Primo Premio
Narrativa
Emanuele Giuliano
Liceo Classico “ Carducci Ricasoli”
Grosseto
MOTIVAZIONE
Utilizzando la metodologia di scrittura dell’articolo di giornale, inserito in una rivista settimanale, il problema dell’integrazione è esaminato, in modo razionale e accurato, tramite un’analisi storica dei modelli sociali e delle radici che hanno caratterizzato l’identità culturale dell’Europa e del mondo Occidentale.
L’afflusso massiccio d’immigrati provenienti da aree geografiche nelle quali le vicende storiche hanno determinato abitudini e regole di vita completamente diverse, ha posto alle Nazioni coinvolte una serie di domande su come affrontare l’inserimento dei migranti nella loro struttura sociale ed economica e nella vita culturale, politica e spirituale, senza produrre lacerazioni e divisioni fra le varie sensibilità.
L’unica strada percorribile appare oggi quella di impegnarsi tutti, ospitati e ospitanti, con costanza e lucidità all’affermazione dell’integrazione, avendo piena coscienza che è un’impresa difficile ma che vale sempre la pena di tentare, in quanto strumento vitale per una pacifica convivenza.
Quando gli uomini cesseranno di considerare, come appassionatamente scriveva Primo Levi, “ ogni straniero un nemico” e vedranno nel diverso un’occasione di crescita interiore, quando gli immigrati impareranno ad amare la terra che li accoglie come la loro patria, potremo realmente abbattere tutte le barriere che ci dividono e riconoscere gli altri come nostri pari, rendendo finalmente concreta un’utopia chiamata integrazione.
SVOLGIMENTO
Integrazione è…incontrarsi a metà strada
– ARTICOLO DI GIORNALE – RIVISTA SETTIMANALE –
Ai nostri tempi e nella nostra società il tema dell’integrazione si impone sempre più urgentemente ed esce dall’esclusivo interesse dei governi, divenendo un argomento su cui l’intera opinione pubblica si interroga dando vita a dibattiti, anche accesi, che non si limitano, tuttavia, ad essere semplici speculazioni: infatti, questo è un tema che investe tradizioni, abitudini e mentalità della gente. Erano secoli che l’Europa non era interessata da flussi migratori su così larga scala, flussi, inoltre, provenienti da aree geografiche con culture così diverse dalla nostra. Il nostro modo di vivere, quindi, si è col tempo abituato a far fronte ad un mondo composto da individui che, pur avendo diverse idee, provenivano da una medesima cultura. Le radici dell’identità culturale europea sono essenzialmente due, l’Antichità greco-romana e il Cristianesimo.
Anche correnti di pensiero e tradizioni con queste in contrasto si sono originate a partire da esse. E comunque, nel Novecento, si può dire che la società Occidentale avesse trovato una sua identità in una società laica, con un vastissimo patrimonio culturale e storico, aperta al cambiamento e al confronto. Che poi questo modello si fosse effettivamente realizzato o fosse solo un ideale, ciò a cui aspirava, non era rilevante: questa era l’immagine che l’Occidente vedeva di sé, la “religione” alla quale credeva di aver convertito l’intero mondo.
Tuttavia con la nascita, dopo la seconda guerra mondiale, di un’infinita corrente migratoria che vi portava immigrati dalle regioni più povere del mondo, questa illusione cadde. Non subito, certo, poiché i cambiamenti nella storia sono raramente improvvisi. All’inizio gli immigrati erano pochi, quasi invisibili, e si decise di non affrontare la questione, di rimandare il confronto. Non saprei dire quanto questa decisione fosse consapevole, o se piuttosto non si avvertisse davvero la necessità di trovare la soluzione ad un problema che si prospettava nel prossimo futuro, ma, di fatto, non si parlò di integrazione. In anni più recenti il fenomeno dell’immigrazione dai Paesi del Sud del Mondo crebbe di dimensioni e si allargò anche ad altre Nazioni ricche, compresa la nostra. E, solo allora, quando i primi danni erano ormai fatti, ci si mise in cerca di una soluzione.
Molte erano le domande che si ponevano, e si pongono, all’opinione pubblica, all’élite culturale e alla classe politica. Cosa fare? Respingere fisicamente gli immigrati, vecchi e nuovi, in un mondo che diventa sempre più interdipendente? Creare due società che, pur vivendo negli stessi luoghi fossero di fatto separate, cioè una sorta di apartheid fondato sul leitmotiv dell’autoctonia? Assimilare completamente i nuovi venuti alla cultura del Paese ospite? Oppure integrarli, concetto questo assai diverso da quello di assimilare? Ma allora come definire la parola integrazione?
Le idee che più facilmente si fanno strada fra la gente sono quelle del rifiuto e della chiusura. E il motivo è la paura. Perché è la prima volta, da secoli, che l’Occidente trova i suoi valori (o la sua, secondo alcuni, mancanza di valori, ma comunque un proprio modo di vivere scelto spontaneamente) minacciati così a fondo da forze ad esso estranee. L’Illuminismo aveva un bel minacciare di far crollare il Cristianesimo e il Comunismo di distruggere il Capitalismo; erano pur sempre sviluppi di una medesima cultura, rami, per quanto lontani, di uno stesso albero. Ma, in fondo, per mantenere la metafora, non potrebbe essere un fattore positivo introdurre su questo albero un nuovo innesto proveniente da terre lontane? Non sono forse fatti, gli innesti, per migliorare entrambe le specie che si incrociano?
Tuttavia, una parte dell’opinione pubblica si ritiene troppo lontana dalle culture altrui e le giudica, per la maggior parte, barbare (Barbarie: una delle categorie di pensiero più limitanti che la Grecia Antica ci ha lasciato!).
E costoro finiscono per appoggiare movimenti estremisti che demagogicamente si fanno interpreti di questi fantasmi, spingendo per un impossibile quanto sciocco ritorno al passato e attaccandosi a valori e tradizioni che essi stessi avevano prima contribuito a seppellire. Ma questo “conservatorismo culturale”, come lo definisce Amartya Sen, economista indiano, certamente una voce autorevole in quanto Premio Nobel (1998) e professore presso la Harvard University, spinge le comunità che si sentono emarginate ad altrettanta volontà di chiusura e attaccamento ai valori patrii.
Ed è ciò che sta succedendo con gli immigrati di fede araba, “in bilico fra due mondi” (Magdi Allam: personalità sulla quale, invece, spesso si accendono polemiche anche forti), fra la ricchezza dell’Occidente e l’identità islamica alla quale, sentendosi minacciati e respinti, non vogliono rinunciare spingendosi fino a posizioni estreme che, forse, se avessero avuto la possibilità di integrarsi non avrebbero appoggiato.
Dalla parte opposta, una parte altrettanto consistente della gente, ispirandosi a valori universalistici e cosmopoliti (o, è bene sottolineare, presunti tali), proclama la volontà di creare un’unica società in cui tutte le differenze culturali coesistano fino ad annullarsi; tuttavia, per un eccesso di quella che si potrebbe chiamare in una parola sola “filantropia” (sebbene sia necessaria una certa forzatura semantica), e cioè una specie di complesso di colpa del Ricco oppressore nei confronti del Povero oppresso, in alcune punte estreme di questa posizione è spesso sottintesa la resa totale della società ospitante, che rinuncia ai propri valori per rispetto degli ospitati.
Ma questa non può essere assolutamente considerata una valida soluzione, poiché finisce per diventare un’ assimilazione al contrario e spinge il popolo ospitante a sentirsi prigioniero nella propria patria, a non essere più libero di esprimere le proprie tradizioni. Anche questo è ben visibile, ad esempio, nel comportamento di alcune insegnanti che a Natale scelgono di non eseguire canti religiosi o di non fare il Presepe, o ancora, recentemente nella sospensione in Germania di una rappresentazione di un’opera di Mozart in cui si mostrava la testa mozzata di Maometto.
Decisioni prese, in alcuni casi, addirittura prima che le comunità musulmane d’Europa avessero il tempo di esporre le loro riserve. Voglio precisare che se, facendo degli esempi, mi riferisco spesso alle comunità islamiche è per il fatto che in confronto alla nostra cultura esse sono più distanti di quelle, fra le altre, dell‘Europa Orientale o del Sud America, con le quali le differenze sono, si può dire, quasi nulle. Se quindi i riferimenti sono particolari, il senso non lo è affatto. Infatti, quello che va cercato è comunque un modello generale e duraturo.
E l’unico modello possibile per risolvere una situazione di tensione come quella attuale è, io credo, quello della completa integrazione. Tuttavia questa è solo una parola, e come tale si presta a molte e spesso ambigue interpretazioni. Vorrei quindi cercare di definirla meglio. Innanzitutto distinguendola da due concetti che potrebbero sembrare affini: assimilazione e tolleranza. “Il concetto di integrazione si oppone alla nozione di assimilazione” (A. Perotti — 2002) in quanto l’assimilazione prevede che della cultura dell’immigrato non rimanga più nulla, che egli sia costretto, per così dire, ad “abiurarla” adottando completamente quella del Paese in cui si trova, un Paese che, a dire la verità, così facendo accoglie soltanto la sua capacità lavorativa e non le sue idee, il suo pensiero.
L’assimilazione compie quindi un duplice “crimine”, lasciando immutata la società ospitante, che così perde l’occasione di cambiare e di rinnovarsi, e soffocando l’identità del nuovo cittadino.
La tolleranza, invece, è una forma di discriminazione, che si può persino definire subdola perché si maschera dietro ad un finto rispetto per l’altro e che, in realtà, opera una netta separazione fra colui che ospita e che si rifiuta di aprirsi a nuovi valori e colui che è ospitato, al quale è sì lasciata la propria cultura ma al quale, allo stesso tempo, è impedito di essere accettato proprio perché la mantiene. La tolleranza fa dunque dell’immigrato un corpo estraneo che c’è ma che si vorrebbe non ci fosse.
A costui è imposta la diversità e contemporaneamente il dover essere grati dell’essere costretti a mantenerla.
Non saprei davvero quale di queste due cose sia preferibile, se l’assimilazione o la tolleranza. L’integrazione, ad ogni modo, è qualcosa di completamente diverso. E’ un’impresa difficile, ma che vale sempre la pena di tentare. E’ qualcosa che si realizza non soltanto attraverso i provvedimenti e le leggi dei governi ma anche nella quotidianità attraverso le azioni dei singoli cittadini e degli immigrati che vogliono diventarlo. E, ad ogni modo, ci vogliono delle premesse affinché questo processo abbia luogo: le due parti, infatti, devono porsi in una condizione di parità ed essere entrambe motivate.
Ognuna delle due (o più) culture che si incontrano hanno dei valori fondamentali e irrinunciabili che sono molto diversi, ma hanno anche dei punti in comune. E proprio dalla valorizzazione di questi bisogna cominciare. Per poi giungere a creare, sulla base delle diverse esperienze e opinioni, un modello comune per una nuova società; sempre nel rispetto delle libertà di ogni singolo individuo che deve poter mantenere i propri costumi e le proprie abitudini, quando non siano di danno per il resto della collettività. A livello quotidiano, poi, bisogna instaurare nuovi legami sociali imparando ogni giorno a conoscere e accettare la pluralità e, inoltre, inserire a pieno titolo e in condizioni di assoluta parità “i nuovi residenti (…) nella vita economica, sociale, civica, culturale e spirituale del paese d’immigrazione” (A. Perotti — 2002).
Tuttavia mi sembra necessario tenere sempre presente che bisogna mantenere una distinzione fra la comunità ospitante e quella ospitata. L’immigrato che vuole integrarsi deve saperlo fare senza sconvolgere gli equilibri della Nazione che lo ospita. Deve essere animato dalla volontà di conoscerla e di farne parte condividendone la storia passata e il destino futuro, deve trasformarla nella sua nuova patria, come ha sostenuto recentemente l’autorevole sociologo piacentino Francesco Alberoni dalle pagine del “Corriere della Sera”.
Per concludere, è sì giunta l’ora di abbattere tutte le barriere sociali, economiche, culturali e anche, a volte, materiali che dividono noi Italiani (e Occidentali in genere) dagli stranieri immigrati e riconoscerli nostri pari, renderli “Fratelli d’Italia”, ma spiegando loro anche le profonde implicazioni di questo passo.
Affidare anche a loro il compito di difendere l’Italia, Patria di entrambi, di tramandarne la cultura, la storia, le tradizioni; esortarli ad impegnarsi a fondo a renderla grande poiché ne fanno parte; far sì che ne comprendano e conoscano i valori e che siano animati dal desiderio di difenderli e diffonderli. Cosicché accanto ai doveri avranno anche i diritti dell’essere italiani.
Potranno professare la loro religione e continuare le loro tradizioni e i loro usi, poiché vivranno in uno Stato dove al cittadino è lasciata la più piena libertà nella sfera privata (la cosiddetta “libertà dei moderni” di Benjamin Constant), consentendo a loro volta agli altri di mantenere i propri; esprimere la loro opinione apertamente e nello stesso tempo ascoltare quelle altrui senza censurarle; partecipare alla vita non solo economica e sociale ma anche politica e culturale, in modo da contribuire a renderla vitale con nuove esperienze e proposte costruttive.
Quindi dico a coloro che sono pronti a intraprendere questo cammino e accettare queste condizioni (neanche, a mio parere, troppo gravose): benvenuti!