Roberto Cabib (Lab. n. 33. 1997
Al Fratello Carlo Lorenzini, alias Collodi, giornalista, educatore, mazziniano — nato a Firenze il 24 novembre 1826 e passato all’Oriente Eterno il 26 ottobre del 1890 — siamo debitori del capolavoro de “Le avventure di Pinocchio: Storia di un burattino”, pubblicato in volume nel 1883 e divenuto l’opera della letteratura italiana dell’Ottocento più conosciuta al mondo. Il libro è una storia di grande carica umana in cui sono narrate le peripezie del ragazzo-burattino che va alla scoperta della vita ora dolente, ora gioiosa, in un’altalena di vicende che finiscono per esaltarne l’indomita volontà. Pinocchio si ribella, sbaglia, si pente e cerca giustizia, spera e si disillude, si dispera e cade: ma mai si arrende e sempre risorge dopo ogni naufragio. L’opera di Collodi è un ritratto preciso della situazione sociale e culturale di un’Italia povera e contadina, è un’allegoria della favolosa condizione infantile; è la celebrazione della libertà e dello slancio della fantasia contro le regole del perbenismo borghese.
Fatta l’Italia nel 1861, ancorché non territorialmente completata, “restavano ancora da fate gli italiani”, secondo le parole di Massimo D’Azeglio. Oltre all’immane compito di formare una coscienza nazionale, vi erano i drammatici problemi del pauperismo, dell’arretratezza dell’economia e dell’analfabetismo. inevitabilmente il nuovo Stato si scontrava con la Chiesa, già ostile al processo di unificazione nazionale e timorosa, di vedersi sottrarre il monopolio della gestione delle coscienze, oltre che di perdere i suoi privilegi. Faticosamente lo Stato cercava di affermare la sua sovranità nel campo dell’istruzione popolare ed avviare un’opera di modernizzazione che richiedeva diffusione di nozioni tecniche e scientifiche, insegnamento professionale, scuole d’arti e mestieri, tollerate dalla Chiesa solo nell’ottica di una concezione caritatevole ed assistenziale. La borghesia più aperta contribuiva promuovendo ed organizzando le società di mutuo soccorso, le cooperative di consumo, le banche popolari e, nel campo dell’istruzione, le biblioteche popolari ed itineranti, le leghe per l’istruzione dei popolo, ed altre iniziative pedagogiche laiche che avrebbero notevolmente contribuito alla riduzione del tasso di analfabetismo.
“Civiltà Cattolica”, la rivista della Compagnia di Gesù, spiegava bene, nel 1882, l’ostilità cattolica alle varie iniziative educative per emancipare il popolo, dietro alle quali vedeva, a ben ragione, anche l’importante effetto propulsivo della Massoneria. Secondo i gesuiti, la diffusione dell’insegnamento
scientifico e del concetto del lavoro come mezzo di riscatto — cioè di quell’etica che nell’Ottocento trovava espressione letteraria nel “Self-help” di Samuel Smiles — era da condannare nettamente, poiché provocava “l’apostasia della Ragione dalla fede e della Scienza da Dio”. La contrapposizione frontale tra i valori laici e la Chiesa cattolica non era destinata, comunque, alla rottura e progressivamente sarebbe riaffiorato l’antico istinto al compromesso da parte di una classe dirigente moderata. Per quest’ultima, l’indebolimento della Chiesa non andava protratto oltre il limite che provocasse la perdita della sua influenza ideologica sulle classi subalterne, poiché essa rappresentava sempre un valido strumento utile come “baluardo contro il risveglio politico delle masse piccole borghesi ed operaie della città”. Era un fenomeno che andava evidenziandosi ancor più sotto il pontificato di Leone XIII (assurto al soglio pontificio nel 1878), quando la borghesia moderata si trincerava nel concetto della povertà come dato di fatto insuperabile, sviluppando, nel contempo, la teoria del “paternalismo organico” nei riguardi dei subordinati, che si basava anche sull’uso dell’educazione religiosa come meno di conservazione dell’ordine sociale.
Di tale spirito erano espressione, in quegli anni, vari libri di testo o di supporto all’istruzione popolare, o di pubblicazioni per la gioventù, che andavano ad inserirsi sulla scia del “Giannetto” di Luigi Alessandro Parravicini, tutti tendenti alla conciliazione ed al compromesso tra aspirazioni nazionali e tradizioni religiose. Tuttavia resisteva e sussultava ancora, negli anni Ottanta, un’altra letteratura per la gioventù, nella quale era assente “la dottrina del parroco” e che aveva i suoi momenti più alti e significativi nel noto “Cuore” di De Amicis e nell’opera del nostro Fratello Collodi.
Nel suo “Pinocchio”, infatti, traspare un costante ‘fil rouge” che potremmo definire “etica laica”, riassumibile nelle parole del cane Alidoro, quando dice al burattino: “in questo mondo bisogna aiutarsi I ‘uno con l’altro’’; o nel comportamento del Colombo che trasporta Pinocchio in riva al mare, alla ricerca del povero Geppetto, e che se ne va via rapidamente, fatto il prezioso servizio, senza attendere né sollecitare ringraziamenti. Come altrettanto si può individuare nel concetto del lavoro che alla fine premia e dà i frutti che non potranno mai essere dati dai “quattrini rubati”. Come un’etica laica si può scorgere nelle varie invocazioni che Pinocchio esprime durante lo sviluppo del racconto, tutte rivolte verso qualcosa di trascendente, che però non si identifica mai con Dio, ma semmai più genericamente nell’immagine del Cielo.
Ma in “Pinocchio” c’è dell’altro, c’è ancora di più, a ben guardare. All’opera di Collodi sottintendono anche altre motivazioni che trascendono i limiti della letteratura per l’infanzia o dell’indagine sociologica del tempo. Vi sono significati e motivazioni nascoste di fronte alle quali chi, come me —che appena qualche ora fa non sapeva “né leggere ne scrivere, ma solo compitare” — può solo cercate di intuire, confidando nel benevolo riscontro dei Fratelli del linguaggio esoterico. Ecco trasparire dal romanzo, allora, tutta una serie di simboli a noi familiari: lo scalpello ed il maglietto di (Geppetto. con i quali scolpire la sua pietra grezza, quel tronco di legno datogli da mastro Ciliegia; ecco i cappucci dei conigli che si avvicinano, con la bara, al burattino riottoso che non vuole prendere la medicina amara; il cappio a cui il Gatto e la Volpe appenderanno Pinocchio alla Quercia grande; la barba di Mangiafuoco descritta come un grembiale che copriva il petto e le gambe del burattino.
Ed oltre ai simboli, i richiami ai riti iniziatici dell’antichità: il serpente che intralcia la via del burattino, il battente della porta che improvvisamente diventa anguilla, il nome Lucignolo, che all’epoca era sinonimo di un altro piccolo rettile, la cecilia. Tutti elementi ricollegabili a quelle sette degli Ofiti, dediti al culto del serpente e delle pratiche magiche, che possono catalogarsi nell’ambito di una Gnosi volgare. Un riferimento al culto di Osiride e lside, al quale il prescelto, dopo giorni di digiuno veniva iniziato, potrebbe venire dalla scena del Pinocchio affamato in quella cucina buia, disadorna con gli oggetti virtuali dipinti sulle pareti (perché non un Gabinetto di Riflessione, a cui la sorte riserverà la bruciatura dei piedi durante la notte fredda e buia. Così come il mutamento in asino di Pinocchio, nel Paese dei Balocchi, somiglia all’analoga trasformazione di Lucio, nella “Metamorfosi” o “Asino d’Oro” di Apuleio, scrittore latino iniziato ai culti misterici come il personaggio della sua opera che ritorna uomo grazie all’aiuto della dea Iside, in una vicenda allegorica che rappresenta la caduta e la redenzione dell’uomo.
Un altro tentativo di interpretazione potrebbe essere l’individuazione di Pinocchio quale attore di un cammino iniziatico: dal 1° viaggio del Gabinetto di Riflessione della cucina della casa del falegname, ai clamori di spade rappresentanti le passioni c le difficoltà della vita; durante le peripezie di Pinocchio nel 2° viaggio, quando rischia di essere cucinato allo spiedo dal burattinaio; quando incontra gli assassini ed è derubato dal Gatto e dalla Volpe e quindi rinchiuso in galera; quando rimane nella tagliola del contadino ed è costretto a rimpiazzare Melampo; quando corre il rischi di finire fritto nella padella del pescatore. Secondo viaggio che termina col ritorno a casa e con la promessa se stesso ed alla Fatina di un sincero ravvedimento e di un riscatto con il profitto nella scuola. Il 3°viaggio di Pinocchio potrebbe essere quello intrapreso con Lucignolo per andare nel Paese dei Balocchi. Ritrovato poi Geppetto nella pancia del Pesce-cane e definitivamente rimessosi sul cammino della virtù, girando la macina ed intrecciando canestri per sostentare il povero padre (4° viaggio), il burattino-bambino trova l’equilibrio, lontano dai clamori della strada, e compie la definitiva palingenesi diventando un essere umano in carne ed ossa, o se vogliamo, un Fratello dell’Arte muratoria.
Nel compimento del faticoso percorso, Pinocchio dimostra di possedere quell’arduo metodo esoterico della ricerca libera, intimistica. Egli ha voluto sbagliare con la sua testa, piuttosto che accettare i consigli prefabbricati del Grillo parlante, aspirante muratore, è soggetto di desiderio e di curiosità non disposto a sacrificare la sua ansia di conoscenza all’accettazione acritica di consigli che rassomigliano a precetti di religione rivelata o a disvelamenti di ierofante (supremo sacerdote addetto a mostrare oggetti o formule sacre) . La perseveranza dimostrata lo porterà al premio finale, dopo aver calcato quel pavimento a quadri bianchi e neri che è la vita nella sua eterna contraddizione tra il Bene e il Male. Male e Bene, inoltre, che si camuffano a prima vista, invertendo addirittura i loro ruoli per meglio ingannare colui che si ferma alle apparenze.
Mi piace lumeggiare, in conclusione, proprio l’antinomia più evidente del racconto Collodiano:
quella che sorge dalla comparazione tra le figure del truculento Mangiafuoco e dell’Omino tenero come una palla di burro” che guida la carrozza verso il Paese dei Balocchi. Ma nonostante le apparenze. quanta umanità si rivelerà, infine, nel primo e quanta efferatezza nel secondo! Appropriate a descrivere l’effimera apparenza tornano allora giuste le parole messe in bocca a Mangiafuoco dal regista Luigi Comencini nel Pinocchio televisivo di qualche anno fa, quando il burattinaio commosso al pensiero delle sofferenze di Geppetto, regala cinque zecchini d’oro alla marionetta, dicendogli: “Pinocchio, diffida sempre di chi ti sembra troppo buono e ricordati che anche in chi sembra cattivo c’è sempre qualcosa di buono”. Ecco … Mangiafuoco, che al volgo pare cattivo e tenebroso, ma poi si rivela pieno di umanità … perché non identificarlo nel Libero Muratore? E l’Omino “palla di burro” che parla con voce suadente, sottile e carezzevole … non assomiglia, costui, ad uno di quei monopolisti della bontà che si spacciano come unici intermediari dell’accesso alla verità, per meglio attirare nella loro trappola teologica un’umanità impaurita?