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“L’ultimo viaggio di Ulisse”
Questa bella tavola dell’Oratore ci consente di analizzare la figura dell’Ulisse omerico in contrapposizione al massone “uomo iniziato”.
In fin dei conti Ulisse è la metafora dell’uomo alla ricerca del proprio
io, nell’anelito di voler sapere da dove viene, dove sta andando e infine chi
è, ma ancor più e soprattutto, perché.
E quindi non solo quale sarà il suo destino, ma anche quale è stata la sua
origine: e la sua peregrinazione termina là dove è iniziata, dall’isola natia,
poiché questa, anzi proprio questa, è la meta a cui giungere.
E’ un cammino simbolico alla ricerca del concetto recondito di questa avventura
terrena, quasi significante una soluzione ripetitiva, come ha espresso in
maniera magistrale T. S. Eliot nel più famoso dei suoi Quartetti:
“Noi non cesseremo mai di ricercare;
e la fine di tutte le nostre ricerche
sarà di arrivare al punto di partenza
e di scoprire quel luogo per la prima volta”.
Qualcuno ha detto che in Ulisse sembra di percepire il bisogno di sublimarsi
nell’immortalità, quando a me, invece, sembra di essere di fronte ad un uomo
con uno struggente desiderio di tornare a casa, nonostante l’offerta di
Calipso; desiderio di rivedere e riabbracciare la moglie e il figlio, invece dell’eterna
giovinezza e di una noiosa immortalità senza vecchiaia. Non ne vuol sapere di
stare in paradiso: preferisce la terra.
E questo può essere collegato con la necessità di conoscere, di sognare, di
capire, tipico dell’uomo che non si acquieta nella banalità quotidiana, ma che
tende sempre ad una maggiore consapevolezza: infatti che motivo di esistere
avrebbero questi desideri in una vita eterna senza domande, dal momento che non
avrebbero senso le risposte!
E così Dante ne fa l’uomo di speranza, per quanto velleitaria, di scoprire;
colui, cioè, che si distingue dal bruto perché ha sete di conoscenza, di
comprensione, bisogno di una risposta a questo mistero cosmico che ci
trascende.
E’ stato anche detto che Ulisse infine è, paradossalmente al prototipo
dell’eroe, il contrario del superuomo nietzschiano. Egli è semplicemente un
uomo e basta; un uomo che sente prepotente il bisogno delle emozioni che
mancano ovviamente nell’isola Ogigia, dalla bella Calipso: un giorno uguale
all’altro, un anno identico al precedente, con la certezza che il successivo lo
sarà altrettanto.
Invece Ulisse desidera l’emozione di rivedere Euriclea, il pastore Eumeo, il
fido Argo, il figlio Telemaco e anela al rinnovato amore per la sua sposa, per
la sua altra metà del cielo.
E nel suo desiderio di conoscenza Ulisse preferisce stare sul limite, non farsi
mai coinvolgere e trasportare dalla semplice curiosità, ma dal profondo
desiderio di capire.
Illuminante è l’episodio delle Sirene: è un eroe che percorre un sottile filo
di confine, nel senso che vuole ascoltare le voci ammaliatrici, ma senza
correre il rischio di farsi trasportare oltre, perché sa che, se lo facesse,
morirebbe e quindi non potrebbe averne la consapevolezza. Ma se si mettesse la
cera nelle orecchie, non potrebbe avere questa conoscenza.
Allora si fa legare e quindi non oltrepasserà il confine e capirà: “Fatti non
foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza”.
E’ vero che in questo comportamento si legge una contraddizione, come una
scissione fra una volontà che viene frenata e la consapevolezza di ciò che è
bene e di ciò che è male. Ma quello di Ulisse è un viaggio di conquista della
sua umanità: si potrebbe dire che c’è una valenza di similitudine tra l’Ulisse
immortale presso Calipso come, del resto, l’Ulisse che si umanizza nel suo
ritorno a casa, e Pinocchio che, immortale e incorruttibile pezzo di legno,
privo di sentimenti e di emozioni, conquista la sua umanità attraverso le
passioni di una vita votata alla caducità.
Quindi un viaggio di purificazione attraverso una ascensione che eleva l’essere
umano dagli stati inferiori viscerali, quasi animaleschi, al livello superiore
della razionalità intellettuale, quale coronamento della conquista dell’anima,
scintilla divina di Colui che lo ha creato.
G. T.