DAVANTI A SAN GUIDO- CARDUCCI

DAVANTI A SAN GUIDO

  1. I cipressi che a Bólgheri alti e schietti
  2. van da San Guido in duplice filar,
  3. quasi in corsa giganti giovinetti
  4. mi balzarono incontro e mi guardar.

I cipressi sono in duplice filar, come le due file delle Colonne del Tempio. L’orientamento da San Guido (sulla vecchia Aurelia) a Bolgheri è Ovest – Est, quindi le due file di cipressi indicano le due Colonne del Settentrione e del Meridione.

  1. Mi riconobbero, e— Ben torni omai —
  2. Bisbigliaron vèr’ me co ‘l capo chino —
  3. Perché non scendi ? Perché non ristai ?
  4. fresca è la sera e a te noto il cammino.

v. 5. Mi riconobbero. E come avrebbero potuto dimenticarsi di lui, che molti o pochi non avevano voluto rientrasse nel Grande Oriente? Oppure, più significativamente, riconoscono il fratello che si era incamminato su altre strade e che per un attimo incrocia il proprio cammino (per caso? per desiderio?) con loro.

v. 8. Conosci bene il cammino. E non intendiamo solo la strada per il ritorno tra le Colonne (appartenenza amministrativa che può essere utile ma non fondamentale), bensì il cammino (questo sì fondamentale) della vita.

  1. Oh sièditi a le nostre ombre odorate
  2. ove soffia dal mare il maestrale:
  3. ira non ti serbiam de le sassate
  4. tue d’una volta: oh non facean già male!

vv. 10, ecc, 41. Maestrale, mare, vento, risse nel petto, quercia. Sono immagini che richiamano i quattro elementi (aria, acqua, terra e fuoco). Ritengo però improbabile che sia un simbolismo deliberatamente inserito. Carducci mi sembra lontano da certe tematiche. Vero è, però, che i quattro elementi erano richiamati nel rituale scozzese di iniziazione al primo grado (e Carducci era scozzese) e non si può escludere una loro “assimilazione”. E’ comunque probabile che lo schema dei quattro elementi derivi da un archetipo fondamentale che la sensibilità del poeta riesce a captare indipendentemente dalla massoneria.

v. 11. Il poeta immagina che i rancori del passato siano stati dimenticati e superati.

  1. Nidi portiamo ancor di rusignoli:
  2. deh perché fuggi rapido cosí ?
  3. Le passere la sera intreccian voli
  4. a noi d’intorno ancora. Oh resta qui! —

I versi descrivono una armonia della vita nella quale il Fratello separato potrebbe inserirsi.

  1. — Bei cipressetti, cipressetti miei,
  2. fedeli amici d’un tempo migliore,
  3. oh di che cuor con voi mi resterei —
  4. Guardando lor rispondeva — oh di che cuore !

Qui terminano i versi scritti nel 1874. I versi seguenti vengono ripresi nel 1886, all’epoca della sua affiliazione alla Loggia Propaganda 2. Ci domandiamo: scrivendoli, Carducci pensò ai ai Fratelli Massoni? Non ho la risposta; ma gli indizi sono tanti. Accontentiamoci della domanda senza risposta e cogliamo il fascino dell’indefinito e del non risposto.

v. 18. Fedeli amici. Sono i Fratelli Cipressi?

  1. Ma, cipressetti miei, lasciatem’ire:
  2. or non è piú quel tempo e quell’età.
  3. Se voi sapeste!… via, non fo per dire,
  4. ma oggi sono una celebrità.

vv. 21-28. Sembra quasi ricalcare la risposta alla Tegolatura. Io sono un uomo arrivato (una celebrità); sono scrittore; ho molte virtù; non sono più un birichino (contestualizzando, il termine oggi si è caricato di un significato affettuoso ed è rivolto ai bimbi un po’ troppo vivaci, mentre un tempo prevaleva il senso negativo. Lo si riteneva o da buricco = saltimbanco o, preferibile, da bric = briccone), non tiro sassi alle piante (ai Fratelli).

  1. E so legger di greco e di latino,
  2. e scrivo e scrivo, e ho molte altre virtú:
  3. non son piú, cipressetti, un birichino,
  4. e sassi in specie non ne tiro piú.
  1. E massime a le piante. — Un mormorio
  2. pe’ dubitanti vertici ondeggiò
  3. e il dí cadente con un ghigno pio
  4. tra i verdi cupi roseo brillò.

La professione del poeta non appare creduta o credibile (dubitanti, ghigno), ma sembra prevalere il sentimento di affetto (ghigno pio, gentil pietade del v. 34)) piuttosto che quello di giustizia del rifiuto. Insomma: i Fratelli massoni non sembrano dar credito alla confessione carducciana, tanto che il Nostro riuscì a rientrare nel GOI solo per intercessione del Gran Maestro.

  1. Intesi allora che i cipressi e il sole
  2. una gentil pietade avean di me,
  3. e presto il mormorio si fe’ parole:
  4. — Ben lo sappiamo: un pover uom tu se’.

vv. 36 sgg. La risposta viene da “chi sa”. Il poeta ha enunciato vantaggi solo materiali o al massimo morali. Nel “vero mondo” un pover uom tu se’. Sei in basso, nella (per usare un termine muratorio) profanità. I Fratelli Cipressi sono molto chiari e contrappongono il “vero mondo” alle illusioni del mondo dei rei fantasmi (v. 48).

  1. Ben lo sappiamo, e il vento ce lo disse
  2. che rapisce de gli uomini i sospir,
  3. come dentro al tuo petto eterne risse
  4. ardon che tu né sai né puoi lenir.

Il mondo dei cipressi ti dirà come superare le eterne risse. Tu puoi contare su questo mondo, saldo e stabile come una quercia, armonico ed in sintonia con il tutto.

  1. A le querce ed a noi qui puoi contare
  2. l’umana tua tristezza e il vostro duol.
  3. Vedi come pacato e azzurro è il mare,
  4. come ridente a lui discende il sol!

Qui, nel “nostro mondo” potrai abbandonare l’umana tristezza e il vostro duol. Qui potrai cogliere l’armonia del mare e del tramonto.

  1. E come questo occaso è pien di voli,
  2. com’è allegro de’ passeri il garrire!
  3. A notte canteranno i rusignoli:
  4. rimanti, e i rei fantasmi oh non seguire;

Qui puoi ascoltare i rosignoli: impara ad ascoltarli!

  1. i rei fantasmi che da’ fondi neri
  2. de i cuor vostri battuti dal pensier
  3. guizzan come da i vostri cimiteri
  4. putride fiamme innanzi al passegger.
  1. Rimanti; e noi, dimani, a mezzo il giorno,
  2. che de le grandi querce a l’ombra stan
  3. ammusando i cavalli e intorno intorno
  4. tutto è silenzio ne l’ardente pian,

v. 53. Mezzo il giorno. Fr. 2° Sorvegliante, che ora è? Mezzogiorno in punto.

v. 56. Lo spazio sacro dei lavori è stato circoscritto e riorganizzato. Il mondo profano non vi può più accedere: per gli operai del Tempio tutto è silenzio nel mondo profano, che è stato “chiuso fuori” dal Tempio. Il sacro nasce dal silenzio interiore.

  1. ti canteremo noi cipressi i cori
  2. che vanno eterni fra la terra e il cielo:
  3. da quegli olmi le ninfe usciran fuori
  4. te ventilando co ‘l lor bianco velo;

vv. 57-58. Il canto tra la terra e il cielo è il lavoro alla Gloria del Grande Architetto. Il lavoro muratorio è corale, di gruppo.

  1. e Pan l’eterno che su l’erme alture
  2. a quell’ora e ne i pian solingo va
  3. il dissidio, o mortal, de le tue cure
  4. ne la diva armonia sommergerà. —

v. 63. Il dissidio degli affanni umani verrà risolto nell’armonia del lavoro di Loggia, coerente con l’armonia della natura.

  1. Ed io—Lontano, oltre Appennin, m’aspetta
  2. la Tittí — rispondea; — lasciatem’ire.
  3. È la Tittí come una passeretta,
  4. ma non ha penne per il suo vestire.

v. 65. Il poeta pare respingere la proposta dei cipressi. La sua materialità si oppone e fa resistenza, e richiama affetti e passioni del mondo profano (attenzione! non sono passioni basse, da respingere, ma sentimenti ed affetti da trasformare. Non sono negatività).

  1. E mangia altro che bacche di cipresso;
  2. né io sono per anche un manzoniano
  3. che tiri quattro paghe per il lesso.
  4. Addio, cipressi! addio, dolce mio piano! —

v. 72. Il poeta rifiuta l’invito e i Fratelli Cipressi gli porgono l’immagine della Sapienza che scende dall’Oriente.

  1. — Che vuoi che diciam dunque al cimitero
  2. dove la nonna tua sepolta sta? —
  3. E fuggíano, e pareano un corteo nero
  4. che brontolando in fretta in fretta va.
  1. Di cima al poggio allor, dal cimitero,
  2. giú de’ cipressi per la verde via,
  3. alta, solenne, vestita di nero
  4. parvemi riveder nonna Lucia:

Nonna Lucia (per ora; poi: signora) appare di cima al poggio, cioè in alto, con l’immediata idea dello scendere.

  1. la signora Lucia, da la cui bocca,
  2. tra l’ondeggiar de i candidi capelli,
  3. la favella toscana, ch’è sí sciocca
  4. nel manzonismo de gli stenterelli,

Nonna Lucia ora diventa la signora Lucia, assumendo una chiara veste simbolica. Per comprendere bene esaminiamo la costruzione del periodo, croce degli studenti obbligati alla spiegazione letterale. Il periodo va correttamente inteso così: la signora Lucia, dalla bocca della quale (tra l’ondeggiare dei bianchi capelli) la favella toscana (così sciocca nel manzonismo degli stenterelli) discendeva canora. Ma nella lettura poetica non è peregrino che il canora discendea venga attribuito alla signora Lucia (e non alla favella toscana), cioè: la signora Lucia (ecc. ecc.) canora discendea eccetera. E’ sbagliato? Certo, ma è errore spontaneo. E soprattutto fa discendere di cima al poggio direttamente la signora Lucia, che assume così nel simbolismo muratorio la funzione della sapienza del Maestro Venerabile.

Osserviamo inoltre che Lucia deriva etimologicamente da Lux, la luce, etimo sostanziale del simbolismo muratorio.

  1. canora discendea, co ‘l mesto accento
  2. de la Versilia che nel cuor mi sta,
  3. come da un sirventese del trecento,
  4. piena di forza e di soavità.

v. 88. Forza e soavità sono due archetipi muratori, la Forza e la Bellezza, che unitamente alla Sapienza informano i lavori di Loggia.

  1. O nonna, o nonna! deh com’era bella
  2. quand’ero bimbo! ditemela ancor,
  3. ditela a quest’uom savio la novella
  4. di lei che cerca il suo perduto amor!

v. 91. Il poeta ribadisce il senso dei tre pilastri. La signora Lucia (Forza e Bellezza) parla all’uom savio (la Sapienza). Ma qui savio può avere anche una sfumatura negativa: conosceva il percorso del viaggio, ma non ha accettato il cammino nel Tempio.

  1. — Sette paia di scarpe ho consumate
  2. di tutto ferro per te ritrovare:
  3. sette verghe di ferro ho logorate
  4. per appoggiarmi nel fatale andare:

vv. 93 sgg. E’ una versione della fiaba del Re Porco. Per sfuggire ad un incantesimo la ragazza dovrà per sette anni consumare sette paia di scarpe di ferro e sette verghe sempre di ferro; dovrà anche riempire di lacrime sette fiasche e svegliare il suo amato prima del canto del gallo.

Qui però sembra quasi lo svolgimento di un rituale particolare e non possiamo non rilevare che il sette è il numero del Maestro. Potrebbe essere riferito alla situazione personale del Poeta, che da tempo (sette lunghi anni?) ha chiesto di rientrare, il gallo ormai canta, ma non ha ancora ricevuto la sospirata risposta?

  1. sette fiasche di lacrime ho colmate,
  2. sette lunghi anni, di lacrime amare:
  3. tu dormi a le mie grida disperate,
  4. e il gallo canta, e non ti vuoi svegliare.

v. 100. Il gallo compare nel Gabinetto di Riflessione. Incita il recipiendario nel suo itinere. Ma se il gallo canta e non ti vuoi svegliare? Beh, il fallimento è vicino.

  1. — Deh come bella, o nonna, e come vera
  2. è la novella ancor! Proprio così.
  3. E quello che cercai mattina e sera
  4. tanti e tanti anni in vano, è forse qui,

Ecco, l’intuizione giunge improvvisamente: qui prosegue il cammino. Il viaggiatore giunge alla consapevolezza del percorso, che continua sotto questi cipressi (v. 105), tra i Fratelli.

  1. sotto questi cipressi, ove non spero,
  2. ove non penso di posarmi piú:
  3. forse, nonna, è nel vostro cimitero
  4. tra quegli altri cipressi ermo là su.
  1. Ansimando fuggía la vaporiera
  2. mentr’io cosí piangeva entro il mio cuore;
  3. e di polledri una leggiadra schiera
  4. annitrendo correa lieta al rumore.

Terminano le sensazioni e i ricordi: ritorniamo al quotidiano. La vaporiera continua il suo viaggio, insensibile ai drammi di chi trasporta. Il Poeta non scende (e come potrebbe? Non è ancora stato accettato dai Fratelli). Il mondo quotidiano continua a vivere nell’indifferenza. C’è una indifferenza “giovanile”(la mandria di puledri, lieti ed esuberanti) che potrebbe nella maturità trasformarsi in altro; e c’è una indifferenza per così dire “esistenziale” indicata dall’asin bigio che continua apatico e impassibile il suo triste pasto (ma non è nemmeno un pasto, quanto un rodere, un mesto rosicchiare che non appaga nemmeno lo stomaco), chiuso in ciò che crede saggezza e che invece è anchilosi della mente e del corpo.

  1. Ma un asin bigio, rosicchiando un cardo
  2. rosso e turchino, non si scomodò:
  3. tutto quel chiasso ei non degnò d’un guardo
  4. e a brucar serio e lento seguitò.

Pubblicato da Massone Malpensante a 09:31

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Etichette: bellezza, Carducci, forza, Goi, sapienza

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