Altri Mondi

Conoscenza delle danze rituali e di mimesi naturale

Conoscenza delle Erbe e delle loro proprietà

Essere maestro di animali selvatici e delle iniziazioni

Funzioni di psicopompo.

 

 

 

Sembrano proprio le funzioni del Druido o almeno del neo Druido.

 

Se dunque la figura del Druido, ma anche del Bardo e dell’Ovate, sembra avere molti punti di contatto con quella dello sciamano, almeno dal punto di vista delle mansioni, cerchiamo di approfondire l’esistenza di uno Sciamanesimo celtico. Approfondiamo per ora le informazioni storiche presenti nel grado Bardo.

 

Il Druidismo moderno nasce nel 1700 con l’apporto di William Blake associato alla cultura Massonica e Rotariana e al rinato interesse per la storia delle antiche origini e per l’arte antiquaria inglese. Da sempre infatti i siti megalitici come Stonehenge o Avebury avevano attratto la curiosità di vari studiosi, ma fu con l’avvento del Romanticismo che tali costruzioni iniziarono ad interessare direttamente gli storici che cercavano di capirne le origini.

 

In realtà il metodo della ricerca storico-scientifica non era ancora perfezionato. Molti di costoro, trattandosi di costruzioni pre-romane, le associarono, sbagliando, direttamente ai celti ed ai loro sacerdoti, i druidi. Nasceva così l’accostamento tra Druidi e il Megalitismo.

 

Il primo ad associare tali siti alle popolazioni celtiche fu un antiquario inglese, John Aubrey, nel suo saggio Templa Druidum, e successivamente un dottore di Lincolnshire, William Stukeley. Stukeley si definì lui stesso un Druido, prendendo il nome di Chyndonax, inciso su una antica stele ritrovata nel 1623 a Digione e realizzò nella propria abitazione un vero e proprio boschetto druidico, un grove, dove svolgeva alcune cerimonie pagane. Creando una sorta di “lignaggio”, Stukeley affermò che i druidi arrivarono in Bretagna dopo il Diluvio universale e sarebbero stati proprio Noè ed Abramo i primi druidi nonché costruttori  dei templi megalitici per il mondo. Sarà sempre Stukeley a definire, in realtà riprendendolo dal famoso testo secentesco Britannia Antiqua Illustrata del 1676, l’archetipo figurativo del druido, caratterizzato da un mantello con cappuccio, un bastone, una tunica corta e una lunga barba bianca. I luoghi di riunione e culto druidici non saranno però solo i nemeton megalitici. Una tradizione orale vuole che nel 1717 nel pub “Apple Tree Tavern” Jhon Toland, una figura chiave per i movimenti neodruidici moderni, avesse radunato i più importanti esponenti dei circoli druidici inglesi, in quello che poi sarà il primo grove ufficiale denominato “Mother grove” di cui Toland divenne Arcidruido, e che fu ufficialmente inaugurato  nell’equinozio di autunno del 1717 a Primrose Hill, una collina situata nella parte nord di Regent’s Park, a nord di Londra. Sarà da questo luogo a divenire sacro successivamente per molteplici organizzazioni druidiche. Nel 1747 Edward Williams diede vita al primo movimento druidico gallese, “Gorsedd Beirdd Ynys Prydain”, autoproclamandosi druido con il nome di Iolo Morgannwg. Ancora una volta il luogo scelto per la prima cerimonia avvenuta nel 1792 fu Pilmrose Hill. Fu la prima volta che si ebbe un Eisteddfodau, ovvero una riunione della durata di tre giorni. A Iolo inoltre si devono molti dei rituali druidici moderni tra cui l’importante Invocazione alla Pace che oggi caratterizza la maggior parte dei gruppi neodruidici, nonchè l’utilizzo di particolari oggetti cerimoniali quali la spada, il bastone, la corona, la cornucopia e il famoso corno Gwalad. E’ l’inizio del Revival druidico, nascono i primi groove, letteralmente “boschetti”, ed ordini druidici, in realtà all’inizio più società paramassoniche. Nel 1781 viene fondato l’Ancient Order of Druids, noto con la sigla AOD, nel 1833 The United Ancient Order of Druids e nel 1964 l’OBOD, il moderno Ordine dei Bardi, Ovati e Druidi. Successivamente, negli Anni ’60, anche grazie all’accostamento della pratica druidica con i nuovi movimenti eco-ambientalisti ed hippies, si riscopre il forte contatto naturale e la sua interconnessione con il mondo sciamanico ed infatti  la maggior parte di coloro che praticano oggi il neo Druidismo utilizzano tecniche sciamaniche. E’ in questo periodo dunque che neo Druidismo e Sciamanesimo iniziano il loro percorso intrecciandosi

 

Caitlin e John Matthews, membri dell’OBOD dal 1989 al 1992, sono stati i pionieri dell’applicazione di tecniche sciamaniche al celtismo. Un testo davvero molto ben approfondito, di tali autori a cui rimando è Sciamanesimo Celtico.

 

Successivamente Tom Cowan, nei suoi testi, Sciamanismo: una pratica spirituale per la vita quotidiana e di Il Fuoco nella Testa, cerca di far trasparire dal Druidismo “storico”, di cui effettivamente si conosce poco o nulla a causa della scarsità di documenti e della tradizione di trasmissione orale, la sua primigenia forma sciamanica, cercando anche paralleli con le tradizioni dei nativi americani.

 

Ma c’è qualcosa che permette di associare ”storicamente” il Druidismo allo Sciamanesimo?

 

I Celti, durante le loro migrazioni verso Occidente entrarono sicuramente in contatto con le popolazioni proto uraliche assorbendone i sostrati magico-religiosi di stampo sciamanico.

 

Evidenze sciamaniche riaffiorano nelle saghe irlandesi di Cu Chullinn, nei racconti gallesi del Mabinogion, fino ai più recenti romanzi di Chretien de Troyes.

 

Alcune di queste letture si trovano nei Gwersu, non solo momenti di lettura ma “indizi” su questo legame spesso celato.

 

Si narra così di veggenti chiamati offydd, gli Ovati, che avevano l’abilità di entrare in trance e viaggiare nel mondo degli Antenati. Individui con abilità di channeling li ritroviamo anche nei racconti gallesi con il nome di  awenyddion, ovvero posseduti. Non mancano poi i rituali estatici.

 

John Matthews in Taliesin: The Last Celtic Shaman, descrive rituali trance-estatici per raggiungere l’illuminazione attraverso l’uso di veri e propri mantra come “Dichetal do chennaib“, (si pronuncia “Diketal de Kenna”).

 

Questa sorta di stato alterato di coscienza, era anche noto come Imbas forosnai, ovvero il dono di veggenza. Si trattava di una sorta di tecnica di deprivazione sensoriale, per entrare in trance e di ricevere risposte o profezie. Danu Forest nel suo testo Shaman pathways e Robert Wallis in Shamans/Neo-Shamans: Ecstasies, Alternative Archaeologies and Contemporary descrivono approfonditamente questo rituale.

 

Il druido che doveva entrare in trance, rimaneva al buio assoluto, sotto una pelle di toro per nove giorni o fino a quando non aveva la visione. Mircea Eliade chiama questa cerimonia “bull dream” ovvero Tarbfeis.

 

Secondo alcuni studiosi oltre al buio il druido era costretto a cibarsi esclusivamente di carne di toro e a bere il suo sangue favorendo così una sorta di ipervitaminosi da vitamina A che a sua volta favoriva vomito, diarrea e dunque una sorta di alterazione fisica che favoriva così la visione. Tracce di questa cerimonia le troviamo nell’archeologia e nel folklore. Alcune divinità celtiche sono raffigurate come antropomorfe dai caratteri taurini, come la testa del dio-toro Taranis ritrovata a Lezoux, in Francia, e datata I sec. a.C. Sono immagini che enfatizzano il legame tra gli Spiriti animali e l’uomo che, fondendosi con essi, diviene druido e sciamano.

 

Nelle tradizioni celtico-druidiche appare poi il culto dell’albero universale.

 

Quando si studiano le religioni di stampo sciamanico in quasi tutte si incontra un riferimento più o meno esplicito al culto dell’Albero: L’Asse Cosmico, il pilastro centrale attorno a cui si organizza l’Universo. Con il passare del tempo ha acquisito molteplici nomi, Albero Cosmico, Asse del Mondo, Albero Rovesciato, Albero della Vita, Albero della Conoscenza, Albero Alchemico, Albero Mistico, Albero della Libertà e molti altro ancora.

 

Nella tradizione nordica troviamo il frassino Yggdrasill, l’asse del Mondo, ma anche cavallo ad otto zampe la cui scalata dona ad Odino il potere della Conoscenza. Tra i Sassoni l’universalis columna quasi sustinens omnia è chiamata Irminsul, mentre in Mesopotamia l’albero della vita era noto con il nome di Kiskadu. Buddha raggiunge l’Illuminazione sotto un albero di Ficus, mentre Adamo vuole la conoscenza del Dio Monoteista sotto l’albero piantato da Jahveh che nel giudaismo diviene poi la Menorah, il candeliere a sette bracci che riproduce l’Albero dei Sette Cieli mesopotamico. Nella tradizione araba l’abero universale è la Palma, l’albero con la testa nel fuoco del cielo e i piedi nell’acqua. Per gli Altaici sull’ombelico della Terra spunta un gigantesco albero i cui rami si allungano fino alla dimora di Bai-Ulgan, il Dio Progenitore, mentre tra gli Jacuti l’asse-albero primordiale è Yjyk-Mar che si innalza fino al nono cielo dove dimorano le anime degli sciamani. Nell’Asia settentrionale l’albero cosmico è una betulla detta Udeshi Burkjan, ovvero “il guardiano della Porta”, mentre in Cina l’albero dei “nove Cieli” è chiamato Quian mù. Nella sua opera Storia delle idee e delle credenze religiose, Eliade scrive:

 

“L’asse del mondo si rappresenta concretamente, a volte attraverso i pali che sostengono le abitazioni e altre volte come aste isolate, chiamate “colonne del mondo”. Quando la forma dell’abitazione subisce delle modificazioni (come il passaggio dalla capanna dal tetto conico alla yurta), la funzione mitico religiosa del palo viene trasferita all’apertura

 

Superiore da cui esce il fumo. Questo simbolismo è molto diffuso. Ad esso è condizionata la credenza nella possibilità di una comunicazione diretta con il Cielo. Nel piano macrocosmico, questa comunicazione è rappresentata da un asse (colonna, montagna, albero, etc.); nel piano microcosmico è raffigurata dal palo centrale dell’abitazione o dall’apertura Superiore della tenda, volendo significare che ogni insediamento umano si proietta sul “centro del mondo” e che ogni altare, negozio o casa offre la possibilità di una rottura di livello e come risultato quella di mettersi in contatto con gli dèi o compreso, nel caso degli sciamani, di ascendere al cielo…..In quanto all’albero del mondo, ve ne è testimonianza in tutta l’Asia e svolge un ruolo importante nello Sciamanesimo. Cosmologicamente, l’albero del mondo si trova al centro della terra, nel suo stesso “ombelico”, contemporaneamente i suoi rami superiori toccano le regioni celesti. L’albero unisce le tre regioni cosmiche, poiché le sue radici affondano nella profondità della terra. Secondo i mongoli e i buriati, gli dèi (tengri) si nutrono dei frutti di questo albero. Si presume che lo sciamano fabbrichi i suoi tamburi con il legno dell’albero del mondo. Davanti la sua yurta e all’interno della stessa si trovano alcune riproduzioni di alberi, la cui immagine si rappresenta anche sul tamburo. Inoltre lo sciamano, nella sua scalata alla betulla rituale, non fa altro che arrampicarsi sull’albero cosmico…”.

 

L’albero universale è presente dunque anche nella tradizione druidica.

 

Più volte esso è richiamato all’interno dei Gwersu, dal richiamo al Craeb, il sacro palo che sorregge le abitazioni circolari dei druidi, alla Bacchetta.

 

Richard Gordon, esoterista e neosciamano afferma: “The wand as used in many modern day esoteric practices is in fact a symbolic drum stick, directionally beating our concentrated willed intent against the energetic surface of creational reality”. Utilizzata come estensione del dito, essa è anche simbolo e rappresentazione dell’Axis Mundi miniaturizzato, ma anche rappresentazione dell’energie maschili e falliche. Tornando al “Macro”, ovvero all’albero, lo stesso Merlino raggiunge il potere della Conoscenza, della Veggenza, della Metamorfosi e del Linguaggio solo dopo aver scalato il sacro Pino di Barenton: l’albero cosmico. I suoi rami si protendono radiosi verso il cielo, e le sue radici affondano nella terra scura, nella quale scorrono le acque della fonte.  Per chi volesse vedere questo sacro albero, nella cittadina gallese di Carmarthen esiste una quercia risalente al XVII secolo, conosciuta come appunto come Merlin’s Tree.

 

Non mancano poi i riferimenti ai “mondi” che comporrebbero l’Universo del Druido-Sciamano, presenti nel folklore celtico. Si sprecano i racconti sul popolo delle fate, in molti casi noto come “piccolo popolo”, e su ignare persone che, attraversando anche involontariamente un “cancello” si trovavano in questa terra che potremmo definire un onirico “Mondo di Sotto” popolato da creature meravigliose e, in alcuni casi, anche pericolose. Non manca poi il metamorfismo sciamanico.

 

La figura che più di tutte può essere evocativa, in questo caso, è quella di Kernunnos, il dio-signore degli animali raffigurato con un palco di corna sulla testa. La sua più nota raffigurazione è quella presente sul calderone di Gundestrup. In realtà per molti studiosi la figura rappresentata sul calderone rappresenterebbe non un dio ma uno sciamano.

 

La capacità dei druidi di trasformarsi in animali e/o di essere con essi interconnessi è diffusissima. Nella saga di Talielsin, Gwyrhyr è noto per conoscere il linguaggio degli animali, nonché per le sue molteplici trasformazioni e esperienze di trasmutazione. Mutazioni animali le troviamo anche nei racconti di Oisin e Amergin che non solo si trasformano in animali ma trascorrono un lungo periodo sotto tali sembianze riportando nel mondo reale, una volta terminata l’esperienza della trasformazione, tutte le conoscenze acquisite in questo stato di realtà non ordinaria.

 

Lo stretto legame con l’animale sacro, che dunque poi nel tempo muterà da Spirito Guida ad elemento totemico caratterizzante del clan, è fortemente diffuso in tutta la cultura celtica. Lo stesso nome delle tribù esprime il legame con il mondo naturale e con l’animale che diviene simbolo del sacro.

 

L’usanza dei sacerdoti celtici di adornarsi con corna di cervo è descritta ancora nel 300 da Sant’Agostino che scrive dell’ “orribile usanza di travestirsi da stallone o da cervo”.

 

Altri elementi comuni tra la figura del druido e dello sciamano sono i poteri sugli agenti atmosferici, la capacità di chiamare tempeste e piogge, nebbia e sole, ma anche la loro attitudine alla divinazione. Ad esempio Diodoro Siculo e Tacito ci descrivono l’intervento di bardi sul tempo meteorologico in una famosa battaglia contro i romani sull’isola di Mona. Forte è anche il legame con la tradizione degli Antenati, i Celti utilizzarono spesso per i loro rituali luoghi megalitici costruiti da popolazioni precedenti, che seguivano particolari percorsi energetici o leys.

 

La Letteratura celtica è poi ricca di descrizioni di territori e mondi che si sviluppano in una realtà non ordinaria. Molte sono le storie e i racconti che narrano di viaggi in terre e reami presenti in un mondo assolutamente onirico o comunque non reale, come nelle avventure di San Brendano. La sua leggenda è raccontata nella Navigatio sancti Brendani, dove per l’appunto vengono descritti luoghi e mitici animali in quello che può essere considerato un viaggio interiore. In alcuni casi, come nella descrizione della vita del druido MacRuith, si narra proprio di “voli” a cavallo di fiamme che avrebbero portato il sacerdote in non meglio precisato un “mondo di sopra”. Non mancano le descrizioni di druidi vestiti con le piume di uccelli proprio ad indicare il volo spirituale, abitudine diffusissima nella tradizione sciamanica.

 

Altre esperienze non ordinarie sono descritte nelle saghe di Peredur ab Efrawg, poi trasformato nel Percival, o nelle avventure epiche irlandesi di Maelduin che narrano le imprese di questo personaggio durante un viaggio per vendicare la morte del padre ucciso da un pirata. Infine un ultimo esempio potrebbe essere la permanenza di Oisin a Tir-na-Nog. Dopo l’incontro con Niamh, una bellissima fata, Oisin fu portato nella terra dell’eterna giovinezza, Tir-Na-Nog appunto, un Oltremondo ove il tempo non esiste. Quando egli, proprio come uno sciamano immerso nel suo viaggio, si risveglierà nella realtà ordinaria, si ritroverà tremendamente invecchiato proprio come spesso accadeva ai mistici orientali in meditazione. Anche il concetto che si nasconde dietro l’Awen, o imbas in irlandese, l’ispirazione divina, l’energia che pervade le cose, che dona la capacità di poter dialogare e prender forma di animale è tipicamente sciamanica.

 

In aggiunta le narrazioni del Calderone di Cerdiwen e della nascita di Taliesin, attraverso il mistico fluido dell’Awen preparato dalla dea in persona per donare saggezza al figlio Afagddu, rimanderebbero ad antiche tecniche di apertura della “porta percettiva” attraverso sostanze allucinogene e psicotrope, come ad esempio l’Amanita Muscaria che effettivamente erano utilizzate dagli sciamani.

 

Il Druido dunque   è uno sciamano, come afferma anche Patricia Monaghan in The Encyclopedia of Celtic Mythology and Folklore, nella sua funzione di colui che diviene intermediario con il mondo magico, colui che gestisce la driudheachd, ovvero l’arte magica.

 

 

Maggiori informazioni https://www.duepassinelmistero2.com/studi-e-ricerche/filosofia-e-religioni/sciamanesimo-e-druidismo-un-unico-percors

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COMPITI

Compiti.

 

 

Egli non è un sacerdote, ma qualcosa di molto differente, è l’interprete degli dei, colui che può viaggiare nell’Oltromondo per unirsi agli Spiriti e portare di lì informazioni e consigli per se stesso e la comunità. E’ un esperto in trance estatica e conosce il linguaggio degli Spiriti.

 

Se dovessimo riassumere, le caratteristiche principali dello sciamano sono

 

Capacità di viaggiare nell’Oltremondo o in Altri Mondi

Conoscenza delle danze rituali e di mimesi naturale

Conoscenza delle Erbe e delle loro proprietà

Essere maestro di animali selvatici e delle iniziazioni

Funzioni di psicopompo.

 

 

 

Sembrano proprio le funzioni del Druido o almeno del neo Druido.

 

Se dunque la figura del Druido, ma anche del Bardo e dell’Ovate, sembra avere molti punti di contatto con quella dello sciamano, almeno dal punto di vista delle mansioni, cerchiamo di approfondire l’esistenza di uno Sciamanesimo celtico. Approfondiamo per ora le informazioni storiche presenti nel grado Bardo.

 

Il Druidismo moderno nasce nel 1700 con l’apporto di William Blake associato alla cultura Massonica e Rotariana e al rinato interesse per la storia delle antiche origini e per l’arte antiquaria inglese. Da sempre infatti i siti megalitici come Stonehenge o Avebury avevano attratto la curiosità di vari studiosi, ma fu con l’avvento del Romanticismo che tali costruzioni iniziarono ad interessare direttamente gli storici che cercavano di capirne le origini.

 

In realtà il metodo della ricerca storico-scientifica non era ancora perfezionato. Molti di costoro, trattandosi di costruzioni pre-romane, le associarono, sbagliando, direttamente ai celti ed ai loro sacerdoti, i druidi. Nasceva così l’accostamento tra Druidi e il Megalitismo.

 

Il primo ad associare tali siti alle popolazioni celtiche fu un antiquario inglese, John Aubrey, nel suo saggio Templa Druidum, e successivamente un dottore di Lincolnshire, William Stukeley. Stukeley si definì lui stesso un Druido, prendendo il nome di Chyndonax, inciso su una antica stele ritrovata nel 1623 a Digione e realizzò nella propria abitazione un vero e proprio boschetto druidico, un grove, dove svolgeva alcune cerimonie pagane. Creando una sorta di “lignaggio”, Stukeley affermò che i druidi arrivarono in Bretagna dopo il Diluvio universale e sarebbero stati proprio Noè ed Abramo i primi druidi nonché costruttori  dei templi megalitici per il mondo. Sarà sempre Stukeley a definire, in realtà riprendendolo dal famoso testo secentesco Britannia Antiqua Illustrata del 1676, l’archetipo figurativo del druido, caratterizzato da un mantello con cappuccio, un bastone, una tunica corta e una lunga barba bianca. I luoghi di riunione e culto druidici non saranno però solo i nemeton megalitici. Una tradizione orale vuole che nel 1717 nel pub “Apple Tree Tavern” Jhon Toland, una figura chiave per i movimenti neodruidici moderni, avesse radunato i più importanti esponenti dei circoli druidici inglesi, in quello che poi sarà il primo grove ufficiale denominato “Mother grove” di cui Toland divenne Arcidruido, e che fu ufficialmente inaugurato  nell’equinozio di autunno del 1717 a Primrose Hill, una collina situata nella parte nord di Regent’s Park, a nord di Londra. Sarà da questo luogo a divenire sacro successivamente per molteplici organizzazioni druidiche. Nel 1747 Edward Williams diede vita al primo movimento druidico gallese, “Gorsedd Beirdd Ynys Prydain”, autoproclamandosi druido con il nome di Iolo Morgannwg. Ancora una volta il luogo scelto per la prima cerimonia avvenuta nel 1792 fu Pilmrose Hill. Fu la prima volta che si ebbe un Eisteddfodau, ovvero una riunione della durata di tre giorni. A Iolo inoltre si devono molti dei rituali druidici moderni tra cui l’importante Invocazione alla Pace che oggi caratterizza la maggior parte dei gruppi neodruidici, nonchè l’utilizzo di particolari oggetti cerimoniali quali la spada, il bastone, la corona, la cornucopia e il famoso corno Gwalad. E’ l’inizio del Revival druidico, nascono i primi groove, letteralmente “boschetti”, ed ordini druidici, in realtà all’inizio più società paramassoniche. Nel 1781 viene fondato l’Ancient Order of Druids, noto con la sigla AOD, nel 1833 The United Ancient Order of Druids e nel 1964 l’OBOD, il moderno Ordine dei Bardi, Ovati e Druidi. Successivamente, negli Anni ’60, anche grazie all’accostamento della pratica druidica con i nuovi movimenti eco-ambientalisti ed hippies, si riscopre il forte contatto naturale e la sua interconnessione con il mondo sciamanico ed infatti  la maggior parte di coloro che praticano oggi il neo Druidismo utilizzano tecniche sciamaniche. E’ in questo periodo dunque che neo Druidismo e Sciamanesimo iniziano il loro percorso intrecciandosi

 

Caitlin e John Matthews, membri dell’OBOD dal 1989 al 1992, sono stati i pionieri dell’applicazione di tecniche sciamaniche al celtismo. Un testo davvero molto ben approfondito, di tali autori a cui rimando è Sciamanesimo Celtico.

 

Successivamente Tom Cowan, nei suoi testi, Sciamanismo: una pratica spirituale per la vita quotidiana e di Il Fuoco nella Testa, cerca di far trasparire dal Druidismo “storico”, di cui effettivamente si conosce poco o nulla a causa della scarsità di documenti e della tradizione di trasmissione orale, la sua primigenia forma sciamanica, cercando anche paralleli con le tradizioni dei nativi americani.

 

Ma c’è qualcosa che permette di associare ”storicamente” il Druidismo allo Sciamanesimo?

 

I Celti, durante le loro migrazioni verso Occidente entrarono sicuramente in contatto con le popolazioni proto uraliche assorbendone i sostrati magico-religiosi di stampo sciamanico.

 

Evidenze sciamaniche riaffiorano nelle saghe irlandesi di Cu Chullinn, nei racconti gallesi del Mabinogion, fino ai più recenti romanzi di Chretien de Troyes.

 

Alcune di queste letture si trovano nei Gwersu, non solo momenti di lettura ma “indizi” su questo legame spesso celato.

 

Si narra così di veggenti chiamati offydd, gli Ovati, che avevano l’abilità di entrare in trance e viaggiare nel mondo degli Antenati. Individui con abilità di channeling li ritroviamo anche nei racconti gallesi con il nome di  awenyddion, ovvero posseduti. Non mancano poi i rituali estatici.

 

John Matthews in Taliesin: The Last Celtic Shaman, descrive rituali trance-estatici per raggiungere l’illuminazione attraverso l’uso di veri e propri mantra come “Dichetal do chennaib“, (si pronuncia “Diketal de Kenna”).

 

Questa sorta di stato alterato di coscienza, era anche noto come Imbas forosnai, ovvero il dono di veggenza. Si trattava di una sorta di tecnica di deprivazione sensoriale, per entrare in trance e di ricevere risposte o profezie. Danu Forest nel suo testo Shaman pathways e Robert Wallis in Shamans/Neo-Shamans: Ecstasies, Alternative Archaeologies and Contemporary descrivono approfonditamente questo rituale.

 

Il druido che doveva entrare in trance, rimaneva al buio assoluto, sotto una pelle di toro per nove giorni o fino a quando non aveva la visione. Mircea Eliade chiama questa cerimonia “bull dream” ovvero Tarbfeis.

 

Secondo alcuni studiosi oltre al buio il druido era costretto a cibarsi esclusivamente di carne di toro e a bere il suo sangue favorendo così una sorta di ipervitaminosi da vitamina A che a sua volta favoriva vomito, diarrea e dunque una sorta di alterazione fisica che favoriva così la visione. Tracce di questa cerimonia le troviamo nell’archeologia e nel folklore. Alcune divinità celtiche sono raffigurate come antropomorfe dai caratteri taurini, come la testa del dio-toro Taranis ritrovata a Lezoux, in Francia, e datata I sec. a.C. Sono immagini che enfatizzano il legame tra gli Spiriti animali e l’uomo che, fondendosi con essi, diviene druido e sciamano.

 

Nelle tradizioni celtico-druidiche appare poi il culto dell’albero universale.

 

Quando si studiano le religioni di stampo sciamanico in quasi tutte si incontra un riferimento più o meno esplicito al culto dell’Albero: L’Asse Cosmico, il pilastro centrale attorno a cui si organizza l’Universo. Con il passare del tempo ha acquisito molteplici nomi, Albero Cosmico, Asse del Mondo, Albero Rovesciato, Albero della Vita, Albero della Conoscenza, Albero Alchemico, Albero Mistico, Albero della Libertà e molti altro ancora.

 

Nella tradizione nordica troviamo il frassino Yggdrasill, l’asse del Mondo, ma anche cavallo ad otto zampe la cui scalata dona ad Odino il potere della Conoscenza. Tra i Sassoni l’universalis columna quasi sustinens omnia è chiamata Irminsul, mentre in Mesopotamia l’albero della vita era noto con il nome di Kiskadu. Buddha raggiunge l’Illuminazione sotto un albero di Ficus, mentre Adamo vuole la conoscenza del Dio Monoteista sotto l’albero piantato da Jahveh che nel giudaismo diviene poi la Menorah, il candeliere a sette bracci che riproduce l’Albero dei Sette Cieli mesopotamico. Nella tradizione araba l’abero universale è la Palma, l’albero con la testa nel fuoco del cielo e i piedi nell’acqua. Per gli Altaici sull’ombelico della Terra spunta un gigantesco albero i cui rami si allungano fino alla dimora di Bai-Ulgan, il Dio Progenitore, mentre tra gli Jacuti l’asse-albero primordiale è Yjyk-Mar che si innalza fino al nono cielo dove dimorano le anime degli sciamani. Nell’Asia settentrionale l’albero cosmico è una betulla detta Udeshi Burkjan, ovvero “il guardiano della Porta”, mentre in Cina l’albero dei “nove Cieli” è chiamato Quian mù. Nella sua opera Storia delle idee e delle credenze religiose, Eliade scrive:

 

“L’asse del mondo si rappresenta concretamente, a volte attraverso i pali che sostengono le abitazioni e altre volte come aste isolate, chiamate “colonne del mondo”. Quando la forma dell’abitazione subisce delle modificazioni (come il passaggio dalla capanna dal tetto conico alla yurta), la funzione mitico religiosa del palo viene trasferita all’apertura

 

Superiore da cui esce il fumo. Questo simbolismo è molto diffuso. Ad esso è condizionata la credenza nella possibilità di una comunicazione diretta con il Cielo. Nel piano macrocosmico, questa comunicazione è rappresentata da un asse (colonna, montagna, albero, etc.); nel piano microcosmico è raffigurata dal palo centrale dell’abitazione o dall’apertura Superiore della tenda, volendo significare che ogni insediamento umano si proietta sul “centro del mondo” e che ogni altare, negozio o casa offre la possibilità di una rottura di livello e come risultato quella di mettersi in contatto con gli dèi o compreso, nel caso degli sciamani, di ascendere al cielo…..In quanto all’albero del mondo, ve ne è testimonianza in tutta l’Asia e svolge un ruolo importante nello Sciamanesimo. Cosmologicamente, l’albero del mondo si trova al centro della terra, nel suo stesso “ombelico”, contemporaneamente i suoi rami superiori toccano le regioni celesti. L’albero unisce le tre regioni cosmiche, poiché le sue radici affondano nella profondità della terra. Secondo i mongoli e i buriati, gli dèi (tengri) si nutrono dei frutti di questo albero. Si presume che lo sciamano fabbrichi i suoi tamburi con il legno dell’albero del mondo. Davanti la sua yurta e all’interno della stessa si trovano alcune riproduzioni di alberi, la cui immagine si rappresenta anche sul tamburo. Inoltre lo sciamano, nella sua scalata alla betulla rituale, non fa altro che arrampicarsi sull’albero cosmico…”.

 

L’albero universale è presente dunque anche nella tradizione druidica.

 

Più volte esso è richiamato all’interno dei Gwersu, dal richiamo al Craeb, il sacro palo che sorregge le abitazioni circolari dei druidi, alla Bacchetta.

 

Richard Gordon, esoterista e neosciamano afferma: “The wand as used in many modern day esoteric practices is in fact a symbolic drum stick, directionally beating our concentrated willed intent against the energetic surface of creational reality”. Utilizzata come estensione del dito, essa è anche simbolo e rappresentazione dell’Axis Mundi miniaturizzato, ma anche rappresentazione dell’energie maschili e falliche. Tornando al “Macro”, ovvero all’albero, lo stesso Merlino raggiunge il potere della Conoscenza, della Veggenza, della Metamorfosi e del Linguaggio solo dopo aver scalato il sacro Pino di Barenton: l’albero cosmico. I suoi rami si protendono radiosi verso il cielo, e le sue radici affondano nella terra scura, nella quale scorrono le acque della fonte.  Per chi volesse vedere questo sacro albero, nella cittadina gallese di Carmarthen esiste una quercia risalente al XVII secolo, conosciuta come appunto come Merlin’s Tree.

 

Non mancano poi i riferimenti ai “mondi” che comporrebbero l’Universo del Druido-Sciamano, presenti nel folklore celtico. Si sprecano i racconti sul popolo delle fate, in molti casi noto come “piccolo popolo”, e su ignare persone che, attraversando anche involontariamente un “cancello” si trovavano in questa terra che potremmo definire un onirico “Mondo di Sotto” popolato da creature meravigliose e, in alcuni casi, anche pericolose. Non manca poi il metamorfismo sciamanico.

 

La figura che più di tutte può essere evocativa, in questo caso, è quella di Kernunnos, il dio-signore degli animali raffigurato con un palco di corna sulla testa. La sua più nota raffigurazione è quella presente sul calderone di Gundestrup. In realtà per molti studiosi la figura rappresentata sul calderone rappresenterebbe non un dio ma uno sciamano.

 

La capacità dei druidi di trasformarsi in animali e/o di essere con essi interconnessi è diffusissima. Nella saga di Talielsin, Gwyrhyr è noto per conoscere il linguaggio degli animali, nonché per le sue molteplici trasformazioni e esperienze di trasmutazione. Mutazioni animali le troviamo anche nei racconti di Oisin e Amergin che non solo si trasformano in animali ma trascorrono un lungo periodo sotto tali sembianze riportando nel mondo reale, una volta terminata l’esperienza della trasformazione, tutte le conoscenze acquisite in questo stato di realtà non ordinaria.

 

Lo stretto legame con l’animale sacro, che dunque poi nel tempo muterà da Spirito Guida ad elemento totemico caratterizzante del clan, è fortemente diffuso in tutta la cultura celtica. Lo stesso nome delle tribù esprime il legame con il mondo naturale e con l’animale che diviene simbolo del sacro.

 

L’usanza dei sacerdoti celtici di adornarsi con corna di cervo è descritta ancora nel 300 da Sant’Agostino che scrive dell’ “orribile usanza di travestirsi da stallone o da cervo”.

 

Altri elementi comuni tra la figura del druido e dello sciamano sono i poteri sugli agenti atmosferici, la capacità di chiamare tempeste e piogge, nebbia e sole, ma anche la loro attitudine alla divinazione. Ad esempio Diodoro Siculo e Tacito ci descrivono l’intervento di bardi sul tempo meteorologico in una famosa battaglia contro i romani sull’isola di Mona. Forte è anche il legame con la tradizione degli Antenati, i Celti utilizzarono spesso per i loro rituali luoghi megalitici costruiti da popolazioni precedenti, che seguivano particolari percorsi energetici o leys.

 

La Letteratura celtica è poi ricca di descrizioni di territori e mondi che si sviluppano in una realtà non ordinaria. Molte sono le storie e i racconti che narrano di viaggi in terre e reami presenti in un mondo assolutamente onirico o comunque non reale, come nelle avventure di San Brendano. La sua leggenda è raccontata nella Navigatio sancti Brendani, dove per l’appunto vengono descritti luoghi e mitici animali in quello che può essere considerato un viaggio interiore. In alcuni casi, come nella descrizione della vita del druido MacRuith, si narra proprio di “voli” a cavallo di fiamme che avrebbero portato il sacerdote in non meglio precisato un “mondo di sopra”. Non mancano le descrizioni di druidi vestiti con le piume di uccelli proprio ad indicare il volo spirituale, abitudine diffusissima nella tradizione sciamanica.

 

Altre esperienze non ordinarie sono descritte nelle saghe di Peredur ab Efrawg, poi trasformato nel Percival, o nelle avventure epiche irlandesi di Maelduin che narrano le imprese di questo personaggio durante un viaggio per vendicare la morte del padre ucciso da un pirata. Infine un ultimo esempio potrebbe essere la permanenza di Oisin a Tir-na-Nog. Dopo l’incontro con Niamh, una bellissima fata, Oisin fu portato nella terra dell’eterna giovinezza, Tir-Na-Nog appunto, un Oltremondo ove il tempo non esiste. Quando egli, proprio come uno sciamano immerso nel suo viaggio, si risveglierà nella realtà ordinaria, si ritroverà tremendamente invecchiato proprio come spesso accadeva ai mistici orientali in meditazione. Anche il concetto che si nasconde dietro l’Awen, o imbas in irlandese, l’ispirazione divina, l’energia che pervade le cose, che dona la capacità di poter dialogare e prender forma di animale è tipicamente sciamanica.

 

In aggiunta le narrazioni del Calderone di Cerdiwen e della nascita di Taliesin, attraverso il mistico fluido dell’Awen preparato dalla dea in persona per donare saggezza al figlio Afagddu, rimanderebbero ad antiche tecniche di apertura della “porta percettiva” attraverso sostanze allucinogene e psicotrope, come ad esempio l’Amanita Muscaria che effettivamente erano utilizzate dagli sciamani.

 

Il Druido dunque   è uno sciamano, come afferma anche Patricia Monaghan in The Encyclopedia of Celtic Mythology and Folklore, nella sua funzione di colui che diviene intermediario con il mondo magico, colui che gestisce la driudheachd, ovvero l’arte magica.

 

 

Maggiori informazioni https://www.duepassinelmistero2.com/studi-e-ricerche/filosofia-e-religioni/sciamanesimo-e-druidismo-un-unico-percors

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CORPO E TEMPIO

Corpo e tempo

 

 

 

Gran Loggia d’Italia |

di Antonio Binni

La libera muratoria regola, in termini minuziosi e tassativi, la posizione che deve assumere il corpo tanto quando l’iniziato entra nel Tempio, tanto quando ne esce, sia quest’ultimo una Loggia o una Camera di perfezionamento. Per incidens, osservo che non esistono riti che si possono eseguire senza il corpo. La massoneria ignora però completamente la nozione di corpo in sé, nel senso di oggettivamente considerato e così inteso, pur, ovviamente, presupponendolo. Affermazione, per altro, non smentita né contraddetta neppure quando in un grado, che, per doverosa discrezione non nomino, il Rituale pone l’accento sulla importanza dei sensi intesi come altrettante fonti mediate di conoscenza, autentiche finestre sul mondo circostante. In quest’ottica il corpo non viene infatti considerato nella sua complessa unicità, quanto invece, all’opposto, come un organismo, vale a dire, come una summa di elementi conoscitivi indiretti. Con questo scritto intendiamo, al contrario, spostare l’attenzione proprio sul corpo fisico unitariamente considerato quale si manifesta nel mondo reale. Per corpo così assunto intendiamo un corpo fisico soggetto a nascita e morte, percepito nella sua unicità e globalità con i normali organi di senso simultaneamente operanti. Nella definizione proposta è fin troppo evidente l’eco dell’uso che della parola faceva Omero. Nel cantore greco quel vocabolo indica infatti sempre il corpo di un morto, come corpse nella lingua inglese. La nozione di corpo va per altro completata con alcune ulteriori osservazioni. Fra le parti – fisiche, mentali, spirituali – che compongono il corpo va notato che non v’è alcuna competizione, ma cooperazione solidale, perché nessuna parte del corpo è orientata a se stessa, ma tutte alla armonia vitale dell’insieme. L’«intero» inoltre è complesso, aperto, in continuo movimento e mutamento, secondo «un equilibrio instabile» tendente alla salute. Il corpo è silenzioso perché opera in silenzio, libero perché agisce spontaneamente. La vita dell’uomo si realizza nel corpo. Senza corpo, non esistono homini viatores. È nel mondo classico – non in quello biblico – che si deve cercare la stima e l’amore per il corpo sensibile. In estrema sintesi, la sua valenza positiva. Da questo profilo, decisivo, ancora una volta, risulta l’insegnamento di Platone che, nel Timeo (29 d – 30 c), ne esalta la perfezione, l’armonia, la nobiltà frutto dell’opera di un divino Artefice capace solo di opere belle, microcosmo specchio, perciò, del macrocosmo. Il che, peraltro, è completamente in linea con ciò che accadeva nell’ universo greco a tutti i livelli, a partire dal concreto. Sono infatti i greci che hanno inventato i ginnasi (la parola deriva da gymnòs che in greco significa «nudo»), le palestre, le terme, in generale la cura del corpo, per non invocare a ulteriore conforto la statuaria greca, prova inoppugnabile dell’ attenzione partecipata riservata al corpo, alla sua bellezza, alla sua nobiltà. È tuttavia sempre Platone che, sotto l’impulso della dottrina pitagorica, parla del corpo come di un carcere e di una tomba per l’anima (soma – sema – Gorgia 493 a; Cratilo 400 c), dal quale fuggire per raggiungere la «pianura della verità» (Fedro, 248 a – c). Col che, non solo si istituisce un rapporto fra corpo e anima, ma, nel contempo, si afferma la superiorità dell’anima sul corpo. La dimensione del corpo infatti è quella del tempo e della molteplicità, per definizione opposta alla dimensione dello spirito, che è quella dell’eterno. Opposizione e superiorità che costituirà poi il cardine della dottrina cattolica e, in particolare, della sua mistica, che, dalla bellezza del corpo, insegna a risalire di gradino in gradino fino alla sfera dello spirituale. Senza però svalutare o addirittura demonizzare il corpo, dal momento che, senza conoscenza e amore del corpo sensibile – salvo poi distaccarsene – non è possibile né conoscere né amare l’anima che è e vale di più. Il che non è dunque rifiuto, né tanto meno condanna del corpo, ma motivo di crescita. Come a dire che la dimensione corporea, per quanto subordinata a quella spirituale, è comunque un dato reale, oltre che di nobile natura. L’uomo è stato infatti creato dal Sommo Fattore anche come corpo. Se questo fosse poi stato privo di Logos, in esso non si sarebbe mai incarnato il Figlio. In conclusione, proprio nella fragilità del corpo e nel suo rapido corrompersi e perire si deve cogliere e riconoscere la sua divinità. Il corpo e i sensi non sono dunque né un legame, né un ostacolo allo spirito, come taluni predicano, visto che nell’uomo autenticamente spirituale corpo e anima, anima e corpo, vivono all’opposto fra loro in perfetta armonia. Il mondo reale è un mondo corporeo. Il che motiva e giustifica ampiamente l’attenzione prestata al tema e la sua analisi razionale da completarsi tuttavia anche da un altro versante significativo, invero assai poco considerato, mentre è del tutto meritevole di essere approfondito. Il tempo soggettivo – quello acutamente messo in luce da Agostino – quello, per intenderci, che rinviene il suo punto di apprensione e di valutazione all’interno della coscienza di ciascuno, ai fini della nostra indagine non rileva. All’opposto, a questo scopo assume invece valore decisivo il «numerato» platonico, ossia la considerazione oggettiva del tempo, con tutta la sua forza ordinatrice fonte di emersione di momenti decisivi e tali da imprimere comunque una svolta significativa. Si vuol dire altrimenti che il tempo della vita viene articolato attraverso tagli, conclusioni, soglie e tradizioni. Ma per i moderni consumatori, infantili e adolescenti ritardati, mai diventati adulti, il tempo altro non è che un semplice passo da un presente a un altro presente. Anche se poi il tempo, senza curarsi di alcunché, si vendica su chi invecchia senza volere diventare vecchio. Il tempo, con tutto il suo potere devastante, lascia infatti tracce indelebili e segni visibili su tutto ciò che è materia e dunque anche sullo stesso corpo umano. A ben considerare, non è allora soltanto vero ciò che si insegna comunemente, ossia che l’uomo vive nel tempo, ma forse non è neppure meno vero che il tempo vive nell’uomo fino a diventare sua misura. Il corpo umano, per dirla altrimenti, testimonia il trascorrere del tempo. Con una immagine – ardita – si potrebbe sostenere che il corpo umano è un segna-tempo, un puntualissimo orologio proprio perché, attraverso il tempo, è possibile ricostruire la vita di ciascuno, oltre che rileggerla in profondità. Concludendo, ci pare legittimo sostenere che il corpo umano, fra tutte le altre, espleta pure la incontestabile funzione di calendario. Nelle meridiane, di solito, si legge: sine sole, sileo. Parimenti, senza un esame della evoluzione del tempo non è possibile cogliere la reale trasformazione del corpo. Per abbracciare il fenomeno in tutta la sua dinamicità, occorre però un esercizio di attenzione. Come dire che per «guardare diverso» occorre prestare attenzione a tutto ciò che non si vede, a tutto ciò che è nascosto, ma che esiste realmente: Sua Maestà il Tempo! Altro che non esiste!

 

 

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FARE LA VERITA’

Fare la Verità

Questo testo è dedicato ai «veritatis cultores, fraudis inimici». L’espressione «fare la verità» ha varie attestazioni nei Vangeli e nelle Lettere. In quanto tale, è oggetto di una ermeneutica biblica. Agostino la fa propria a sua volta nel primo paragrafo del Libro X delle Confessioni. Il che non deve destare affatto meraviglia, perché il testo che ha reso celebre il Vescovo di Ippona altro non è che un intreccio di citazioni tratte dal Vecchio e dal Nuovo Testamento. L’espressione «fare la verità» è formula suggestiva e intrigante, dal momento che già prima facie l’accento posto sulla azione rende palese l’allusione a qualcosa che in precedenza non c’era, a un’opera materialmente fabbricata. Il che a sua volta sottende che la verità non si può acquistare sul banco di un mercato, perché non è un dato di fatto esistente in natura, come i lampi e i tuoni, considerato che va appunto «fatta», cioè realizzata. Il che, com’è evidente, implica un processo, alla cui origine c’è la volontà di verità, che solo dopo una lunga e faticosa rielaborazione raggiunge la verità, intesa come risultato ed epilogo di un percorso lastricato di non verità. Solo superando la non verità si consegue infatti la verità intesa come l’alloro che incorona il vincitore. L’espressione «fare la verità» rivela inoltre, da subito, che quel fare ha un costo che si deve essere disposti ad accollarsi. Un costo spesso eroico, dal momento che talvolta comporta una lotta corpo a corpo, talaltra invece del tutto lieve, risolvendosi l’operazione di verità in un semplice accertamento, come avviene, ad esempio, per le c.d. verità evidenti, del tipo «la pioggia bagna». Nella moderna filosofia il soggetto ha una importanza decisiva. Non v’è tuttavia necessità di far ricorso a questo insegnamento, del tutto consolidato, per comprendere il fatto che «fare la verità» postula un soggetto. Un soggetto dal cuore puro che si fa carico del processo veritativo, quanto dire una parte diligente nella operazione di «fare la verità». La verità comporta però un indirizzo, e non avrebbe senso se, oltre al soggetto agente, non registrasse un soggetto destinatario, che potrebbe essere anche lo stesso operatore di verità, come avviene quando si apre il colloquio con la propria coscienza. Ciò posto, dobbiamo ora chiederci cosa si intenda per verità. Secondo l’insegnamento tradizionale, la verità è corrispondenza della proposizione alla cosa. Accogliere questa teoria, per quanto difficile a precisarsi, diviene poi inevitabile, avuto riguardo alla sede alla quale sono destinate le nostre odierne riflessioni. Ad altrimenti contenersi si finirebbe infatti inevitabilmente per uscire dal seminato. Siamo poi del tutto consapevoli che la scienza è la migliore approssimazione della verità. La realtà è però enormemente più vasta degli ambiti trattati dalla scienza della natura. Si deve pertanto riconoscere che la verità non coincide necessariamente con le verità scientifiche. Ci sono infatti moltissime forme di verità perfettamente legittime che non hanno niente a che fare con la scienza. Per concludere: la realtà non è necessariamente qualcosa di raro, per essere invece il più delle volte una esperienza comune. Quando si fa la verità, all’evidenza, non si fabbrica la verità ma, all’opposto, il modo del suo farsi. Come a dire che vanno indagati gli atti che si compiono quando viene attuato il processo veritativo. Non si deve, tuttavia, pensare alla esistenza di un qualche mitologico «metodo scientifico», come se ce ne fosse uno soltanto, per di più infallibile e perciò idoneo ex se ad escludere tutti gli altri. L’idea di un metodo destinato a ottenere con certezza risultati veri è un sogno della prima modernità, da cui ci siamo svegliati da tempo. È vero invece che quello dei mezzi, al fine veritativo perseguito, è tema di libertà e fantasia, non esistendo una ars inveniendi universale. Per concludere sull’argomento si deve così dire: il metodo, per definizione, è ciò che indica la via che occorre calpestare in vista dello scopo avuto di mira. Come tale è ripetibile, mentre il risultato di ciò che viene prodotto attraverso il metodo è molto meno ripetibile di quanto non si desidererebbe, perché il metodo è un «fare», mentre il risultato (che non sempre si ottiene) è un «sapere». Sempre sul piano fattuale è da ultimo opportuno sottolineare che la verità, se non è scritta su di un documento, è destinata a non sopravvivere. Un’ultima chiosa: non è inopportuno sottolineare un dato di fatto inoppugnabile, ossia che ogni verità nasconde un silenzio che va squarciato. Da questo punto di vista la conoscenza altro non è che il passaggio dalla realtà alla verità, fatto in vista degli umani obiettivi. Appurato che la verità abbisogna di un soggetto agente, di una azione, di una documentazione, se non si vuole farla fagocitare dall’oblio, rimane infine da chiedersi a che scopo facciamo la verità, ossia quale sia il suo fine. Così rispondiamo al pensiero interrogante: lo scopo della verità è fare luce non solo nel soggetto che la cerca, ma pure nella comunità dove la verità viene all’evidenza, qui dovendosi rimarcare lo stretto legame fra verità e comunità. Per inciso sottolineiamo che la solidarietà non ha nulla a che fare con la verità. Né si può surrogare la verità con la democrazia, che tanta cattiva prova di sé ha dato allorquando si è tentato di esportarla, né la democrazia con la verità. Oggi si è perso il culto della verità perché si è finito con il considerarla come uno strumento di potere. Il vizio storico che inficia questa opinione è evidente. Ravvisare nella verità un effetto del potere significa infatti delegittimare la tradizione che culmina con l’Illuminismo, un’epoca storica nella quale invece sapere e verità sono stati veicoli di emancipazione, di contropotere, di virtù. Avere affrontato il tema prescelto da quest’ultimo angolo prospettico assume allora un valore ancora maggiore e ancora più significativo, perché si restituisce al vero ciò che è stato travisato. Del resto, una vita senza verità finirebbe per essere noiosa oltre che scomoda, più di un mondo saturo di banconote false. Per finire. Abbiamo volutamente affrontato il tema trattato in termini del tutto diversi da quello tradizionale, completamente incentrato sulla caduta del «velo di Maia», per fare emergere la nascosta verità. Il benevolo lettore vorrà pertanto perdonare l’azzardo, frutto unicamente del desiderio di evitare inutili, noiose, ripetizioni.

 

 

GRAN  LOGGIA DITALIA

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SORELLANZA, UN GRIDO DI CORAGGIO E CAMBIAMENTO

SORELLANZA.  UN GRIDO DI CORAGGIO E CAMBIAMENTO

Riprendiamo le pubblicazioni di Officinæ, in una veste rinnovata, allo scopo di intercettare le esigenze di informazione e di comunicazione di una società in divenire. Potrete sfogliarla direttamente online sul nostro sito web, optare per la versione e-book, godere del “gusto” antico, ma irri- ducibile, della carta, per chi vuole sentire il “peso” della parola, nella cornice di uno spazio pensato, uno spazio significante. Il digitale avrà la “prevalenza”, non si può fermare “il vento con le mani”, la sosteni- bilità, valore indefettibile, impone delle scelte, questo non vuol dire “alleggerire” i contenuti che saranno puntuali, rigorosi, attenti a raccontare i valori della fratellanza massonica, nell’orizzonte storico che viviamo, un orizzonte che richiede l’affer- mazione di un neoumanesimo, fondato sulla spiritualità. Essere al passo con i tempi non vuol dire solo dotarsi di strumenti adeguati, vuol dire interpretare quella che il filosofo Emanuele Severino, definiva la “tendenza fondamentale del nostro tempo”.

 

Cercheremo di sviluppare collaborazioni con il sistema dei media per diffondere al meglio la mission e i valori della Gran Loggia d’Italia degli A.L.A.M.. Ci impegniamo sin dall’inizio a creare contenuti accattivanti, capaci di attraversare la “mediamorfosi” in tutte le manifestazioni. Web, social media, Twitter (X), nella nostra visione devono armonizzarsi, per offrire una nar- razione seria, fondata, basata su una rigo- rosa consultazione delle fonti.

 

La comunicazione non è un accidente da chiamare in soccorso in maniera discon- tinua, è una competenza che sta dentro i processi e li vivifica, dando un “nome” alle cose. Questo vuole essere Officinae, come speriamo si possa vedere già da questo primo numero, che mette a confronto voci autorevoli, con l’intento di scavare nel passato per affrontare il presente con maggiore consapevolezza. Servirà l’aiuto di tutti voi lettori, saranno preziosi i vostri suggerimenti e la giusta ispirazione che dobbiamo cercare insieme coltivando i valori dello spirito e il lume della ragione, come la tradizione massonica fin dalle origini suggerisce.

 

“Il cammino della crescita si percorre insieme agli altri”, facciamo nostra questa affermazione del filosofo e matematico Bertrand Russell, contando sulla vostra fiducia e sulla qualità degli apporti che con generosità vorrete mettere a nostra disposizione.

da   OFFICINAE     di Luciano Romoli

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UMANO POCO UMANO – INTELLIGENZA ARTIFICIALE E PENSIERO CRITICO

 

UMANO POCO UMANO – INTELLIGENZA ARTIFICIALE E PENSIERO CRITICO

 

Sabato 29 marzo, la Gran Loggia d’Italia degli ALAM ospita, presso la sua sede lombarda, un incontro di grande rilievo culturale e filosofico: Umano, poco umano – Intelligenza Artificiale e Pensiero Critico. Il professor Giuseppe Girgenti guiderà una riflessione sul confine tra mente umana e tecnologia, interrogandosi sul ruolo del pensiero critico nell’era digitale.

Gran Loggia d’Italia | La Gran Loggia d’Italia degli Antichi Liberi e Accettati Muratori ospita sabato 29 marzo 2025, presso la sua sede lombarda di via del Progresso 3, un evento di straordinaria rilevanza culturale e filosofica: Umano poco umano – Intelligenza Artificiale e Pensiero Critico.

 

L’Intelligenza Artificiale è davvero intelligenza? E in cosa si distingue dalla nostra, naturale? Esiste un sostrato esistenziale irriducibile che definisce l’essere umano al di là delle sue stesse creazioni tecnologiche? Interrogativi di cruciale attualità saranno affrontati dal professor Giuseppe Girgenti, docente di Storia della Filosofia all’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano e coautore del volume Umano, poco umano: esercizi spirituali contro l’intelligenza artificiale.

 

“L’uomo non è solo calcolo”, afferma il professor Girgenti. “All’Intelligenza Artificiale contrappongo la nozione greca di anima, che significa coscienza di sé, vissuto, passione, vita. Una macchina è inanimata per definizione”.

 

In un’epoca in cui la tecnologia permea ogni aspetto della nostra esistenza, questo evento rappresenta un’opportunità per riscoprire l’importanza del pensiero critico e della consapevolezza di sé. “L’uscita dalla caverna è una sorta di illuminazione, liberazione dal vizio, acquisizione della consapevolezza di non essere schiavi”, riecheggiando Platone. E la Libera Muratoria, con il suo richiamo alla conoscenza e al libero arbitrio, si pone come baluardo di libertà contro ogni forma di omologazione.

 

L’evento sarà introdotto da Amodio Di Napoli, Delegato Magistrale per la Regione Lombardia, e sarà preceduto, alle ore 16, da una visita alla Casa Massonica e ai Templi. La conferenza avrà inizio alle ore 17.

da OFFICINAE.    17 Marzo 2025 –

 

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IL CASO DI BELLA: RAGIONI E SENTIMENTO

 

 

 

Athanor-09-2018

di

Giuseppe Cecere

Un mite medico catanese, laureatosi a Bari, con studio a Modena sperimenta dal 1963 un metodo di cura anticancro che in un certo numero di casi ha dato risultati migliori dei metodi approvati ufficialmente.

Questa nuova terapia, si basa sull ‘utilizzazione di un “cocktail” di tre diverse specialità medicinali: somatostatina, retinoidi e bmmocriptina, associate amelatonina, ciclofosfamidi a piccole dosi ed altre vitamine.

Ma la Commissione Unica nazionale per il farmaco (CUF) non ha mai riconosciuto come efficace tale terapia, perché priva di una seria sperimentazione clinica, eseguita secondo canoni tradizionali.

Tuttavia, data la particolare patologia interessata, il Ministe Il caso Di Bella: ragioni e sentimento

di

Giuseppe Cecere

 

Un mite medico catanese, laureatosi a Bari, con studio a Modena sperimenta dal 1963 un metodo di cura anticancro che in un certo numero di casi ha dato risultati migliori dei metodi approvati ufficialmente.

Questa nuova terapia, si basa sull ‘utilizzazione di un “cocktail” di tre diverse specialità medicinali: somatostatina, retinoidi e bmmocriptina, associate amelatonina, ciclofosfamidi a piccole dosi ed altre vitamine.

Ma la Commissione Unica nazionale per il farmaco (CUF) non ha mai riconosciuto come efficace tale terapia, perché priva di una seria sperimentazione clinica, eseguita secondo canoni tradizionali.

Tuttavia, data la particolare patologia interessata, il Ministero invita il prof. Di Bella a concordare un piano sperimentale ed a consegnare le cartelle cliniche dei casi trattati; inizialmente questo non avviene e di conseguenza migliaia di malati che affidano le loro speranze di guarigione alla terapia “Di Bella” lo fanno a spese proprie. C’è grande incertezza e sofferenza tra loro, soprattutto tra quelli che, non potendo affrontare senza alcun sostegno della Sanità Pubblica I ‘onere economico della terapia, si vedono costretti a rinunciare. Sarà un Pretore di provincia a farsi carico delle loro rimostranze e con la sua azione a far crescere un movimento d’opinione che ritiene sia giusto assicurare ad ogni malato la cura nella quale egli o il suo medico credono, poiché il diritto alla salute è sancito dall’art. 32 della Costituzione. E’ altrettanto giusto, però, che per curarsi debbono esserci delle regole serie.

A breve partirà la sperimentazione della terapia coordinata tra Ministero della Sanità e il prof. Di Bella, seppur tra mille polemiche.

La terapia “Di Bella”, diventa l’alternativa alla chemioterapia pura che viene accusata di essere devastante nella sua azione: essa colpisce sia le cellule tumorali che quelle sane. Elevati, poi, sono gli effetti collaterali quali la nausea, il vomito, le anemie, la depressione, la perdita di capelli: in definitiva, un sensibile peggioramento della qualità della vita.

C’è, però, un altro aspetto della terapia “Di Bella” che colpisce I ‘opinione pubblica: il recupero del rapporto “medico-malato”.

Oggigiorno il medico, spesso, perde il ruolo di colui che da uomo di scienza privilegia il malato e non la malattia, che con calore umano studia il malato nei suoi problemi e nei suoi malanni; che diagnostica il male e propone la sua terapia necessaria secondo scienza e coscienza e non secondo le regole burocratiche del prontuario farmaceutico, con atteggiamento gelido, al paziente considerato con un numero sanitario e lasciato solo col suo dolore e la sua disperazione.

Soprattutto nel campo oncologico, dove la medicina non è in grado di dare certezza e le terapie, anche se efficaci, sono nel contempo dannose, il medico ha il dovere di vagliare con grande oculatezza scientifica ed umana rischi e benefici, ed informare il paziente degli uni e degli altri.

Il prof. Di Bella dà subito l’impressione di essere un uomo di altri tempi, cura i malati senza chiedere alcun compenso; gli si può attribuire, però, il solo torto di aver lasciato intendere a molti, di possedere le chiavi per penetrare nella fortezza del “cancro” e di poter distruggere il male.

Egli stesso dice che invece di “pugnalare” il cancro, la sua terapia lo accarezza, lo blandisce, lo induce al suicidio rafforzando le difese dell’organismo che lo ospita, per rendergli la vita sempre più difficile.

E’ giusto, pertanto, che venga fatta una seria sperimentazione clinica’ che valuti la efficacia e la sicurezza del metodo Di Bella, al fine di tutelare la salute dei pazienti.•

34IW8ro invita il prof. Di Bella a concordare un piano sperimentale ed a consegnare le cartelle cliniche dei casi trattati; inizialmente questo non avviene e di conseguenza migliaia di malati che affidano le loro speranze di guarigione alla terapia “Di Bella” lo fanno a spese proprie. C’è grande incertezza e sofferenza tra loro, soprattutto tra quelli che, non potendo affrontare senza alcun sostegno della Sanità Pubblica I ‘onere economico della terapia, si vedono costretti a rinunciare. Sarà un Pretore di provincia a farsi carico delle loro rimostranze e con la sua azione a far crescere un movimento d’opinione che ritiene sia giusto assicurare ad ogni malato la cura nella quale egli o il suo medico credono, poiché il diritto alla salute è sancito dall’art. 32 della Costituzione. E’ altrettanto giusto, però, che per curarsi debbono esserci delle regole serie.

A breve partirà la sperimentazione della terapia coordinata tra Ministero della Sanità e il prof. Di Bella, seppur tra mille polemiche.

La terapia “Di Bella”, diventa l’alternativa alla chemioterapia pura che viene accusata di essere devastante nella sua azione: essa colpisce sia le cellule tumorali che quelle sane. Elevati, poi, sono gli effetti collaterali quali la nausea, il vomito, le anemie, la depressione, la perdita di capelli: in definitiva, un sensibile peggioramento della qualità della vita.

C’è, però, un altro aspetto della terapia “Di Bella” che colpisce I ‘opinione pubblica: il recupero del rapporto “medico-malato”.

Oggigiorno il medico, spesso, perde il ruolo di colui che da uomo di scienza privilegia il malato e non la malattia, che con calore umano studia il malato nei suoi problemi e nei suoi malanni; che diagnostica il male e propone la sua terapia necessaria secondo scienza e coscienza e non secondo le regole burocratiche del prontuario farmaceutico, con atteggiamento gelido, al paziente considerato con un numero sanitario e lasciato solo col suo dolore e la sua disperazione.

Soprattutto nel campo oncologico, dove la medicina non è in grado di dare certezza e le terapie, anche se efficaci, sono nel contempo dannose, il medico ha il dovere di vagliare con grande oculatezza scientifica ed umana rischi e benefici, ed informare il paziente degli uni e degli altri.

Il prof. Di Bella dà subito l’impressione di essere un uomo di altri tempi, cura i malati senza chiedere alcun compenso; gli si può attribuire, però, il solo torto di aver lasciato intendere a molti, di possedere le chiavi per penetrare nella fortezza del “cancro” e di poter distruggere il male.

Egli stesso dice che invece di “pugnalare” il cancro, la sua terapia lo accarezza, lo blandisce, lo induce al suicidio rafforzando le difese dell’organismo che lo ospita, per rendergli la vita sempre più difficile.

E’ giusto, pertanto, che venga fatta una seria sperimentazione clinica’ che valuti la efficacia e la sicurezza del metodo Di Bella, al fine di tutelare la salute dei pazienti.•

 

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IL RITUALE COME PRASSI FILOSOFICA  E ARTE DI MEMORIA

Maurizio Nicosia

  1. Chiamato delta dai pitagorici e dai platonici per l’analoga forma con la lettera maiuscola greca, va meditato in grado d’apprendista come principio e fine del viatico: sintetizzando il rapporto tra l’Uno (il vertice, costituito da un solo punto) e il molteplice (la base, di n punti), indica sia il percorso cosmogonico originario che conduce alla molteplice varietà dell’universo, sia il percorso inverso, fine dell’iniziazione, che riconduce il molteplice all’Uno, secondo il motto massonico: «riunire ciò ch’è sparso».
  2. «Il principio costituisce più che la metà del tutto»: ARISTOTELE, Etica nicomachea, Milano 1987, Rusconi, I, 8, 1098B.
  3. Con arte della memoria si indicano quei metodi scaturiti sin da età antica, quando i libri non erano tascabili, e l’efficace organizzazione del discorso era fondamentale per il poeta, il retore, il giureconsulto, il politico. La prima straordinaria diffusione di quest’arte coincide con la stagione democratica ateniese, quando l’efficacia del discorso era determinante per convincere l’areopago. I famosi sofisti insegnavano a organizzare efficacemente il discorso e, naturalmente, a ricordarlo. Il sistema più noto utilizzava luoghi e immagini: il discorso veniva immaginato come un percorso entro un tempio o un altro edificio, reale o immaginario, e in questo luogo si collocavano immagini associate agli argomenti del discorso. La trattatista antica ha conservato diversi testi di arte della memoria, fra cui Cicerone e Quintiliano. Possiamo distinguere grosso modo tre fasi nell’arte della memoria: quella antica, fase retorica, in cui la memoria ha la specifica e limitata, se pur importante funzione di conservare l’ordine del discorso e del sapere; la seconda fase s’avvia nel Rinascimento, con Giulio Camillo, Giordano Bruno e Robert Fludd, in cui l’arte della memoria acquista una precisa significazione ermetica, e invece di conservare il sapere, lo organizza e lo crea: nella memoria si rispecchia l’ordine macro-microcosmico che congiunge l’uomo e l’universo. Attraverso la memoria, dunque, si giunge alla sapienza. La stessa struttura mnemonica è profondamente diversa: non più per luoghi e immagini, è organizzata secondo un criterio cosmogonico che dall’Uno, centro e origine di tutte le cose, muove per gradi al molteplice, posto inevitabilmente in periferia, al margine della circonferenza; quindi sistemi radiali e monocentrici. La terza fase, che possiamo chiamare scientifica, comincia con Francesco Bacone e vede nella memoria lo strumento di organizzazione della ricerca nel campo della filosofia naturale. La mia sintesi non poteva non essere, data la mole dell’argomento, schematica; per ulteriori approfondimenti si vedano: YATES F. A., L’arte della memoria, Torino 1972, Einaudi, YATES F. A., Giordano bruno e la tradizione ermetica, Bari 1985, Laterza, ROSSI P., Clavis universalis. Arti della memoria e logica combinatoria da Lullo a Leibniz, Bologna 1983, Il Mulino, ROSSI P., a cura di, La memoria del sapere, Bari 1988, Laterza-SEAT, testi fondamentali sull’argomento; utile anche ROSSI P., Francesco Bacone. Dalla magia alla scienza, Torino 1974, Einaudi, per approfondire l’arte della memoria baconiana come strumento d’indagine scientifica. Segnalo anche SVIZZERETTO S., POZZESI P., Magia della «Tempesta» nel teatro della memoria, Roma 1986, Atanòr, non per il saggio dei due autori, che compendiano non brillantemente i testi che ho già citato, quanto perché in appendice vi sono stralci di un interessante testo sulla memoria di Fludd, ermetista e alchimista inglese che può aver influenzato la disposizione del tempio nella massoneria speculativa: i suoi teatri cosmici della memoria sono retti da due colonne e hanno sul tetto il cerchio stellato dello zodiaco.
  4. G. BRUNO, De umbris idearum, 1582 (Le ombre delle idee), Milano 1988, Spirali, p. 41. Lo afferma un suo personaggio, emanatore di logos (Logifero), in uno dei suoi testi più ermetici di arte della memoria che contiene istruzioni e concetti per creare sistemi concentrici divisi radialmente in trenta parti. La stessa idea dell’ombra, che dà titolo al testo, ha questa funzione perché, spiega Bruno, è sia luce che tenebra e al contempo non è né l’una, né l’altra. L’ombra è per il Nolano il terzo, necessario polo mediatore degli estremi: essa esprime in massimo grado la concezione esistenziale dell’uomo. Superfluo ricordare a un iniziato apprendista la funzione simbolica della luce e delle tenebre nella massoneria. In De gli eroici furori Bruno afferma che la luce divina, sempre presente nelle cose, è stata descritta da Salomone come colei che «batte alle porte dei nostri sensi».
  5. Si veda il citato ROSSI P., Francesco Bacone. Dalla magia alla scienza, in particolare i capp. VI. 5 e VI. 6, sulla dottrina delle tabulae e la mnemotecnica baconiana. Già Aristotele nell’Etica nicomachea aveva introdotto l’uso delle tavole per stabilire difetti ed eccessi nella virtù. Spiaccia o no ma per intendere il sistema etico massonico è necessario approfondire questo testo aristotelico. La virtù è il fine dell’attività umana e sociale, della polis: «il bene è ciò verso cui ogni cosa tende» (I, 1, 1094A; il bene «praticabile») e tutte le attività che coordinano le altre in vista di questo fine Aristotele le chiama «architettoniche»: parafrasandolo, si direbbe che si tratta di «innalzare templi alla virtù». La virtù è superiore, ma anch’essa è imperfetta -spiega Aristotele: «è possibile che chi possiede la virtù si trovi in stato di sonno» (I, 1, 1096A). Per lo Stagirita la virtù deve tendere al mezzo: in ogni attitudine umana la virtù consiste nell’evitare eccesso e difetto: «se i buoni artefici… lavorano tenendo di mira il mezzo, e se la virtù è più esatta e migliore di ogni arte, come anche la natura, essa dovrà tendere costantemente al mezzo» (II, 6, 1106B). Se quindi l’obiettivo è «d’innalzare templi alla virtù», è inevitabile che si giunga a conquistarla solo in camera di Maestro, la camera di mezzo. E ciò spiega perché la camera di maestro della massoneria azzurra sia definita così, malgrado sia ’finale’. Tornando a Bacone, le sue tavole rovesciano la metodica deduttiva di Aristotele, sì da consentirci di vedere l’origine della tavola massonica in termini aristotelici sul piano dell’etica, e baconiana sul piano della metodologia di ricerca.
  6. Dopo la compilazione delle tavole, Bacone intendeva trattare i nove aiuti all’intelletto, che avrebbero dovuto perfezionare il lavoro ottenuto con le tavole: un ulteriore esempio dell’organizzazione geometrica del pensiero e della ricerca.
  7. Ashmole era stato iniziato il 16 ottobre 1646 in una loggia del Lancashire, a Warrington, loggia che in tempi di repubblica cromwelliana, aveva fratelli sia monarchici, come Ashmole, che repubblicani come suo cugino Manwaring: concretissimo esempio dell’antica tolleranza massonica. Moray era stato iniziato nella loggia di Edimburgo, in Scozia, il 20 maggio 1641. Le logge erano già operanti al momento della loro iniziazione. Cfr. YATES F. A., L’illuminismo dei Rosacroce. Uno stile di pensiero nell’Europa del Seicento, Torino 1976, Einaudi, alle pp. 247 e 248, nel cap. Rosacrocianesimo e massoneria. Sappiamo anche degli interessi di Ashmole per la letteratura rosacrociana e per l’alchimia; alla sua penna dobbiamo una delle più importanti antologie degli alchimisti inglesi, il Theatrum chemicum britannicum, che Newton, afferma il suo biografo Manuel, «lesse e rilesse più volte attentamente» (MANUEL F. E., A portrait of Isaac Newton, Cambridge 1968, pp. 160-190).
  8. «La Royal Society ebbe molti nemici in quei primi anni; non appariva chiaro quale fosse la sua posizione religiosa…La regola di non discutere nelle riunioni questioni religiose, dev’essere sembrata una saggia precauzione e l’insistere nei primi anni sulla sperimentazione, sulla raccolta e la verifica dei dati scientifici, secondo i principî di Bacon, guidò gli sforzi della società»: YATES F. A., L’illuminismo dei Rosacroce…, cit., p. 224.
  9. Sprat, lo storico della Royal Society, cita Wren tra i protagonisti nelle riunioni d’organizzazione della società. Che Wren fosse Gran Maestro della massoneria operativa è affermato, senza indicazione di fonti, da FAGIOLO M., Architettura e massoneria, cit., scheda 40 (la fonte di Fagiolo è molto probabilmente Quirico Filopanti, Dio liberale, testo in cui l’autore definisce Wren «Presidente della Frammassoneria inglese»: ma A. Reghini, I numeri sacri nella tradizione pitagorica massonica, Roma 1988, p. 129, definisce la sintesi scientifica e storica di Filopanti «molto fantasiosa»). Nel testo di Fagiolo si afferma che la cattedrale di S. Paolo, a Londra, è stata inaugurata con «rito massonico». Wren (1632-1723), oltre che architetto era anche fisico. Dedicatosi agli studi scientifici, divenne uno dei maggiori matematici e astronomi del tempo: incarna l’ideale architetto vitruviano. Dopo il grande incendio del 1666 Wren Fece parte della commissione per la ricostruzione della City di Londra e progettò un razionale piano regolatore, di evidente orma vitruviana, che tuttavia non fu realizzato; ebbe comunque l’incarico di sovrintendere alla ricostruzione delle chiese della City devastate dal fuoco: un cospicuo gruppo si rifà allo schema basilicale secondo Vitruvio o ad altre fonti romane. A Greenwich iniziò nel 1696 il grandioso complesso del Royal Hospital. Modificò il progetto iniziale per consentire la vista, nella distanza, della Queen’s House di Inigo Jones. Il progetto dell’edificio per il primo museo pubblico d’arte del mondo, organizzato da Elias Ashmole, reca la firma di Wren.
  10. Vitruvio (sec. I a.C.), architetto e trattatista romano. Fu autore del De Architectura, in dieci libri, dedicato ad Augusto, il più celebre trattato del genere nell’antichità e l’unico pervenutoci: sull’esempio di analoghi testi greci, l’opera svolge l’intera problematica architettonica, dalla struttura della città ai materiali da costruzione. Nel Medioevo accomunato ai testi che trattavano il simbolismo numerico, come il Somnium Scipionis di Cicerone e i trattati sulla musica di Agostino e Boezio (RYKWERT J., La casa di Adamo in paradiso, Milano 1976, Mondadori, p. 119), dopo la riscoperta di Poggio Bracciolini del 1414 il testo vitruviano godette nel Rinascimento di enorme fortuna, testimoniata dalle numerose edizioni, spesso illustrate, e costituì imprescindibile modello per la trattatistica architettonica, dall’Alberti al Palladio.
  11. James ANDERSON, Le costituzioni dei liberi muratori, 1723, Foggia 1974, Bastogi, p. 77. Il pastore in questo caso citava Colin Campbell senza menzionarlo, il primo trattato che è all’origine della riscoperta di Vitruvio e Palladio. Lo Scozzese Campbell, nel suo Vitruvius britannicus del 1715, affermava che «Palladio ha superato tutti quelli venuti prima di lui», ma che «gl’Italiani sono completamente attratti da capricciose decorazioni»; invece «Palladio e il nostro architetto Inigo Jones hanno mostrato la via da seguire».
  12. Mi riferisco a Joan de Laet, M. Vitruvii Pollionis De Architectura libri decem cum notis…Guglielmi Philandri integris, Danielis Barbari excerptis…; Praemittuntur Elementa Architecturae collecta ab illustri viro Enrico Wottono eequite anglo…;, Amsterdam 1649. Daniele Barbaro, veneziano, era l’autore della fondamentale edizione del 1556 realizzata a quattro mani con Andrea Palladio. Ambasciatore veneziano in Inghilterra, noto per la sua relazione sugli inglesi, era d’impostazione aristotelica. Il suo commento a Vitruvio è amplissimo. Henry Wotton, ambasciatore inglese a Venezia, poeta e intimo amico del neoplatonico John Donne, era un fervente cultore di Vitruvio e anch’egli legato al principe palatino ed Elisabetta Stuart, i protettori del pensiero rosacrociano.
  13. In WITTKOWER R., Principî architettonici nell’età dell’Umanesimo, Torino 1979, Einaudi, p.70. Sulla virtù vedi anche nota 6.: l’aristotelismo di Barbaro e Palladio è l’origine di questa concezione, certamente derivata dall’«Accademia della virtù», fondata a Roma da Claudio Tolomei con lo scopo di chiarire i passi incerti di Vitruvio. Nel 1547 Tolomei è a Padova e viene pubblicato contemporaneamente a Venezia il programma della sua accademia vitruviana.
  14. Palladio risulta iscritto alla corporazione dei muratori vicentini dall’aprile 1524. Nel 1542 è ancora definito «lapicida». Dal 1545 in poi è chiamato regolarmente architetto. Cfr. WITTKOWER, op. cit., p. 62.
  15. Sua è la famosa poesia «alla Sua Signora, la regina di Boemia», in cui paragonò Elisabetta Stuart, la protettrice di ermetisti e alchimisti d’impronta rosacrociana, alla rosa. Fu scritta a Greenwich dove Inigo Jones costruì, probabilmente in suo onore, la Queen’s House. Quando lì Cristopher Wren edificò il Royal Hospital, modificò il progetto originario perché si vedesse la Queen’s House: duplice omaggio all’architetto, e alla regina.
  16. YATES F. A., L’illuminismo dei Rosa Croce, Torino 1976, Einaudi, p. 15.
  17. «Il monumento principale che riassunse in parte le idee massoniche e neoplatoniche fu l’eroico rifacimento della facciata di S. Paolo da parte di Inigo Jones, che ne fece una grande chiesa metropolitana e un adeguato contrappeso ’augusteo’ (cioè vitruviano, N.d.A.) al progettato palazzo reale, di cui la Banqueting Hall costituì una prima parte e rispetto al quale il Covent Garden sarebbe stato il terzo polo». Cfr. RYKWERT J., The First Moderns, Cambridge 1980. Evidente, per chi leggerà il seguito, che la triade sia concepita in modo da comprendervi i tre generi dell’architettura vitruviana: la defensio, in questo caso l’autorità governativa, la religio, l’autorità religiosa, e la opportunitas, che concerne gli edifici pubblici come i teatri -che Vitruvio tratta per primi in questo gruppo- qual è il Covent Garden. Non ancora completato il progetto, l’incendio del 1666 distruggerà ciò che aveva realizzato Inigo Jones. Toccherà a Wren ricostruire la cattedrale di S. Paolo. E nel suo piano, non attuato, oltre a strutture vitruviane inserirà incroci che in pianta si rivelano come intrecci di squadra e compasso.
  18. Fra i tanti FAGIOLO, op. cit.: «Nel 1723 il palladianesimo diviene, per dir così, l’Architettura di Stato della Massoneria»; meno decisa, più precisa la YATES, L’illuminismo…, op. cit., p. 252: «sembra probabile -e questo punto viene normalmente messo in rilievo dagli storici massoni- che la massoneria «speculativa», e il suo graduale distinguersi dalla massoneria «operativa», iniziasse con il risvegliarsi dell’interesse per Vitruvio e per l’architettura classica».
  19. ANDERSON J., The Constitutions of the FreeMasons Containing the History, Charges, Regulations,etc., of that Most Ancient…Fraternity, Londra 1723.
  20. CASTELL R., M. Vitruvii Pollionis De Architectura libri decem, cum anglica versione et variorum commentariis tam editi, quam Inigo Jones et aliorum ineditis, multisque figuris et iconibus…, Londra 1730.
  21. VITRUVIO MARCO POLLIONE, Dell’architettura, libri I-X, Milano 1829, trad. Di Carlo Amati, I, I, 11. Do di seguito ampî stralci sull’architettura e l’architetto: «L’architettura è una scienza ch’è adornata da più dottrine. Ella nasce dall’esperienza non meno che dal raziocinio. Chi fa professione di Architetto bisogna che sia uomo di talento, e riflessivo nella dottrina: perché né talento senza disciplina, né disciplina senza talento non possono rendere perfetto un’artefice. Sia perciò egli letterato, esperto nel disegno, erudito nella geometria, e non ignorante d’ottica, istruito nell’aritmetica, siangli note non poche istorie, abbia udito con diligenza i filosofi, sappia di musica, non ignori la medicina, abbia cognizione delle leggi dei giurisprudenti, intenda l’astronomia e i moti del cielo (I, I, 7 quindi enumera le ragioni). La Filosofia poi fornisce l’Architetto d’animo grande, e fa ch’egli non sia arrogante e, ciò che maggiormente importa, che egli non sia avaro (tronco della vedova, metalli); perché non può degnamente farsi niun’opera se non da chi sia sincero e incorrotto. Non sia egli parziale, né abbia l’animo dedito a ricevere doni, ma con gravità sostenga il proprio decoro… (I, I, 9). Gli Antichi primieramente non commettevano opere se non ad Architetti di buona famiglia: quindi s’informavano se fossero onestamente educati (liberi e di buoni costumi). Ancora i medesimi artefici non altri ammaestravano se non i proprî figlioli, o congiunti, e li formavano uomini probi, a’ quali senza tema veruna affidar si potesse il danaro in cosa di sì grande importanza (VI, pref. 167).
  22. Le immagini di uomini ad arti distesi inscritti nel cerchio, così diffuse in età rinascimentale, inclusa quella di Leonardo, sono di origine vitruviana. Tra i tanti esempî, Vitruvio descrive le fasi di realizzazione di un’abitazione privata, mostrando concretamente di applicare le seguenti tre triadi di concetti, che parecchio hanno a che fare con la tavola tripartita:

Firmitas Venustas Utilita Symmetria Eurythmia Deco Ordinatio Dispositio Distributio

In primo luogo, spiega, si stabiliscono i criteri proporzionali (ordinatio o composizione dei singoli elementi); poi si passa all’esecuzione della pianta in larghezza e lunghezza (e questa è la dispositio); ciò fatto si provvede al decor (che è come dire distributio).

  1. Qui si chiarisce il rapporto micro-macrocosmico tra uomo e universo, in cui la città è il terzo, mediano polo: «sembra esser composta armonicamente la macchina di questo Mondo per l’obliquità del Zodiaco, e con molta consonanza mediante gl’influssi del Sole» ( VI, I, 169). Dunque determinare l’assetto urbanistico della città, disposta sui punti cardinali, rispecchia «l’armonia del zodiaco».

 

Il rituale d’apertura dei lavori in grado d’apprendista ha un incedere solenne, maestoso, e non potrebbe essere altrimenti: pone le basi, le fondamenta dell’opera massonica anche per i gradi successivi. Chi ben comincia è a metà dell’opera. A ripensarci, è evidente il sapore massonico di questo adagio, sia sul piano rigorosamente operativo, in cui salde fondamenta garantiscono la durata d’un edificio, sia sul piano iniziatico, in cui il cominciamento del cammino è conditio sine qua non.

Anche all’osservatore più distratto non può sfuggire il valore che nel rituale d’apertura è attribuito al tre: tre le domande del testamento a cui il profano deve rispondere, tre l’età simbolica dell’apprendista, tre i colpi di maglietto e della batteria, tre le luci e i gioielli di loggia, tre volte si nomina lo zenit, acme del percorso solare; tre i principî guida dell’opera: la saggezza, la forza, la bellezza; tre volte ripetuti i divieti di parlare di politica e religione, tre volte ripetuta la concessione della parola; il delta luminoso, infine, alle spalle del Maestro Venerabile 1.

Meno evidente invece la tripartizione che organizza e ritmicamente scandisce le fasi dell’apertura. Tre volte ci si pone all’ordine: 1) dopo la copertura del tempio, per verificare che tutti siano liberi muratori; 2) al momento di consacrare il tempio, con l’apertura del libro sacro e la sovrapposizione di squadra e compasso; 3) alla vera e propria apertura dei lavori. Non a caso ci si pone all’ordine tre volte: per scandire con la massima solennità le tre fasi d’apertura dei lavori. Nella prima fase il Maestro Venerabile si accerta che l’officina abbia consapevolezza dei proprî doveri: e sono nove i doveri menzionati, multiplo di tre, come la triplice batteria. Quindi si accerta che vi siano le condizioni idonee, nel tempo e nel fine: e ne enumera tre . La seconda fase riguarda la consacrazione del tempio, e la triplice comunicazione dei divieti che comporta. L’ultima, che vede la vera e propria apertura dei lavori, ribadita dai principî che la devono guidare: saggezza, forza, bellezza.

Ciò significa che il tre non è solo un importante simbolo del grado, ma un fondamentale criterio organizzativo, un sistema concettuale o filosofico o sapienziale, di cui tutto il rituale d’apertura è imbevuto; e questo criterio si applica sia ai singoli elementi, come l’età del grado e così via, sia a tutto l’insieme. In altre parole il rituale d’apertura ha struttura triadica o tripartita. È nel rituale d’apertura che si manifesta, immediatamente, un sistema organizzativo del pensiero: chi ben comincia è a metà dell’opera; o forse ancora più in là, come sostiene Aristotele 2.

In tempi in cui le tre Luci non avevano sotto mano il rituale stampato, e forse per ragioni di sicurezza nemmeno disponevano di un manoscritto, era assolutamente necessario darsi una struttura mentale per non dimenticare l’ordine rituale dei lavori, le proprie e le altrui funzioni, e per istruire l’officina: inevitabile dunque far ricorso all’arte della memoria 3. Ed è parecchio stimolante notare che per Giordano Bruno, che il Grande Oriente d’Italia considera come proprio precursore, «la sede della mente e della memoria è distinta in tre parti» 4.

 

Diagramma radiale dell’arte bruniana della memoria.

Dal De umbris idearum

L’indicazione di Bruno non è rimasta senza seguito. Francesco Bacone, nell’istituire una metodologia di ricerca sulla natura di tipo induttivo, che si fondi sull’esperienza e sulla verifica dell’esperienza, pone come fondamento la «dottrina delle tabulae», o delle tavole, termine non ignoto ai massoni. La compilazione delle tavole -così si esprime Bacone- apre la possibilità, da un lato, di condurre alla «fonte delle cose», e dall’altro di «organizzare e ordinare i contenuti acquisiti in modo da consentire all’intelletto d’agire su di essi»; quest’attività organizzativa dei contenuti acquisiti Bacone la chiama «Ministratio ad memoriam», organizzazione della memoria 5. In ciò le tavole, nel metodo baconiano, hanno funzione fondamentale, soprattutto le tavole di primo grado, che organizzano e dividono la conoscenza acquisita in tre parti, secondo il metodo di Bruno. Si avrà così la tabula presentiae, che raccoglie i casi in cui il fenomeno si manifesta; la Tabula absentiae, con i casi in cui il fenomeno non si manifesta, e la tabula graduum, dove rientrano i casi misti, graduali. Riconnettendosi esplicitamente alla tematica di Bruno della luce, delle tenebre, e dell’ombra, che è un caso graduale dei due fenomeni, Bacone, principiando l’indagine della natura dal fenomeno calore, ricovera nella tabula presentiae il sole e nella tabula absentiae la luna, altre effigî non sconosciute al tempio massonico 6.

L’ipotesi d’un influsso baconiano, per ciò che riguarda la consuetudine delle tavole massoniche, ci riconduce alle origini della metodologia moderna, ai tempi in cui a Londra la Royal Society innalzava a vessillo di una nuova filosofia sperimentale della natura proprio Francesco Bacone: correva l’anno 1660. Sappiamo che tra i fondatori della società figuravano Elias Ashmole e Robert Moray, entrambi massoni da quasi vent’anni e soci influenti, al punto che Isaac Newton, il grande personaggio della Royal Society, ha per molto tempo studiato l’antologia di Ashmole sugli alchimisti inglesi 7.

La Royal Society nasceva in quell’anno dopo una lunga, quasi ventennale gestazione. Le riunioni che porteranno alla prestigiosa fondazione cominciano intorno al 1645 per iniziativa di Haak, un tedesco originario del Palatinato, e di Wilkins, il cappellano del principe palatino. La Yates ha dimostrato con dovizia di dati come dal matrimonio del principe palatino con Elisabetta Stuart d’Inghilterra sortisse l’abbondante letteratura rosacrociana del Seicento. L’Europa protestante vide nel matrimonio la possibilità di fermare la Controriforma cattolica e la potenza asburgica dominante. È in quel clima fervido di speranze per una riforma generale delle arti, delle scienze, della religione, che i manifesti rosacrociani (1614) destano entusiasmo in tutta Europa. E le speranze per la riforma universale, brutalmente troncate dalla guerra dei trent’anni, si concreteranno quarant’anni dopo, almeno per i territorî scientifici, nel baconianesimo della Royal Society, e nella sua «dottrina delle tavole». E, per comune intento di superare definitivamente i conflitti religiosi che avevano devastato l’Europa, era proibito, nelle riunioni della Royal Society, parlare di religione: un altro aspetto non ignoto ai massoni 8.

Tra gli altri fondatori della Royal Society appare anche Cristopher Wren, il famoso architetto della cattedrale di S. Paolo, Gran Maestro della massoneria operativa 9. La sintomatica presenza di questo architetto d’influsso vitruviano-palladiano nella società che vedeva massoni e studiosi d’alchimia e pensiero rosacrociano ci introduce all’altra fondamentale influenza sul rituale d’apertura, in particolare sulla sua organizzazione mnemonica e metodologica tripartita, che proviene dal De Architectura di Vitruvio.

In Inghilterra Vitruvio 10 conosce una fortuna straordinaria in quel lasso d’anni che vede il fervore di riunioni e la fondazione della Royal Society, la fondazione della Gran Loggia Unita d’Inghilterra nel 1717, e la pubblicazione delle Costituzioni massoniche di Anderson del 1723. Periodo che i manuali di storia dell’arte definiscono «palladiano», fenomeno esclusivamente, tipicamente inglese, tanto che Anderson, nelle Costituzioni, lamenta con cognizione che «il grande Palladio non fu tuttavia sufficientemente imitato in Italia» 11.

Il testo di Vitruvio viene riscoperto e pubblicato in Italia nel Cinquecento: quattro edizioni latine e nove in italiano, senza contare le copie manoscritte e disegnate da architetti di grande fama. In Europa, salvo due edizioni cinquecentesche, la prima a consacrare la fama di Vitruvio tra gli architetti è del 1649, ad Amsterdam. È un’edizione quanto mai ampia, che raccoglie i commenti di Daniele Barbaro ed Henry Wotton 12. Nella concezione di Daniele Barbaro l’architettura «sopra ogni Arte, significa cioè rappresenta le cose alla virtù» 13.

 

Ritratto di Daniele Barbaro attribuito a Paolo Veronese. In mano regge la sua edizione del Vitruvius; alle sue spalle è il suo trattato sulla prospettiva

Il pensiero era condiviso anche dal Palladio, che nel suo trattato sull’architettura, dove dichiara Vitruvio suo «Maestro e guida», aveva posto a frontespizio un tempio con la virtù in trono sulla sommità: il suo trattato innalza letteralmente «un tempio alla virtù». Palladio che, giova ricordarlo, aveva compiuto il tradizionale percorso del maestro muratore 14, riteneva che l’arte poggiasse su principî universali e perciò approssimasse alla sapienza. E il suo amico Barbaro sosteneva che la «virtù consiste nell’applicazione»: la si raggiunge edificando.

Quanto a Wotton, nei suoi commentarî a Vitruvio, ricordava che il «Maestro Vitruvio» invitava a non essere un «Artefice superficiale e malcerto; ma un uomo che si immerge nelle Cause e nei Misteri della Proporzione» (corsivi e maiuscole come nel testo). Henry Wotton è altra persona legata al movimento rosacrociano che ha origine nel Palatinato giungendo addirittura a un culto per Elisabetta, la moglie del principe palatino, che durò tutta la vita 15.

Ma primo promotore della riscoperta dell’architetto e trattatista romano è Inigo Jones, amico di Wotton, architetto inglese e massone cui si deve l’avvìo dello stile palladiano che avrà stessa, straordinaria fortuna anche negli Stati Uniti d’America: basti pensare alla Casa Bianca.

 

Inigo Jones sessantenne ritratto da Anton van Dyck, circa 1640

Inigo Jones, in esordio di carriera, viaggiò tra il 1613 e il ’14 tra Italia e Nel nostro paese studiò attentamente Germania. l’architettura antica, Vitruvio, e naturalmente Palladio; in Germania, dove lavorò anch’egli al servizio del principe palatino, il protettore dei rosacrociani, ebbe modo di approfondire gli studî su Vitruvio: stabilendo un’intensa amicizia col vitruviano Salomon de Caus, architetto francese protestante col quale nascerà un sodalizio che avrà un determinante seguito in Inghilterra negli anni Quaranta, nella stagione palladiana. De Caus, che progettò il giardino del castello di Heidelberg, dove viveva il principe palatino, connotandolo di una marcata flessione esoterica ed ermetica, nello stesso giro d’anni pubblica Les raisons des forces mouvantes, fortemente influenzato dai capitoli vitruviani sulla meccanica. Inigo Jones e Salomon de Caus, «sotto l’influsso della riscoperta di Vitruvio, coltiveranno quelle discipline che Vitruvio raccomanda come indispensabili per il vero architetto: le arti e le scienze basate sul numero e la proporzione, la musica, la prospettiva, la pittura, la meccanica e così via» Tornato a Londra Inigo Jones progettò per la 16. città un grandioso piano articolato significativamente in tre poli, distrutto purtroppo dall’incendio del 1666 esame attento il progetto di 17. E a un triarticolazione della città discende dagli attenti, continui studî vitruviani, durante i quali Inigo Jones si volle perfino procurare disegni di Palladio sul trattato vitruviano.

A tentare una sintesi, appare chiaro che il recupero di Vitruvio, del suo trattato e del suo modus operandi ci riconduce ogni qual volta, in quell’epoca, a persone direttamente o indirettamente legate al mondo massonico. Palladio, che è il primo, con Daniele Barbaro, a riscoprirlo, conobbe ancora le antiche corporazioni muratorie. Inigo Jones e quindi Cristopher Wren, entrambi massoni. De Caus e Wotton, di cui non sappiamo se fossero massoni, sono però legati al rosacrocianesimo che si sviluppa dal Palatinato, come lo stesso Inigo Jones. E al rosacrocianesimo d’impronta palatina sono legati molti esponenti della Royal Society, anch’essi massoni, e lo stesso Wren, Gran Maestro della Massoneria operativa, architetto vitruviano, cioè cultore di scienze e perciò promotore della Royal Society.

Infatti molti storici sostengono che il palladianesimo angloamericano sia, di fatto, lo stile architettonico della Massoneria 18. D’altronde un’attenta lettura delle Costituzioni di Anderson del 1723, sceverando mito da storia, conduce nella medesima direzione. Il primo architetto storico menzionato da Anderson è Vitruvio, «padre di tutti gli autentici architetti». Seguono a ruota, tra le figure storiche di «autentici architetti» Palladio e Inigo Jones, «Grande Maestro Muratore»: «al tempo di Augusto, sotto il cui regno nacque il Messia, Grande Architetto della Chiesa, visse Vitruvio, il Padre di tutti gli Autentici Architetti fino a oggi…il Grande Palladio non fu tuttavia sufficientemente imitato in Italia, ma giustamente esaltato dal nostro Grande Maestro Muratore Inigo Jones» . Chiude la carrellata Cristopher Wren, cui spettano lodi e menzioni 19.

Non è dunque un caso se la prima edizione londinese del De Architectura di Vitruvio esca qualche anno dopo le Costituzioni di Anderson, con i commenti di Barbaro, Wotton e naturalmente Inigo Jones, citato anche nel titolo 20; e nel giro di poco tempo, dopo una totale assenza nel mercato librario, si registrano ben cinque edizioni di cui una replicata l’anno successivo, cosa, a quei tempi, da best seller.

È da immaginare che persone così autorevoli, architetti e scienziati, soci della Royal Society, urbanisti, trattatisti e poeti, difficilmente in officina si siano limitati a portare la «bavetta rialzata». È da immaginare che abbiano contribuito attivamente alla edificazione della massoneria speculativa almeno quanto hanno contribuito all’edificazione della città, come voleva Vitruvio, e alla diffusione del suo stile. È da immaginare che abbiano plasmato il lavoro di loggia come plasmavano le fasi di progettazione e realizzazione architettoniche. È da immaginare insomma che abbiano introdotto loro, nel rituale, non solo le copiose citazioni da Vitruvio, ma la stessa struttura concettuale del «padre di tutti gli autentici architetti».

A un primo esame del testo vitruviano ci si imbatte nell’ormai familiare sistematizzazione logico-geometrica del pensiero per progressioni triadiche, prima delle quali divide le ‘parti’ dell’architettura in aedificatio, o costruzione, gnomica, o l’arte di misurare il tempo per la realizzazione d’orologi, e la machinatio, o meccanica. La aedificatio a sua volta si suddivide in tre generi: defensio, o architettura militare, religio, o edilizia religiosa, e opportunitas, le costruzioni di pubblica utilità. La aedificatio è governata in tutti i suoi generi da tre concetti: la firmitas, la venustas, la utilitas. E qui troviamo i primi concetti a noi consueti: firmitas, che si traduce correntemente in ‘solidità’, è criterio essenziale per il fondamento dell’opera; il rituale ne dispiega le valenze recitando: «la forza lo renda saldo»; la venustas è propriamente la bellezza – «la bellezza lo irradi e lo compia»; quanto all’utilitas, Vitruvio specifica che «richiede che la costruzione risponda allo scopo». Qui giova ricordare che per Palladio, il maestro indiscusso degli architetti inglesi, «l’arte si avvicina alla sapienza», e questo deve essere il suo scopo. Ed ecco il rituale auspicare che «la sapienza illumini il nostro lavoro». Se scopo dell’apertura dei lavori è d’innalzare «templi alla virtù», come volevano Barbaro e Palladio sulla scia di Aristotele, e dunque lavorare nel campo della aedificatio, allora i lavori devono vitruvianamente essere governati da utilitas, firmitas e venustas: sapienza, forza e bellezza.

Per Palladio l’arte si avvicina alla sapienza, ma la sua era sintesi del pensiero vitruviano, non escogitazione autonoma. Per Vitruvio l’architetto è uomo che si muove a suo agio sia per esperienza che per raziocinio, versato in molti campi e discipline; l’animo nutrito dalla filosofia, evita l’arroganza e la parzialità, deve cioè essere tollerante. È evidente che tale perfezione etica e filosofica non può essere raggiunta che da «coloro che fin dall’età puerile salgono per questi gradi di dottrine». Ma la ragione della necessità di essere versato nello scibile umano, oltre la pratica che porta l’architetto a dover costruire opere per le più svariate funzioni, è che solo l’insieme delle discipline conduce a una «scienza universale»: alla sapienza. Solo le disparate discipline, nel loro insieme, ricostruiscono, l’universo intero. E questo Vitruvio lo spiega con il principio di corrispondenza tra microcosmo, l’uomo, e il macrocosmo, l’universo: «Io non penso che taluni possano a ragione chiamarsi così di subito Architetti, se non coloro che fin dall’età puerile salendo per questi gradi di dottrine, e nutriti della cognizione di molte scienze e arti, giugneranno al più alto colmo dell’Architettura…tutte le scienze hanno fra loro una corrispondenza e una comunicazione: perché la scienza enciclopedica, ossia universale, è, a guisa di un corpo intero, composta da tutti questi membri» 21. Credo che questa descrizione dell’architetto sapiente, tollerante, riflessivo e attivo, inserito nel cerchio cosmico 22, si attagli abbastanza a ciò che dovrebbe essere il massone, e certamente la sapienza deve illuminare il lavoro d’entrambi.

 

Vi sono altre triadi concettuali che costellano il trattato vitruviano: ordinatio dispositio e distributio, symmethria eurythmia e decor, che a loro volta si diramano in ulteriori progressioni triadiche. Ma è da notare che non si tratta solo di astrazioni. Tutt’altro: si tratta di momenti concretamente operativi, legati intimamente alla prassi del cantiere 23. Ma il rituale di apertura mostra di seguire la stessa scansione che nel trattato di Vitruvio ha la aedificatio, o costruzione, per la semplicissima ragione che i lavori si aprono per costruire. Tenendo presente che il trattato procede con una visione complessiva, universale: con una visione urbanistica di realizzazione della città come immagine del mondo.

Perciò la prima parte del trattato affronta la defensio, o l’architettura di difesa, soprattutto mura e torri. Che è quanto il rituale affronta con i primi due doveri: la copertura del tempio, prima, e la verifica che chi si trova dentro sia libero muratore. Dopo la costruzione delle mura, va suddiviso lo spazio interno della città «secondo gli aspetti del cielo», cioè orientando la città secondo i quattro punti cardinali: «Innalzate tutto all’intorno le mura, rimane ad effettuarsi la distribuzione interna del suolo, e la direzione delle piazze, non che dei capi delle strade giusta gli aspetti del Cielo». Il metodo è il seguente: «Circa un’ora prima di mezzogiorno si segni, su un piano di marmo a livello, posto al centro della città, con uno gnomone, l’estremità dell’ombra; parimenti, dopo mezzogiorno…»: si giunge così all’individuazione dei punti cardinali.

E qui il rituale prescrive che il Venerabile, dopo essersi accertato della posizione dei due Sorveglianti, cioè a sud e occidente, e della propria a oriente, chieda a che ora sia consuetudine aprire i lavori e che ora sia in quel momento; e riceve per due volte la risposta: «mezzogiorno». Così, anche il «piano di marmo posto al centro della città», ricorda non poco il quadro di loggia.

A questo punto la fase successiva del trattato vitruviano investe la religio o l’architettura religiosa. Vitruvio indica chiaramente che il tempio abbia il lato minore la metà del maggiore, come l’ideale tempio massonico, e che sia disposto con la cella sacra a oriente: «I sacri templi degl’Iddii immortali debbono situarsi in modo che siano rivolti a quell’aspetto a essi conveniente…l’effigie riguardi verso Occidente, così che quelli che vanno all’altare per farvi immolazioni e sagrifizj, guardino l’Oriente». Il rituale segue la stessa scansione: il primo Sorvegliante, come «quelli che vanno all’altare a farvi immolazioni e sagrifizî», procede verso l’oriente, apre il libro sacro e vi sovrappone squadra e compasso. L’accensione delle tre luci e le tre invocazioni, che seguono la consacrazione del tempio, abbiamo già visto coincidono con i principî vitruviani della utilitas, firmitas e venustas.

Il trattato di Vitruvio affronta, dopo gli edifici religiosi, quelli di pubblica utilità, che riguardano la cittadinanza intera e l’ex Venerabile, al termine delle tre invocazioni, ricorda che il fine dei lavori è «di pubblica utilità», è per «il bene dell’umanità».

Il trattato di Vitruvio getta luce anche su altri aspetti del rituale che sono stati oggetto di estenuanti, e contrastanti, disamine simbologiche. Per esempio le tre età massoniche -tre, cinque, sette- corrispondono alle possibili tipologie del tempio. Tre sono gli ordini, cinque le specie di intercolumni e sette i generi planimetrici di templi. I tre ordini concernono la tipologia della colonna, le sue proporzioni e il suo ornamento, e ciò si attaglia all’Apprendista, che deve lavorare su se stesso, sulla pietra grezza, in solitudine e silenzio. Le cinque specie di intercolumni (letteralmente: ciò che sta tra le colonne) concernono invece i rapporti tra le colonne: cominciano a collegare, direbbe Vitruvio, le varie «membra» del tempio, come in grado di Compagno, il cui etìmo richiama appunto la condivisione. Mentre i sette generi planimetrici si attagliano alla figura del Maestro, che ha finalmente raggiunto una visione globale e non lavora più sulla pietra, ma sul progetto. E infatti i tre gradi sono distinti da pietra grezza, pietra cubica, e tavola tripartita.

Spero di essere riuscito a restituire una minima parte dell’importanza che alle origini della massoneria speculativa si attribuiva al rituale d’apertura, col suo vigoroso impulso all’edificazione: chi ben comincia è a metà dell’opera. E l’avvìo non può che riguardare il comportamento, cioè l’etica: «innalzare templi alla virtù».

È comprensibile che chi conosceva bene il trattato di Vitruvio, come accadeva a Inigo Jones e ai suoi amici, difficilmente dimenticasse l’ordine di apertura dei lavori e d’altro canto chi cominciava a impratichirsi nel rituale si trovava agevolato nello studio dell’architetto romano. Ma non è solo funzione utilitaristica. Il rituale d’apertura ci si presenta, sotto l’angolazione vitruviana, come un vero, grandioso progetto di costruzione della città ideale, centrato su una rigorosa struttura di pensiero tanto teorica quanto operativa, che tante menti ha impegnato, dalla Città del Sole di Tommaso Campanella alla Nuova Atlantide di Francesco Bacone: per il bene dell’umanità.

 

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LA CARTILAGINE Dl SQUALO

LA CARTILAGINE Dl SQUALO

Un nuovo integratore alimentare

di

Giuseppe Cecere

Tutte le più accurate ricerche statistiche confermano l’ allungamento della durata media della vita, delle popolazioni del pianeta: come conseguenza si avrà, inevitabilmente, un aumento del numero di individui affetti da varie patologie, da quelle più gravi, come le cardiovascolari e del S.N.C., fino a quelle meno gravi, seppure importanti, come le malattie cutanee ed a carico dell’ apparato osteomuscolare.

Basti pensare, a solo titolo di esempio, che già oggi, più del 15% della popolazione mondiale è colpita da diverse forme di artrite ed arffosi.

Per tale motivo, nel futuro ci sarà sempre più l’esigenza di mettere a punto nuovi prodotti efficaci; meglio se naturali e con minori effetti collaterali, utili a prevenire e curare tali patologie come quelle di cui ci occuperemo in questo articolo.

Le patologie osteo-articolari e cutanee minori

 

Queste ultime, relative all’invecchiamento cronologico e al danno foto-indotto della pelle, sono in continuo aumento nella popolazione mondiale.

Studi recenti, riferiscono che i polisaccaridi – derivati dalla cardlagine dei pesci di mare ed in particolare da quella di squalo – hanno diversi effetti e molteplici impieghi e applicazioni.

La cartilagine di squalo è un complesso acido mucopolisaccaride (MPS) che contiene naturalmente sostanze proteiche, collagene denaturato e sostanze non proteiche, glicosamino glicali, incluso il condroitin solfato A, B e C (ASC). Contiene, inoltre, circa il 15% di calcio ed il 9% di fosforo organici che sono prontamente biodisponibili a livello metabolico.

Le attività biologiche di tali sostanze possono essere complessivamente così riassumibili:

I – effetto antinfiammatorio naturale, coadiuvante la terapia del dolore;

  • – stimolazione di processi rigenerativi cellulari e di accelerazione dei tempi di cicatrizzazione tissutale;
  • – conferimento di elasticità ai tessuti ed alla pelle (rughe, smagliature).

Per la prima delle sue proprietà, I’ A.S.C. può essere usato in tutte le affezioni dell’ apparato osteo-muscolare, in particolare nelle osteo-artrite ‘e nelle artrosi, di cui migliora sensibilmente la sintomatologia. In tali patologie, l’angiogenesi è una delle cause principali nelle calcificazioni della cartilagine nelle giunture: infatti, il liquido sinoviale che circonda la cartilagine delle giunture, stimola la crescita di piccoli vasi sanguigni che, a loro volta, portano alla calcificazione. La cartilagine umana ha un indice estremamente basso di ricambio cellulare e non è, pertanto, possibile avere una regressione completa dell’infiammazione della parte, colpita dal processo reumatoide: la sintomatologia più immediata è costituita dal fenomeno doloroso, che conduce all’immobilità, nelle situazioni più gavi. Diversi studi hanno dimostrato che nel 70% dei casi di osteo-artrite e nel 60% dei casi di artrite reumatoide, la cartilagine di squalo è in grado di ridurre e migliorare sensibilmente tali sintomatologie . La cartilagine di squalo possiede, inoltre, un effetto riparatore importante sulla pelle danneggiata dal sole, oltre a migliorare la fragilità di capelli e unghie, grazie alla presenza di componenti con ottime proprietà idratanti anti-age. Tutti sappiamo che unaesposizione prolungata ai raggi del sole provoca l’invecchiamento precoce della pelle. I segni di tale invecchiamento, specie nel foto-invecchiamento, includono ingiallimento della pelle, perdita di elasticità e rilassamento, macchie diffuse e un aspetto coriaceo oltre a una serie di neoplasmi maligni e pre-maligni, che nell ‘insieme prendono il nome di “elastosi solare” Anche in questo caso, recenti studi, che trovano la loro prima origine in quelli del Dr. J. PRUDDEN in USA a partire dal 1954, confermano che gli estratti di cartilagine ricavata dal pesce di mare hanno un efficace effetto riparatore sull’elastosi (in particolare negli adulti di età compresa tra i 40 e i 60 anni) oltre a un interessante effetto di stimolazione delle difese immunitarie.

Essa, tuttavia, non deve essere considerata un farmaco, ma un alimento efficace, indicato come coadiuvante nella terapia di molte patologie, le più comuni sono quelle innanzi ricordate.

In quanto “food”, cioè alimento, non ha particolari controindicazioni, tuttavia produce reazioni allergiche reversibili, con la sospensione dell’assunzione del prodotto, tanto che, per il suo contenuto in principi attivi, non è opportuno somministrare il prodotto a bambini e a donne in gravidanza o in fase di allattamento.

Per quanto attiene alla posologia e alle modalità d’uso, fermo restando l’opportunità di consultare il medico o il farmacista per ottenere i necessari pareri professionali, si può indicativamente consigliare la dose di lg per ogni 10 kg di peso corporeo, come coadiuvante nei fenomeni dolorosi infiammatori.

Tali dosi, sono disponibili in commercio sotto forma di compresse, che devono essere assunte prima dei pasti con un bicchiere d’acqua o, meglio ancora, di succo vegetale (pomodoro, carote o succo di frutta). •

 

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