IMMORTALITA’ DELL’ANIMA

IMMORTALITA’  DELL’ANIMA

 

 

Fin da quando l’uomo ha sviluppato, millenni fa, la capacità di pensare, di riflettere sulla propria esistenza e di interrogarsi sui misteri della vita, è rimasto particolarmente colpito dalla morte, da quell’evento drammatico che conclude, in modo ineluttabile, qualsiasi ciclo vitale.

Non ha mai pienamente accettato (e non accetta tuttora) che una persona, che fino ad un istante prima era piena di vitalità, giaccia immobile, gli occhi spenti, la bocca sigillata, il sorriso cancellato, azzerato ogni pensiero, oscurati i sogni, annullati i progetti, scomparso ogni affetto e ogni sentimento.

Il dolore di fronte alla morte accompagna il mondo da sempre; ma mentre negli animali esso si manifesta (e direi si esaurisce) con un profondo senso di tristezza, nell’uomo assume anche una valenza esistenziale che lo obbliga, ogni volta, ad affacciarsi alla propria coscienza, a scavare nel profondo del suo animo, a chiedersi quale senso abbia la sua esistenza, a quale disegno superiore risponda questo suo così breve percorso sulla terra, cosa lo attende oltre le colonne della vita, nella dimensione ignota dell’aldilà.

Sovrastato da questi ed altri inquietanti interrogativi, l’uomo ha elaborato nel tempo la convinzione che una parte di lui doveva sopravvivere alla morte fisica, una parte invisibile ma che tuttavia egli avvertiva essere presente nel suo intimo; non poteva finire tutto con la degradazione della materia, l’uomo non poteva essere stato creato per vivere un solo attimo e poi scomparire, senza che la scintilla divina che sentiva di possedere non continuasse a vivere anche fuori della sua materialità, destinata ad essere distrutta.

 

Nel BHAGAVAD-GITA, un libro orientale antichissimo, si leggono queste frasi di un fascino assoluto e di una straordinaria attualità:

“Chi sono io? Sono questo dito? Sono questo corpo? Sono questi capelli? No, non sono questo e non sono quello. Io sono molto di più di questo corpo, perché in me abita lo spirito! “

“Possiamo sentire, percepire la presenza della spiritualità all’interno di questa materia. Possiamo percepire l’assenza dello spirito davanti ad un cadavere. Quando vediamo qualcuno che muore, possiamo avvertire che qualcosa sta lasciando il suo corpo. Anche se non possiamo vederlo con i nostri occhi, quel qualcosa è lo spirito.”

“Per l’anima non c’è né la nascita né la morte. Esiste e non smetterà mai di esistere. Non nasce, non muore, è eterna, originale, non ebbe mai inizio e non avrà mai fine. Non muore quando il corpo muore.”

“Sappi che non può essere annientato ciò che pervade il nostro corpo. Nulla può distruggere l’anima eterna.”

 

Per ritrovare questi concetti nel mondo occidentale, espressi in maniera più vicina al nostro sentire, bisognerà attendere molti secoli, fino all’esternarsi del pensiero di alcuni dei più importanti filosofi Greci. Per essi, l’esistenza di un’anima immortale, che sola può dare un senso alla vita degli uomini, non resta più una mera “credenza”, non è soltanto una “fede” e una “speranza”, ma diventa razionalmente dimostrabile.

Nell’Orfismo essa era una semplice dottrina misteriosofica, mentre in quei Presocratici che avevano accettato la visione orfica restava presupposto in contrasto con i loro principi “fisici”. In Platone invece si fonda e s’impianta perfettamente nella metafisica, cioè sulla dottrina del soprasensibile, di cui diventa quasi corollario: l’anima è la dimensione intelligibile e immateriale dell’uomo ed è eterna come eterno è l’intelligibile e l’immateriale.

Per Platone l’anima ha, come carattere essenziale, la vita e l’Idea di vita: è essa, infatti, che porta la vita nel corpo e la mantiene (e questo per i greci era una cosa più ovvia che per noi, perché il termine psyché richiama la nozione di vita e significa, in molti contesti, semplicemente vita). E poiché la morte è il contrario della vita, l’anima, avendo come carattere essenziale la vita, non potrà accogliere in sé la morte e dunque sarà immortale.

Pertanto, al sopraggiungere della morte, si corromperà il corpo e l’anima se ne andrà altrove. Perciò anima = Idea di vita = ciò che per sua natura è e dà vita = immortale = eterna. “Quando pertanto – conclude Platone – una cosa non perisce di alcun male, né proprio né estraneo, è evidente che quella cosa sia per sempre; e se è per sempre, è immortale”.

In questo contesto è evidente che l’esistenza e l’immortalità dell’anima hanno senso unicamente se si ammette un essere soprasensibile, che Platone chiamava “mondo delle idee”, ma che significa, in ultima analisi, che l’anima è la dimensione intelligibile e spirituale dell’uomo. Con il grande filosofo l’individuo scopre di essere a due dimensioni e tale acquisizione sarà da lì in poi irreversibile; l’anima, in cui Socrate (superando la visione omerica e presocratica) additava il “vero uomo”, riceve con Platone la sua adeguata fondazione ontologica e metafisica e una precisa collocazione nella visione generale della realtà.

Egli aveva ben chiaro, nelle sue riflessioni, che se per provare che esiste un al di là  forse è bastato e basta un ragionamento, non appena si cerchi di dire come sia questo al di là, il ragionamento si rivela insufficiente e non restano che l’immaginazione, la poesia e il mito.

Scrive Platone: “Certamente, sostenere che le cose siano veramente così come io le ho esposte, non si conviene ad un uomo che abbia buon senso; ma sostenere che o questo o qualcosa di simile a questo debba accadere delle nostre anime e delle loro dimore, dal momento che è risultato che l’anima è immortale: ebbene, questo mi pare che si convenga e che metta conto di arrischiarsi a crederlo, perché il rischio è bello!”

   Il senso ultimo cui il filosofo voleva pervenire è che l’uomo sta sulla terra come di passaggio e la vita terrena è come una prova. La vera vita è nell’al di là, nell’Ade, nell’invisibile. E’ qui che l’anima viene “giudicata” in base al solo criterio della giustizia e dell’ingiustizia, della temperanza e della dissolutezza, della virtù e del vizio. Di altro i giudici dell’al di là non si curano e non conta assolutamente nulla se essa è stata di un gran re o del più umile dei suoi sudditi: contano soltanto i segni di giustizia o di ingiustizia che reca in sé.

E la sorte che tocca alle anime può essere triplice:

  1. Se avrà vissuto in piena giustizia riceverà un premio, andando in luoghi meravigliosi, nelle isole dei beati o in posti ancora superiori e indescrivibili;
  2. Se avrà vissuto in piena ingiustizia al punto da essere diventata inguaribile, riceverà un eterno castigo e sarà precipitata nel Tartaro per sempre;
  3. Se avrà vissuto in parte giustamente e in parte ingiustamente, pentendosi altresì delle proprie ingiustizie, sarà solo temporaneamente punita e poi, espiate le sue colpe, riceverà il premio che merita.

Questa sorprendente e magnifica intuizione diventerà quello che la dottrina cristiana, chiamerà paradiso, inferno e purgatorio!

 

 

 

 

Alcuni scienziati sostengono che 21 grammi sono il peso che ciascun essere umano perde nel momento del passaggio dalla vita alla morte. Il peso di cinque centesimi, di un colibrì, di una barretta di cioccolato. Il peso dell’anima umana.

Ventuno grammi quindi sono, da un lato il senso della perdita, del dolore, dell’infelicità, ma rappresentano anche la speranza di una nuova vita, di una rinascita, di una permanenza nell’universo di qualcosa di noi.

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