LA METAMORFOSI DI UN LIBERO MURATORE
In occasione del passaggio al Grado di Maestro Libero Muratore di L. S. e A. c.
S. C.
“…Io ( Logos) dimoro in ogni movimento che esiste nella materia tutta”
(Vangelo di Giovanni)
Maestro Venerabile, carissimi Fratelli, Neo Maestri L. S. e A. C.
La Libera Muratoria fonda la sua tradizione su due idee fondamentali: su quella del Grande Architetto dell’Universo (G. A. D. U) e su quella del Mito di Hiram.
Il G. A. D. U. è il simbolo per eccellenza della Libera Muratoria, ed esprime un concetto simbolico di “Entità Divina”; in sua grazia e in sua gloria si svolgono i Lavori Libero-Muratori.
Il Mito di Hiram-Abif è ritualmente ripetuto a ogni elevazione al terzo Grado di Maestro Muratore, ed “affratella” con un legame indissolubile tutti i Maestri Liberi Muratori. Esso è definito “mito”, perchè è completamente inventato e non scaturisce da nessuna elaborazione di fatti reali; si basa su una leggenda biblica che si riferiva alla costruzione del tempio di Salomone. Il Mito di Hiram è originale e viene considerato un capolavoro. La figura di Hiram è stata prescelta probabilmente per il suo alto valore simbolico Muratorio ed Iniziatico. Come Architetto-Costruttore del Tempio di Gerusalemme, rientrava perfettamente nel simbolismo dell’Ordine e non aveva l’aria di qualcosa di avulso, inserendosi inoltre anche se con proporzioni più modeste, al filone che si rifaceva ai “Grandi Edificatori”: dalla costruzione dell’arca da parte di Noè, a quella della città di Enoch da parte di Caino, dalla torre di Babele da parte di Nemrod a quella, appunto, del Tempio di Gerusalemme. Un’analogia con il Mito di Hiram è quello egizio d’Iside e Osiride, che rappresenta uno dei più noti culti delle società segrete iniziatiche delle religioni pagane, insieme ai Misteri Eleusini e Orfici della Grecia ed al culto di Mitra dell’Impero Romano.
Nella cerimonia del terzo grado, colui che deve diventare Maestro Libero Muratore personifica, come se fosse un attore, Hiram … muore in senso simbolico per poi risorgere a nuova vita. Questa è la “Metamorfosi di un Libero Muratore”. La metamorfosi rappresenta, da un punto di vista ontogenetico e filogenetico, una trasformazione di forma e di struttura che subiscono tutti gli esseri viventi dal concepimento al termine del loro sviluppo ….essa, comunque, continua fino al momento della morte e poi ancora oltre la morte …per effetto della cessazione delle attività vitali …passando dalla distruzione autolitica, alla putrefazione, fino alla decomposizione del cadavere. Alcune metamorfosi nel mondo degli insetti sono fortemente simboliche , basta pensare a quella dei bruchi in farfalle. La simbologia della farfalla in massoneria è simbolo di immortalità , proprio per la sua continua trasformazione; ma è anche simbolo di “ Verità” … “ sempre vola qua e là, ora vicina ora lontana, ma sempre fuori portata.” Il Lavoro Muratorio deve essere visto, pertanto, come una lunga e faticosa “ricerca interiore” al fine di compiere una “trasmutazione dell’imperfetto”, cercando di mirare ad un perfezionamento delle propria condizione personale ed addirittura, utopisticamente – avendo il Libero Muratore una visione eterna del cosmo, che si manifesta e si integra con “l’azione archetica” del Grande Architetto dell’Universo – anche a quella dell’Umanità.
Il vivere è per tutti gli uomini una continua metamorfosi…una continua trasformazione sia del corpo che dell’anima, è un “lanciarsi avanti”…è un “movimento continuo”… è “dinamicità…non staticità”. L’”immobilità” rappresenta il non voler crescere…il rifiuto del tutto …rappresenta l’egoismo di chi non vuole andare avanti …l’isolamento, la solitudine, la mancata ricerca di felicità.
Noi , abbiamo la fortuna di appartenere ad un Ordine Iniziatico, che ci dà, sia gli strumenti per accrescere la nostra capacità intellettiva, prevalentemente di tipo intuitivo, – grazie agli innumerevoli simboli situati all’interno del nostro Tempio, simbolo anch’esso del Cosmo infinito…facendoci volare con la mente oltre il cielo stellato fino a raggiungere l’ “Illimitato” – sia perché ci permette, indipendentemente dalla nostra volontà, di “passare di grado”, cioè di salire gli “scalini della conoscenza”…con lentezza, dandoci il tempo di fermarsi, di guardare indietro – con una visione dall’alto – di riflettere e poi ripartire …questa è la “Lezione Massonica” …è l’acquisizione della forza di uscire da se stessi (morire), per trasformarsi in un altro (rinascere)…come quegli insetti che conoscono l’arte di crescere facendo la muta: la perfetta figura di come erano rimane intatta, ma vuota, leggera e fragile , l’ “esuvia”, mentre il nuovo corpo va avanti, memore del passato e forte per il futuro.
Mi piace concludere con una fiaba, basata su avvenimenti e personaggi fantastici ma con un forte significato formativo. Il titolo è :
“LA METAMORFOSI DI PINCTOR”
Appena giunto in paradiso Pictor si trovò dinnanzi ad un albero che era insieme uomo e donna. Pictor salutò l’albero con riverenza e chiese: “Sei tu l’albero della vita?”. Ma quando, invece dell’albero, volle rispondergli il serpente, egli si voltò e andò oltre. Era tutt’occhi, ogni cosa gli piaceva moltissimo. Sentiva chiaramente di trovarsi nella patria e alla fonte della vita.
E di nuovo vide un albero, che era insieme sole e luna. Pictor chiese “Sei tu l’albero della vita?”. Il sole annuì, la luna annuì e gli sorrise. Fiori meravigliosi lo guardavano, con una moltitudine di colori e di luminosi sorrisi, con una moltitudine di occhi e di visi. Alcuni annuivano e ridevano, altri annuivano e sorridevano: ebbri tacevano, in se stessi si perdevano, nel loro profumo si fondevano. Un fiore cantò la canzone del lillà, un fiore cantò la profonda ninna-nanna azzurra. Uno dei fiori aveva grandi occhi blu, un altro gli ricordava il primo amore. Uno aveva il profumo del giardino dell’infanzia, il suo dolce profumo risuonava come la voce della mamma. Un altro, ridendo, allungò verso di lui la sua rossa lingua curva. Egli vi leccò, aveva un sapore forte e selvaggio, come di resina e di miele, ma anche come di un bacio di una donna.
Tra tutti questi fiori stava Pictor, pieno di struggimento e di gioia inquieta. Il suo cuore, quasi fosse una campana, batteva forte, batteva tanto; il suo desiderio ardeva verso l’ignoto,verso il magicamente prefigurato.
Pictor scorse un uccello sull’erba posato e di luminosi colori ammantato, di tutti i colori il bell’uccello sembra dotato. Al bell’uccello variopinto egli chiese “Uccello, dove è dunque la felicità?”. “La felicità?” disse il bell’uccello e rise con il suo becco dorato, “la felicita, amico, è ovunque, sui monti e nelle valli, nei fiori e nei cristalli”.
Con queste parole l’uccello spensierato scosse le sue piume, allungò il collo, agitò la coda, socchiuse gli occhi, rise un’ultima volta e poi rimase seduto immobile, seduto fermo nell’erba, ed ecco: l’uccello era diventato un fiore variopinto, le piume si era erano trasformate in foglie, le unghie in radici. Nella gloria dei colori, nella danza e negli splendori, l’uccello si era fatto pianta. Pictor vide questo con meraviglia.
E subito il fiore-uccello cominciò a muovere le sue foglie e i suoi pistilli, già era stanco del suo essere fiore, già non aveva più radici, scuotendosi un po’ si innalzò lentamente e fu una splendente farfalla, che si cullò nell’aria, senza peso, tutta di luce soffusa, splendente nel viso. Pictor spalancò gli occhi dalla meraviglia.
Ma la nuova farfalla, l’allegra variopinta farfalla-fiore-uccello, il luminoso volto colorato volò intorno a Pictor stupefatto, luccicò al sole, scese a terra lieve come un fiocco di neve, si sedette vicino ai piedi di Pictor, respirò dolcemente, tremò un poco con le ali splendenti, ed ecco, si trasformò in un cristallo colorato, da cui si irraggiava una luce rossa. Stupendamente brillava tra erba e piante, come rintocco di campana festante, la rossa pietra preziosa. Ma la sua patria, la profondità della terra, sembrava chiamarla; subito incominciò a rimpicciolirsi e minacciò di scomparire. Allora Pictor, spinto da un anelito incontenibile, si protese verso la pietra che stava svanendo e la tirò a sé. Estasiato, immerse lo sguardo nella sua luce magica, che sembrava irraggiargli nel cuore il presentimento di una piena beatitudine.
All’improvviso, strisciando sul ramo di un albero disseccato, il serpente gli sibilò nell’orecchio: “La pietra si trasforma in quello che vuoi. Presto, dille il tuo desiderio, prima che sia troppo tardi!”.
Pictor si spaventò e temette di vedere svanire la sua fortuna. Rapido disse la parola e si trasformò in un albero. Giacché più di una volta aveva desiderato essere un albero, perché gli alberi gli apparivano così pieni di pace, di forza e di dignità.
Pictor divenne albero. Penetrò con le radici nella terra, si allungò verso l’alto, foglie e rami germogliarono dalle sue membra. Era molto contento. Con fibre assetate succhiò nelle fresche profondità della terra e con le foglie sventolò alto nell’azzurro. Insetti abitavano nella sua scorza, ai suoi piedi abitavano il porcospino e il coniglio, tra i suoi rami gli uccelli.
L’albero Pictor era felice e non contava gli anni che passavano. Passarono molti anni prima che si accorgesse che la sua felicità non era perfetta. Solo lentamente imparò a guardare con occhi d’albero. Finalmente poté vedere, e divenne triste.
Vide infatti che intorno a lui nel paradiso gran parte degli esseri si trasformava assai spesso, che tutto anzi scorreva in un flusso incantato di perenni trasformazioni. Vide fiori diventare pietre preziose o volarsene via come folgoranti colibrì. Vide accanto a sé più di un albero scomparire all’improvviso: uno si era sciolto in fonte, un altro era diventato coccodrillo, un altro ancora nuotava fresco e contento, con grande godimento, come pesce allegro guizzando, nuovi giochi in nuove forme inventando. Elefanti prendevano le veste di rocce, giraffe la forma di fiori.
Lui invece, l’albero Pictor, rimaneva sempre lo stesso, non poteva più trasformarsi. Dal momento in cui capì questo, la sua felicità se ne svanì: cominciò ad invecchiare e assunse sempre più l’aspetto stanco, serio e afflitto, che si può osservare in molti vecchi alberi. Lo si può vedere tutti i giorni anche nei cavalli, negli uccelli, negli uomini e in tutti gli esseri: quando non possiedono il dono della trasformazione, col tempo sprofondano nella tristezza e nell’abbattimento, e perdono ogni bellezza.
Un bel giorno, una fanciulla dai capelli biondi e dalle veste azzurra si perse in quella parte del paradiso. Cantando e ballando la bionda fanciulla correva tra gli alberi e prima di allora non aveva mai pensato di desiderare il dono della trasformazione. Più di una scimmia sapiente sorrise alla suo passaggio, più di un cespuglio l’accarezzò lieve con le sue propaggini, più di un albero fece cadere al suo passaggio un fiore, una noce, una mela, senza che lei vi badasse.
Quando l’albero Pictor scorse la fanciulla, lo prese un grande struggimento, un desiderio di felicità come non gli era ancora mai accaduto. E allo stesso tempo si trovò preso in una profonda meditazione, perche era come se il suo stesso sangue gli gridasse: “Ritorna in te! Ricordati in questa ora di tutta la tua vita, trovane il senso, altrimenti sarà troppo tardi e non ti sarà più data alcuna felicità!”. Ed egli ubbidì. Rammemorò la sua origine, i suoi anni da uomo, il suo cammino verso il paradiso, e in modo particolare quell’istante prima che si facesse albero, quell’istante meraviglioso in cui aveva avuto in mano quella pietra fatata. Allora, quando ogni trasformazione gli era aperta, la vita in lui era stata ardente come non mai! Si ricordò dell’uccello che allora aveva riso e dell’albero con la luna e il sole; lo prese il sospetto che allora avesse perso, avesse dimenticato qualcosa, e che il consiglio del serpente non fosse stato buono.
La fanciulla udì un fruscio tra le foglie dell’albero Pictor, alzò lo sguardo e sentì, con un improvviso dolore al cuore, nuovi pensieri, nuovi desideri, nuovi sogni muoversi dentro di lei.
Attratta dalla forza sconosciuta si sedette sotto l’albero. Esso le appariva solitario, solitario e triste, e in questo bello, commovente e nobile nella sua muta tristezza; era incantata dalla canzone che sussurrava lieve la sua chioma. Si appoggiò al suo tronco ruvido, sentì l’albero rabbrividire profondamente, sentì lo stesso brivido nel proprio cuore. Il suo cuore, era stranamente dolente, nel cielo della sua anima scorrevano nuvole, dai suoi occhi cadevano lentamente pesanti lacrime. Cosa stava succedendo? Perché doveva soffrire così? Perché il suo cuore voleva spaccare il petto e andare a fondersi con lui, con il bel solitario?
L’albero tremò silenzioso fin nelle radici, tanto intensamente raccoglieva in sé ogni forza vitale, proteso verso la fanciulla, in un ardente desiderio di unione. Ohimè, perché si era lasciato raggirare dal serpente per essere confinato così, per sempre, solo in un albero! Oh, come era stato cieco, come era stato stolto! Davvero allora sapeva così poco, davvero era stato così lontano dal segreto della vita? No, anche allora l’aveva oscuramente sentito e presagito – ohimè! e con dolore e profonda comprensione pensò ora all’albero che era fatto di uomo e di donna!
Venne volando un uccello, rosso e verde era l’uccello, ardito e bello, mentre descriveva nel cielo un anello. La fanciulla lo vide volare, vide cadere dal suo becco qualcosa che brillò rosso come sangue, rosso come la brace, e cadde tra le verdi piante, splendette di tanta familiarità tra le verdi piante, il richiamo squillante della sua rossa luce era tanto intenso, che la fanciulla si chinò e sollevò quel rossore. Ed ecco che era un cristallo, un rubino, ed intorno ad esso non vi può essere oscurità.
Non appena la fanciulla ebbe preso la pietra fatata nella sua mano bianca, immediatamente si avverò il sogno che le aveva riempito il cuore. La bella fu presa, svanì e divenne tutt’uno con l’albero, si affacciò dal suo tronco come un robusto giovane ramo che rapido si innalzò verso di lui.
Ora tutto era a posto, il mondo era in ordine, solo ora era stato trovato il paradiso, Pictor non era più un vecchio albero intristito, ora cantava forte Pictoria. Vittoria.
Era trasformato. E poiché questa volta aveva raggiunto la vera, l’eterna trasformazione, perché da una metà era diventato un tutto, da quell’istante poté continuare a trasformarsi, tanto quanto voleva. Incessantemente il flusso fatato del divenire scorreva nelle sue vene, perennemente partecipava della creazione risorgente ad ogni ora.
Divenne capriolo, divenne pesce, divenne uomo e serpente, nuvola e uccello. In ogni forma però era intero, era una “coppia”, aveva in sé luna e sole, uomo e donna, scorreva come fiume gemello per le terre, stava come stella doppia in cielo.
Questa favola è stata scritta nel 1922 da Hermann Hesse *
( H.Hesse/ Sull’amore . Edi. Mondadori 2014, pagina 148-152)
* Hermann Hesse ( Calw, Wurttemberg, 1877-Montagnola, Canton Ticino , 1962), autore poliedrico, soggirnò a lungo in Oriente dove acquisì familiarità con le religioni , le filosofie e le letterature di India e Cina, che hanno ispirato alcuni tra i suoi più celebri romanzi tra cui Siddharta. Tra le sue più importanti opera dobbiamo ricordare: Il lupo della steppa;Narciso e Boccadoro; Gioco delle perle di vetro. Non era iscritto all’Ordine Iniziatico ma per le sue pagine esoteriche viene considerato un” massone senza grembiule”. Ha vinto il Premio Nobel per la Letteratura nel 1946.