Carducci e l’ideologia italiana
Luca Curti
Carducci “poeta della storia”, come lo definì Benedetto Croce, è da
sempre un luogo comune nella critica, e non contiene alcun errore. E’
però necessario aggiungere, per evitare di finire troppo lontano dal
seminato, che per Carducci la storia non è qualcosa di suggestivo da
disseppellire per il piacere della riscoperta e della contemplazione. Per
Carducci, complessivamente, fare poesia sulla storia non vuol dire
contemplare il passato e procedere a riflessioni metafisiche, alla stregua
di chi pensa alla caducità del tempo, alla propria fragilità, a come
tutto al mondo passa
e quasi orma non lascia.
La rievocazione storica è sempre, per lui, attualizzazione: la storia gli serve
per orientarsi nel presente, per progettare l’azione e per argomentare a
favore di quest’ultima. E’ uno strumento fondamentale della sua azione
civile. Non pretendo che, ogni volta che nella poesia di Carducci si presenta
l’immagine del passato, ciò abbia per forza il segno dell’azione presente.
Certo, molto spesso basta osservare con attenzione certo Medioevo, pur
risplendente di figurazione, per trovarci in filigrana qualcosa di più. Per
esempio, sarà bene non confondersi quando si leggono versi come questi:
Gli Scrittori d’Italia – XI Congresso Nazionale dell’ADI
Cupi a notte canti suonano
Da Cosenza su’l Busento
Cupo il fiume gli rimormora
Dal suo gorgo sonnolento.
Su e giù pe’l fiume passano
E ripassano ombre lente:
Alarico i Goti piangono,
Il gran morto di lor gente.
Eccetera. Bene, guardiamoci dall’interpretarli come spia di un
sentimento suggestionato da un gusto medieval-romantico,
notturno e barbarico. Bisogna invece ricordare che si tratta di una
traduzione dal Platen, tedesco anti-romantico innamorato
dell’Italia, in particolare dell’Italia classica, che morì ( nel 1835) ed è
sepolto a Siracusa. Esempi di questo genere sono diffusi e numerosi
e portano a pensare e a dichiarare, una volta per tutte, che
nell’ispirazione di Carducci c’è coerenza molto profonda, che nella
storia della sua poesia e della sua opera in generale non c’è – nella
sostanza – alcuna conversione, come spesso si pretende, e che la
stella polare di Carducci, storia o no, è sempre stata una sola; basta
individuarla con chiarezza. E’, semplicemente, il nazionalismo (si
può chiamare anche in modo più gentile, ma considerandolo sotto
il profilo ideologico è opportuno identificarlo col suo nome
moderno e per noi più chiaro). Secondo alcuni, c’è nazionalismo e
nazionalismo. Per esempio, recentemente, Lucio Villari, nel secondo
dei volumi sul Risorgimento pubblicati da «La Repubblica», p. 117,
scrive in modo tranquillizzante:
Luca Curti – Carducci e l’ideologia italiana
«poeti alla ricerca delle “patrie” che ai loro occhi erano tutt’uno con i “popoli”,
una parola che noi oggi traduciamo in identità e che per le teorie del
romanticismo serviva a identificare le singole nazioni e a considerarle eguali nel
rispetto a loro dovuto. Sia detto per inciso che da qui è nato il nazionalismo
ottocentesco, sia in Europa che nel Nuovo Mondo, e che esso non va affatto
confuso con il nazionalismo violento, elitistico, razzistico (nel senso che ogni
nazione crederà di essere superiore o meglio delle altre) che lacererà la storia di
fine Ottocento e della prima metà del Novecento».
Se «non va confuso» allora noi distingueremo: ma certo sarà difficile
pensare a uno dei due poli del dilemma che continui ad esistere senza
l’altro… In particolare, per Carducci, si tratta di nazionalismo non
romantico ma classicistico, con centro ideale in Roma, e che al suo
interno, per ovvie ragioni proprie della nostra storia, contiene
l’anticlericalismo (visto che Roma era da secoli la prestigiosissima
capitale dello Stato pontificio e sede del Papa) e che arriva come suo
“naturale” sviluppo all’imperialismo crispino. Dico “naturale” perché la
scelta di Roma come terminale dell’azione storica e come chiusura di un
circolo storico e ideale insieme comportava, assieme all’anticlericalismo,
lo sviluppo imperiale. Per convincersi dello spessore del rischio basta
leggere ciò che scrive Treves del “romanesimo” di Giuseppe Mazzini:
«[Mazzini non si chiuse nei confini nazionali:] vide slargata l’Europa alla
Repubblica d’oltre Atlantico […] vide l’Asia aperta alla penetrazione russa e l’Africa
alla penetrazione europea, giustificando e quasi comandando il colonialismo in
nome e al fine dell’umano incivilimento. Che era, anche, un serbarsi fedele, senza
la retorica nazionalistica imputatagli a torto da troppi suoi critici, e quasi ch’egli
ne fosse l’iniziatore, alla lezione delle cose antiche, ai fondamenti dell’umanesimo
e all’esempio di Roma».1
1 P. Treves, Mazzini e l’antico, in, Ottocento italiano fra il nuovo e l’antico, I, Alle prese
con la storia, Mucchi, Modena, 1992, p. 138.
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(Prima di vedere incoerenze o abiure nella storia del “popolare” e
giacobino Carducci è prudente riflettere un attimo). Per Carducci la
storia fonda l’azione civile, serve a questo scopo. Un esempio che mi
sembra chiaro. Una volta nelle nostre scuole si leggeva e spesso si
imparava a memoria La canzone di Legnano. Adesso, misteriosamente,
quella “cosa” non esiste più. Credo inevitabile domandarsi perché, e
parallelamente chiedersi come mai quarant’anni fa la si leggeva senza
che affiorasse il minimo dubbio sulla sua opportunità. E’ chiaro che la
sua qualità letteraria è rimasta la stessa, a parte obiecti… Dunque sarà
cambiato qualcos’altro. Per cominciare a capire qualcosa si può leggere
quanto scrive Federico Chabod :
Il clamore irredentistico nel ’76 comincia a Milano con la celebrazione del VII
centenario della battaglia di Legnano […] E si tenga presente che l’interpretazione
corrente della storia comunale italiana era, allora, quella della lotta per la libertà
e l’indipendenza contro gl’imperatori tedeschi (carducciana Canzone di Legnano) 2
Se con queste informazioni rileggiamo la Canzone (o Parlamento che
sia) allora la passione di Cristo e di Milano, le torri che crosciano una
ad una, il giuramento contro Federico riprendono il loro antico posto; e
la figurazione di Carducci riappare in tutto il suo retorico splendore, di
orazione politica. E tra le altre cose si comprenderà anche lo scandalo,
per il famoso Resegone fuori posto, risentito da un grande nazionalista
e reazionario deluso come il milanese e interventista Carlo Emilio
Gadda (che chiama Carducci, nella Cognizione, “il Copernico di Pian
2 F. Chabod, Storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896, Laterza, Bari, 1951, p. 295 n. 3.
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Castagnaio”): risentimento che non si spiegherebbe con pure ragioni
letterarie. Vi sfido a rileggere gli ultimi versi tenendo a mente le cose
ricordate da Chabod ( nonché la data di composizione della Canzone:
appunto 1876…) e, fatto questo, vi sfido a dirmi quanto poteva
importare, a Carducci – che si rifiutò sempre di correggere – e a tutti i
suoi lettori coevi e consapevoli, di dove esattamente si collocasse il
monte detto Resegone:
Ed allora per tutto il parlamento
Trascorse quasi un fremito di belve.
Da le porte le donne e da i veroni,
Pallide, scarmigliate, con le braccia
Tese e gli occhi sbarrati al parlamento,
Urlavano — Uccidete il Barbarossa. —
«Or ecco,» dice Alberto di Giussano,
«Ecco, io non piango piú. Venne il dí nostro,
O milanesi, e vincere bisogna.
Ecco: io m’asciugo gli occhi, e a te guardando,
O bel sole di Dio, fo sacramento.
Diman da sera i nostri morti avranno
Una dolce novella in Purgatorio:
E la rechi pur io!» Ma il popol dice:
«Fia meglio i messi imperïali.» Il sole
Ridea calando dietro il Resegone.
Il riferimento alla storia è insomma, per Carducci, uno strumento per
costruire l’identità di una nazione; e naturalmente è sempre orientato
politicamente. La storia d’Europa è vista in funzione della politica
italiana ( ed europea, in senso molto mediato). Soprattutto, così è vista
quella dei due Stati esteri che gli stavano più a cuore: la Francia e lo
Stato della Chiesa. C’è un’ode di Carducci riassuntiva di parecchi punti
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del suo pensiero e della sua vicenda politica e culturale, ed è un’ode di
argomento – o di spunto – storico. Il 20 (oppure, il XX ) settembre del
1870 è una data decisiva. La Francia di Napoleone III, impegnata nella
dura guerra contro la Prussia, aveva distolto da Roma la sua attenzione
e allentato la sua protezione. Con la sconfitta francese a Sedan
maturarono le condizioni per la breccia di Porta Pia. Era, appunto, il 20
settembre. Poco dopo Roma fu proclamata capitale d’Italia. Il Papa si
rinchiuse nei palazzi vaticani, scomunicò i liberali, dichiarò «ingiusta,
violenta, nulla e invalida» l’occupazione italiana, proibì ai cattolici di
partecipare alla vita politica nazionale.
La presa di Roma si doveva, dunque, alle truppe del Re: non a Mazzini
né a Garibaldi, non ai repubblicani. Carducci accusò il colpo; non si
smentì, reagì con rabbiosa coerenza e si spinse fino ad un punto a cui
nessun altro intellettuale coevo arrivò, tanto meno nessuno della sua
fama, posizione e visibilità. Il 21 settembre 1871 scrisse Versaglia (cioè,
Versailles). Perchè questo riferimento alla storia francese del potere? In
Francia, dopo Sedan, era sorta la Comune parigina: un esperimento di
governo rivoluzionario su base comunistica che non si era mai visto,
primo tentativo di quel genere. Venne soffocata nel sangue. Massacri da
una parte e dall’altra. Uno degli episodi più clamorosi di quella guerra
civile fu la distruzione delle Tuileries, l’edificio delle telerie che venne
incendiato e distrutto nel 1871 dai comunardi. Carducci, deluso nella sua
fede repubblicana, pieno di rancore nei confronti della storia che l’aveva
tradito, arrivò ad appoggiarli, e lo disse con una violenza che merita di
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essere osservata. Dopo la descrizione, nelle strofe precedenti, degli
scenari dell’ancien régime, ecco che scoppia la rivoluzione:
L’ere da le sottane e da i cappelli
La corte e la cittade allor segnò;
Il popol, da le fami e da i flagelli;
Poi da la morte, quando si rizzò.
E il giorno venne: e ignoti, in un desio
Di veritade, con opposta fé,
Decapitaro, Emmanuel Kant, Iddio,
Massimiliano Robespierre, il re.
La Critica della Ragion Pura di Kant aveva stabilito la non dimostrabilità
razionale dell’esistenza di Dio, così come Robespierre aveva decapitato,
in senso stretto e proprio, il re, nel 1893.
Oggi i due morti sovra il monumento
Co ‘l teschio in mano chiamano pietà,
Pregando, in nome l’un del sentimento,
L’altro nel nome de l’autorità.
E Versaglia a le due carogne infiora
L’ara ed il soglio de gli antichi dì…
Oh date pietre a sotterrarli ancora,
Nere macerie de le Tuglierì.
Seppellite per sempre questi due cadaveri!
Dunque un violento manifesto anti-monarchico e antireligioso. Ma
non fu sempre così. Vent’anni più tardi scrive Piemonte.
Quando si dice vent’anni si intenda vent’anni esatti: fu scritta
nell’estate del 1890 e terminata a Bologna il 10 settembre di
quell’anno. Per Carducci, il Piemonte è il luogo da cui era partito il
movimento politico-militare che aveva unificato l’Italia, lo Stato il
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cui re era diventato Re d’Italia.
Alcune tra le sue città sono cariche di ricordi risorgimentali, come
Novara, che fa venire in mente Carlo Alberto, di cui in chiusura
dell’ode Carducci tesse una lode magnifica. Questo Re fu il primo
che, alla testa di truppe italiane, sconfisse gli austriaci (a Goito, nel
1848; Carducci aveva 13 anni).
Dopo la sconfitta di Novara, la sua vicenda umana si era chiusa
nell’esilio di Oporto:
E lo aspettava la brumal Novara
e a’ tristi errori mèta ultima Oporto.
Oh sola e cheta in mezzo de’ castagni
villa del Douro,
che in faccia il grande Atlantico sonante
a i lati ha il fiume fresco di camelie,
e albergò ne la indifferente calma
tanto dolore!
Qui Carducci recupera il collegamento con Garibaldi:
Sfaceasi; e nel crepuscolo de i sensi
tra le due vite al re davanti corse
una miranda visïon: di Nizza
il marinaro
biondo che dal Gianicolo spronava
contro l’oltraggio gallico: d’intorno
splendeagli, fiamma di piropo al sole,
l’italo sangue.
Su gli occhi spenti scese al re una stilla,
lenta errò l’ombra d’un sorriso. Allora
venne da l’alto un vol di spirti, e cinse
del re la morte.
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Come nella fantasia finale dell’Amleto di Shakespeare. Ben nota la
stroncatura, e anzi vilipendio, che dell’ode fece Carlo Emilio Gadda.
Venne quel grande, come il grande augello
ond’ebbe nome; e a l’umile paese
sopra volando, fulvo, irrequïeto,
– Italia, Italia –
egli gridava a’ dissueti orecchi,
a i pigri cuori, a gli animi giacenti:
– Italia, Italia – rispondeano l’urne
d’Arquà e Ravenna .
Cioè le tombe di Petrarca e di Dante. Ed ecco il commento di Gadda:
«“Non si può lasciar passare una grossièreté estetica simile!” afferma l’Ingegnere.
I versi sono: “Venne quel grande, come il grande augello / ond’ebbe nome; e a
l’umile paese / sopra volando, fulvo, irrequieto / Italia, Italia / egli gridava a’
dissueti orecchi…”. Qui si pone il problema che il poeta non si è posto, mentre
sarebbe stato tenuto. Come volava il grande Alfieri? E questo Alfieri che vola sarà
stato così entusiasmante da vedere, per chi se lo vedeva passar sopra? Qui, prima
di tutto, un individuo che vola sopra di noi ci dà fisicamente la sensazione che ci
possa lasciar cadere qualche cosa sulla testa, può essere pericoloso; che so, un
sasso, una bomba».
L’Ingegnere sembra anche perseguitato dal ricordo di quando fu portato per la
prima volta dai suoi parenti al Savini [celebre caffé di Milano, in Galleria]; e dopo
avere aspettato e desiderato tanto quella occasione festiva, appena seduto al
tavolino col suo gelato, subito un piccione da un cornicione della Galleria gli
sciupò tutto. […]
E poi, perché l’Alfieri dovrebbe essere “fulvo”? “Allora anch’io!” protesta
l’Ingegnere. E spiega: “L’Alfieri aveva contratto la tigna da giovanetto alla scuola
militare dei cadetti, ed era calvo come un ginocchio”. Ma il problema più grave è
un altro. “In che toilette vola l’Alfieri secondo il Carducci? In quella di Icaro? E
che spettacolo offrirebbe allora a chi guarda di sotto in su? E se volasse invece
con abiti del suo tempo? In ambedue le ipotesi, la cosa è grottesca!”
Più avanti, nella stessa ode, muore Carlo Alberto in esilio a Oporto: “…e nel
crepuscolo dei sensi / tra le due vite al re davanti corse / una miranda visïon: di
Nizza / il marinaro / biondo che dal Gianicolo spronava / contro l’oltraggio
gallico….” E qui prima di tutto all’Ingegnere non pare serio che un re, sia pure in
esilio, muoia sognando un marinaio, per di più a cavallo: tanto più che un
marinaio a cavallo è sempre una contraddizione in sé, non meno che un cavaliere
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in barca. E tanto più nel caso di Garibaldi, che spronava dal Gianicolo; cioè a
molti chilometri dal mare. “Perché mai avrebbe dovuto abbigliarsi da marinaro,
per spronare dal Gianicolo? Senza contare che quando spronava si era già nel ’49,
non era più né giovane né biondo, aveva più di quarant’anni, soffriva di
reumatismi dolorosi…”».3
Questo per dire che la grande retorica di Carducci è fragile e si presta a
considerazioni assolutamente irrispettose anche da parte di autori che,
come Gadda, ne condividono almeno in parte l’ideologia e sono
ammiratori suoi dal punto di vista letterario.
Ma da notare sono tre cose: la data è troppo chiaramente allusiva, si
tratta della palinodia di un giudizio sul 20 settembre che ora si vuole
radicalmente modificare; la palinodia è solo parziale (Roma doveva
essere conquistata – però riconosciamo che a farlo è stato un Re); l’ode
è scritta in metro barbaro.
Sull’ultima cosa, torneremo. Ma parliamo intanto della palinodia: il
giudizio da correggere è quello contenuto in Versaglia, lo abbiamo
visto. Qualcuno si assunse il compito di spiegare al Vate che stava
sbagliando, e questo qualcuno fu Crispi. L’antico garibaldino e suo
fratello di fede massonica lo convinse, per il bene dell’Italia, a lasciar
perdere la questione istituzionale – pericolosissima per l’unità
nazionale, così recente e fragile – e ad appoggiare la monarchia.
Non che il rapporto con Crispi e con la corona sia stato sempre
pacifico. Altre cose, oltre a Piemonte, scrisse Carducci che devono essere
3 Il passo si legge ora in C.E. Gadda, «Per favore mi lasci nell’ombra». Interviste
1950-1972, a cura di Claudio Vela, Adelphi, Milano, 1993.
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lette in quest’ottica per ricevere senso pieno.
Prendiamo per esempio i sonetti del Ca ira. Uno degli ultimi che ne
hanno parlato, Giorgio Sterpos, ha osservato acutamente che si coglie,
nel complesso della collana, un “atteggiamento difensivo”. Ma
certamente! e ci mancherebbe. I sonetti sono scritti e pubblicati nei
mesi dell’anno 1882 in cui l’Italia firmava la Triplice Alleanza con
Prussia e Austria-Ungheria in funzione anti-francese. Carducci non
poteva accettarlo, ma Crispi voleva la Triplice….E la Regina, titolare
dell’eterno femminino regale, era antifrancese.4 Certo, mentre esaltava
la Grande Rivoluzione Carducci aveva di che desiderare di “coprirsi” e
spiegarsi !4 E in quello stesso 1882, in novembre, veniva impiccato, dal
nostro “alleato” Francesco Giuseppe, Guglielmo Oberdan! Donde, da
parte del Carducci, il furore e anche la cautela (in quel caso, prevalse il
furore e Carducci aprì una sottoscrizione per il monumento a Oberdan;
ma non cambiò il suo orientamento politico).
Veniamo alla metrica barbara, cioè alla scelta di riprodurre per il
tramite di versi italiani il ritmo della metrica classica. Anche questa
4 Margherita non limitò mai il suo ruolo alla rappresentanza istituzionale, neppure in
tempi più recenti. Nell’ottobre del ’22 era Regina madre, si era ritirata a Bordighera; lì
ricevette in udienza De Vecchi e De Bono, due quadrumviri che stavano partendo per
la Marcia su Roma – Italo Balbo non ci andò, ufficialmente perché non aveva un abito
adatto all’occasione, in realtà perché era repubblicano intransigente – e da loro si fece
tranquillizzare sulle intenzioni del fascismo nei confronti della monarchia;
rasserenata, comunicò il tutto al figlio, cioè al re, e ciò valse ad evitare ai marciatori
un confronto con l’esercito. (Significativo, per l’antica ammiratrice di Carducci….).Per
tutto questo confronta De Felice, Mussolini e il fascismo, II, 1, p.
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scelta ha una evidente radice ideologica: sottolinea la continuità tra la
Roma classica e quella moderna. E la cosa che più colpisce, nella
“barbarie” carducciana, è la sua noncuranza per i dettagli tecnici; è
come se , una volta chiarito il senso della sua scelta, del resto gli
importasse assai meno.
«Carducci compone, confessatamene, ad orecchio, segue il ritmo della propria
ispirazione, senza ragionare in termini di schemi metrici precostituiti od astratti
o libreschi, sui quali si è poi tanto travagliato il povero Pascoli, massime nella
faticosa lettera postuma a Giuseppe Chiarini». 5
C’è chi sostiene che l’ultima generazione di lettori del Carducci è quella
che scompare con la prima Guerra Mondiale. Non è così. Il primo vero
“sipario di ferro” che comincia a escludere l’opera di Carducci dallo
svolgimento della storia nazionale – e dunque la sua poesia civile dal
contatto con il pubblico – cala nel 1929, con il Concordato tra lo Stato
italiano e la Chiesa. La ferita ideologica più grave che il Risorgimento
liberale aveva inferto alla storia del popolo italiano, vale a dire lo
scontro frontale con la Chiesa cattolica, era sanato. Nazionalismo e
anticlericalismo si dissociavano per sempre, il Papa non era più nemico
al Re d’Italia. L’eloquenza di una sola pagina può bastare a misurare
l’impatto di quell’accordo. E’ di pugno dell’artefice principale della
vicenda, Benito Mussolini, che considerò sempre i Patti Lateranensi
come il suo massimo capolavoro in tema di politica estera:
5 P. Treves, Ottocento, III, p. 89 ss. Per una storia molta chiara di questo
atteggiamento, ricostruita attraverso le lettere, confronta G. Capovilla, D’Annunzio e la
poesia “barbara”, Mucchi, Modena, 2006, pp. 66-67 e note.
Luca Curti – Carducci e l’ideologia italiana
«In un primo tempo, il re non credeva alla possibilità della soluzione della
“questione romana”, in un secondo tempo mise in dubbio la sincerità del
Vaticano, finalmente l’idea che l’ultima ipoteca su Roma dell’ultimo sovrano
spodestato fosse tolta lo lusingò. Anche la prospettiva dello scambio delle visite
fra i due sovrani confinanti gli sorrise. Vide in tutto ciò un rafforzamento delle
istituzioni. Anche il Concordato non gli dispiacque, quantunque il suo notorio
anticlericalismo lo rendesse sospettoso. Ma quando vide la schiera dei vescovi
sfilare davanti a lui per prestargli giuramento si convinse che anche nel
Concordato ogni concessione al Vaticano aveva avuto la sua contropartita».6
6 B. Mussolini, Storia di un anno, Mondadori, Milano, 1944 (terza ed.), p. 412