IL TEMPIO NEL SUO SIGNIFICATO SIMBOLICO
ARCHITETTO ETERNO, ARCHITETTURA ETERNA
ALLA CONCEZIONE PARMENIDEA PER CUI L’ESSERE E’ UNO, IMMUTABILE, ETERNO, SI CONTRAPPONE LA CONCEZIONE ERACLITEA PER CUI NULLA PERMANE MA TUTTO DIVIENE. L’ESSERE ERACLITEO, NON ESSENDO INTESO COME ESSERE ASSOLUTO E PERFETTO, E’ QUINDI TALE IN QUANTO ACCOGLIE IN SE’ IL NON-ESSERE; E’ TALE IN QUANTO ETERNAMENTE DIVIENE ED ETERNAMENTE SI RICREA, DATO CHE NON POTRA’ MAI ESSERE COMPIUTO E PERFETTO IN SE STESSO.
di C. B.
E’ noto che i simboli, tutti indistintamente, hanno un loro particolare significato iniziatico. Che significa, allora, la costruzione del Tempio? E’ noto pure che il Tempio, orientato verso i quattro punti cardinali, e circondato da colonne, non possiede la volta. Le pareti s’innalzano verso il cielo stellato a significare che il lavoro dei fratelli non mai compiuto (perfetto), ma sempre in fieri (perfettibile); non è mai concluso, ma eterno; quelle mura non saranno mai coperte da una volta che le sovrasti e le rinserri per sempre. Questo significherebbe la fine di ogni attività pensante e, pertanto, anche del perfezionamento morale del fratello; sarebbe l’adagiarsi nel riposo che ottunde il pensiero e arresta l’azione.
Ecco allora il significato duplice del Tempio; la sua costruzione è eterna (perfezionamento morale dell’uomo), ma eterno come si vedrà, è pure l’architetto ed eterna è la sua opera. Come il Grande Architetto, pertanto, trae il mondo ab aeterno dai supremi archetipi, così l’azione dell’uomo deve adeguarsi alla creazione, in cui il supremo Architetto attua se stesso in un ritmo infinito. La creazione è, dunque, eterna e sempre in atto; essa non è mai compiuta; bonum est diffusivum sui, il bene si diffonde necessariamente, così come la luce è tale solo in quanto illumina e non può che illuminare.
Ma è lecito a noi massoni dare una siffatta interpretazione dell’opera creatrice del Grande Architetto in armonia con il corrispondente perfezionamento morale dell’uomo? Se è certo, infatti, che ai fratelli è lasciata la più ampia libertà d’interpretazione sul Grande Architetto e sui suoi attributi, non dovrebbe essere lecito proporre in questa sede una dottrina specifica in merito; una dottrina che si presenta, almeno nell’apparenza, particolarmente suggestiva. A questo punto, devo però precisare che non pretendo affatto d’imporre una determinata concezione dell’universo, della divinità stessa e dell’uomo. Ciò, date le premesse, non sarebbe né possibile, né lecito. Se, pertanto, non intendo imporre una determinata visione del mondo e dell’uomo – dell ‘uomo, intendo dire, la cui attività si adegui all’opera eterna del Grande Architetto – non posso, d’altra parte, esimermi dal rilevare come, attraverso l’opera e la dottrina dei più grandi esponenti del pensiero massonico nel periodo della sua più luminosa fioritura, tra la fine del Settecento e i primi decenni dell’Ottocento, si sia andata sviluppando con mirabile continuità evolutiva il presupposto filosofico di detta dottrina: una dottrina che è senz3altro, a mio parere, la più esaltante a maggior gloria del G.A.D.U., dell’uomo e della sua opera; la più conforme alla dignità di quest’ultimo e del suo inesauribile compito nella vita e nella storia.
Del resto il significato iniziatico dell’Oriente Eterno sta appunto in questo; è un Oriente cui non si contrappone alcun occidente. Il sole splende nell’infinito e la sua luce è perenne creazione. Esso splende nelle tenebre; ma è attraverso le tenebre che noi acquistiamo coscienza della luce, come attraverso la luce acquistiamo coscienza delle tenebre, luce e tenebre si condizionano dialetticamente, perché dove non vi contrasto non vi è lotta; non vi è la pienezza della vita, ma la stasi della morte. Nel contrasto dialettico il polso dell’uomo batte all’unisono con il polso stesso della divinità. Perenne creazione e perenne azione, dunque, tanto in Dio quanto nella vita e nel perfezionamento morale dell’uomo, la cui suprema dignità sta appunto nell’inesauribile tensione verso tale elevazione spirituale. L’uomo può elevarsi o degradarsi – e questo l’aveva già intuito Pico della Mirandola – ma in ciò appunto consiste la sua dignità. Quasi fosse un divino artefice, egli plasma liberamente la propria effige spirituale: “in quam malueris tute formam effingas”. Dio, d’altra parte, è assoluta libertà creatrice; egli deve necessariamente manifestarsi. Necessità e libertà in Dio coincidono; il creare appartiene alla sua autentica natura ed è singolare come a tutto questo si accompagni l’esaltazione dell’uomo e della sua dignità.
Dopo il Rinascimento, tappa necessaria verso l’età moderna, è l’Illuminismo. Esso, dopo aver superato i residui della vecchia metafisica, segna veramente l’uscita dell’uomo dallo stato d’inferiorità, affermando decisamente, e per sempre, il diritto alla libera ricerca. Basterebbe, del resto, questa sua grande benemerenza verso l’umanità ad esaltarlo; e, dell’Illuminismo, la Massoneria fu, come ben sappiamo, la punta di diamante. Perché il sapere filosofico e scientifico potesse procedere verso ulteriori mete, era necessario sgomberare la mente umana e il cammino della civiltà dall’ignoranza, dal fanatismo e dal pregiudizio. Non si dimentichi che alla loggia delle Nove Sorelle apparteneva l’élite della cultura francese e che furono massoni tutti, o quasi, i propulsori e i redattori dell’Enciclopedia.
Ma, procedendo oltre l’Illuminismo, il deismo e la dottrina di una morale naturale, occorre osservare che l’uomo si afferma, quale essere morale, solo in quanto in lui convivono in perenne contrasto ragione e istinto. L’uomo è libero solo in quanto vi è in lui la suddetta dualità; altrimenti, impossibile ipotesi, se l’uomo fosse solo ragione o solo istinto, egli agirebbe nella necessità della spontaneità. L’uomo è perfettibile perché la ragione tende, deve tendere, a superare l’istinto in un processo perenne che è appunto perfettibilità. Se l’uomo è piuttosto portato a seguire l’istinto, l’azione morale implica un continuo sforzo di superamento e solo allora si ha la virtù e la libertà dalle passioni. Ecco perché l’istinto, che è legato necessariamente alla corporeità, non potrà mai scomparire; si può auspicare, a rendere più facile l’azione morale dell’uomo, che esso si riduca sempre più; che esso, attraverso un lento processo di elevazione spirituale, tenda quasi a scomparire, così da costituire un minimo ostacolo all’affermazione della razionalità umana.
Sarebbe, altrimenti, un’astratta perfezione in cui possiamo e dobbiamo credere, ma che non possiamo razionalmente dimostrare. L’uomo pertanto – ecco l’incompiuta costruzione del Tempio – come essere morale non sarà mai una realtà compiuta e perfetta. Egli travalica, nel suo sforzo di perfezionamento morale, di limite in limite.
Il pensiero, dunque, in ogni sua attività, non solo teoretica, ma anche morale, vive e procede solo attraverso una sempre viva e aperta dialettica.
Ma è giunto il momento di cogliere il nesso tra l’uomo e la divinità; tra l’infinito perfezionamento dell’uomo e l’infinita creatività di Dio.
All’aurora del pensiero occidentale, due grandi pensatori si collocano su opposte concezioni; queste due contrapposizioni metafisiche trovano, infatti, i loro massimi esponenti in Parmenide e in Eraclito.
Due concezioni dunque opposte, perché partono da due concezioni contrapposte dell’Essere. Orbene, il pensiero massonico, nei suoi massimi esponenti, è chiaramente orientato, come si vedrà, in senso eracliteo; esso si identifica con quelle correnti di pensiero che, alle soglie dell’età moderna, respingendo i sistemi metafisici statici e chiusi che concepivano l’Eterno come un’astratta e impossibile perfezione, lo vedono invece come qualcosa che si va eternamente determinando nel tempo; l’Infinito come qualcosa che si determina nel finito. Ma, da queste posizioni che pongono un netto dualismo tra Dio e il mondo, si era già passati, sulla traccia di Eraclito, a quelle di dualismo attenuato che contraddistinguono nella età ellenistica il pensiero greco, il quale trova la sua più adeguata espressione nell’emanatismo neoplatonico; tappa necessaria quest’ultima, verso un’ulteriore evoluzione immanentistica e panteistica.
E tale passaggio, attraverso il neoplatonismo, sarà graduale. Dio non è più visto come una suprema entità trascendente e nettamente separata dal mondo; Dio è visto come l’Uno da cui emana il molteplice; Egli è la luce che illumina; tale luce non può essere contemplata direttamente, ma attraverso ciò che illumina. Conosciamo quindi la luce di cui tutto partecipa attraverso l’intelletto, l’anima e il mondo. Quest’ultimo partecipa quindi della luce divina; esso non è ombra assoluta, ma penombra; è la divina luce di cui, sia pure in infimo grado, partecipa. Il dualismo estremo è dunque così attenuato perché, come il sole è presente in ciò che illumina, così l’Uno è presente nella molteplicità dell’universo.
Quando l’Uno si risolverà senza residui tutto quanto nel molteplice, si avrà il pariteismo di Bruno. L’ultimo grande attacco del pensiero rinascimentale contro la forma in sè e l’atto puro aristotelico, viene, dunque, dal filosofo di Nola. La forma senza la materia è astratta e impensabile; Bruno non giunge al punto di escluderla, ma la lascia al “fedel teologo”. In realtà non si può razionalmente concepire la forma senza la materia; il principio attivo senza quello passivo; Dio senza il mondo. Dio, anima del inondo, creando il mondo, crea se stesso. Dio, causa infinita, non può esaurire se stesso in un unico atto creativo; se la causa è infinita, come si conviene ad una entità infinita, essa non posa mai e non si estingue. Il mondo è la vita stessa di Dio che si determina nello spazio e nel tempo. L’Infinito non è l’atto puro definitivamente realizzato; esso è visto come un “concetto limite”; esso è atto e potenza al tempo stesso; esso è attuosa essenza. L’Infinito consiste in una infinita tensione e non nella meta raggiunta.
Dio è assoluta libertà creatrice; da nulla, pertanto, è determinato tranne che da se stesso e in questo autocondizionamento consiste appunto la libertà-necessità di un eterno e inesauribile processo creativo.
Ma ci siamo in tal modo avvicinati a quelle affermazioni di immanentismo che sono proprie dei massimi esponenti del pensiero massonico nell’età moderna: da Lessing a Herder, da Goethe a Fichte. Quando infatti il filosofo tedesco Federico Jacobi credette di potere attaccare il panteismo in quello che è il suo massimo esponente, Benedetto Spinoza, sostenendo che un mondo tutto assorbito in Dio equivale ad un mondo senza Dio, si determinò nel pensiero tedesco un risultato del tutto opposto a quello che lo Jacobi si era prefisso di raggiungere; da allora l’influenza di Spinoza si accrebbe enormemente e l’idealismo romantico vi attinse linfa vitale.
In realtà, allo Jacobi, legato ancora alla concezione tradizionale di un Dio personale e trascendente, non poteva non ripugnare il panteismo spinoziano. Con suo grande disappunto era però costretto a rilevare – si era intorno al 1780 – che Efraim Leasing, il massone Lessing di cui aveva cercato l’autorevole appoggio, si era ormai convertito all’immanentismo spinoziano, giudicando impossibile che l’infinità divina, di cui era convinto assertore, potesse conciliarsi con la personalità di Dio stesso. Poco dopo un altro grandissimo fratello, Wolfango Goethe, prese le difese dello spinozismo, affermando che il concetto spinoziano, e quindi il panteistico della divinità, gli sembrava essere il solo accettabile. In quegli stessi anni un altro grande fratello, Giovanni Herder, affermava che Dio è tutto e tutto è in Lui. Il mondo intero non è che il fenomeno di una forza eternamente vivente e operante.
Più tardi, Amedeo Fichte, il fratello Fichte, il fondatore dell’Idealismo moderno, identificherà significativamente Dio con l’ordine morale del mondo. L’uomo si adegua a Dio in quanto, impegnato in un’eterna lotta cerca di assicurare la vittoria dell’Io (ragione) sul non-Io (istinto). L’essere tende al “dover essere”, un “dover essere” sempre raggiunto e sempre superato. Quanto al “Dover Essere- in senso assoluto, un “Dover Essere” che si ponga al di là di questo contrasto dialettico, esso non è oggetto di ragione ma di fede, né potrebbe, d’altra parte, essere diversamente, in quanto si tratterebbe, ancora una volta, di una impersonale e astratta perfezione non traducibile in termini razionali.
A questo punto, ad esprimere compiutamente il concetto adeguato della divinità e della sua attività creatrice, mi piace citare un famoso passo del capolavoro di Goethe. Il vecchio Faust, intento a tradurre il prologo del Vangelo nella penombra sua laboriosa officina, così si esprime: In principio era il Verbo, e qui già mi arresto. Davvero non posso stimare il Verbo tant’alto. Chi mi aiuta al seguito? Debbo tradurre altrimenti se bene m’illumina lo Spirito. Sta scritto: In principio era il pensiero, medita bene codesto primo verso; che la tua penna non abbia troppa fretta. E’ proprio il pensiero che tutto opera e crea? Starebbe meglio: In principio era l’energia. Ma nel momento stesso che metto più la parola, qualcosa mi avverte che non mi ci fermerò. Ecco, lo Spirito m’aiuta; prendo d’un tratto consiglio e scrivo sicuro: In principio era l’Azione.
In principio, dunque, cioè ab aeterno, l’Azione. L’Azione volta a significare l’attuosa, inesauribile potenza creatrice di Dio come pensiero in atto nella costruzione di quel grande Tempio che è l’Universo.
(da L’INCONTRO delle genti – Anno XXVI aprile-giugno 1986 – Ed. E.RA INCONTRO s.r.l.)