(da Scienza e Vita 1992)
Oltre a costituire una delle famiglie più grandi del regno vegetale, fin dall’antichità sono molto usate in campo medicinale e alimentare.
La famiglia delle orchidee è una delle più grandi nel regno vegetale e, in concentrazione variabile di specie, distribuita in tutto il mondo e in tutte, o quasi, le zone altitudinali: in America è stata trovata una Epidendrum a 4600 metri, dove le nevi sono perenni. La concentrazione maggiore di orchidee, circa 1’80% delle specie finora conosciute, abita la zona tropicale del Vecchio e del Nuovo Mondo; in Europa è presente solo l’1 %, ma la conoscenza dell’esiguo drappello è molto antica e ad essa si deve il battesimo ufficiale della specie.
Nel volume Les Orchidees, dedicato nel 1880 a Sua Maestà Maria Enrichetta regina del Belgio, si legge: «Le genre Orchis, qui a donne son nom à la famille des Orchidees, tien le sien du grec… que nous nous garderons bien de traduire». Sì, perché il nome da tradurre, testicoli, non avrebbe potuto a quel tempo arrivare alle orecchie di una dama di rango nemmeno se servito sul vassoio della scienza. Può sembrare tuttora quanto meno strano che a un fiore dall’ apparenza tanto leggiadra sia stato attribuito un nome tanto pesantemente evocatore; il fatto è che le prime orchidee conosciute e spontanee in regioni di cultura avanzata, come la Grecia antica, sono munite sottoterra di tuberi che assomigliano alla suddetta parte anatomica, se non altro perché accoppiati. In virtù di questa analogia la medicina empirica, che a quei tempi cercava nella forma esteriore delle piante delle indicazioni sul loro valore terapeutico, li tenne subito in considerazione quali potenti stimolatori e regolatori della fecondità.
Alle orchidee che vivono in zone temperato-fredde, questi organi sotterranei servono invece semplicemente per sopravvivere agli assedi climatici: le alte e secche temperature, i geli prolungati non li uccidono, ed essi sono pronti a uscire dalla quiescenza e a rivegetare non appena si verificano le condizioni adatte. Le specie tropicali non hanno questi problemi; per la maggior parte sono epifite: vivono cioè su alberi e rocce. Le loro radici, piatte o cilindriche, contengono clorofilla e sotto l’azione della luce sono in grado di trasformare l’acqua e l’anidride carbonica in composti organici.
In tutte le regioni della terra le orchidee, prima di soddisfare un interesse esclusivamente floricolo, costituirono materia di utilità medicinale e alimentare. Il più antico prodotto terapeutico di cui si ha notizia in merito è il salep, una fecola ottenuta dai tuberi essiccati di Orchis militaris, una specie presente anche in Italia in prati e boscaglie, fino a 1800 metri dalle Alpi all’Abruzzo non che da specie simili (Orchis morio, O. coriophora, O. simia) tutte comuni nel nostro Paese, Pianura padana esclusa.
Altre orchidee nostrane da salep sono quelle del genere Ophrys, e Dactylorhyza, inoltre la Traunsteinera globosa o “orchidea dei pascoli”, il cui habitat si trova nel centro-settentrione fra i 600 e i 2300 metri, la Loroglossum hircinum, l’Anacamptis pyramidalis che forma colonie sporadiche e, dove il suolo è calcareo, molto fitte.
Nato in tempi remoti in Oriente per scopi squisitamente afrodiasiaci, in seguito il salep venne consumato soprattutto nei Paesi islamici, anche come alimento da viaggio; bastava inzuppare la fecola nell’acqua, aromatizzarla, e il pranzo dei nomadi era servito. Durante l’inverno comparivano qui e là in Medio Oriente, viandanti anch’essi, i “salepzides” che vendevano il prodotto pronto.
Il naturalista di casa nostra Plinio descrive nell’Historia naturalis alcune piante afrodisiache tra cui una Orchis che chiama Seràpias e che così illustra: «Ha foglie come quelle del porro, il gambo alto un palmo, il fiore purpureo, una radice doppia che somiglia ai testicoli». Potrebbe trattarsi di Seràpias lingua, una specie che riesce a produrre annualmente anche più di un tubero estendendosi tramite radichette avventizie lontano dalla pianta madre.
Le Seràpias, così chiamate forse in onore del dio Serapione cui si attribuivano guarigioni miracolose, esplicavano effetti diversi a seconda del veicolo conduttore; il tubero più grosso posizionato nell’acqua eccitava il desiderio, mentre quello più piccolo mescolato nel latte di capra lo inibiva. In più: il bulbo grosso e sodo mangiato dai maschi faceva generare figli maschi, quello piccolo e flaccido mangiato dalle femmine sessuava figli femmine.
Alla luce delle attuali ricerche il salep è un buon emolliente, adatto per calmare le irritazioni della mucosa gastro-enterica. Per ottenere la polvere i tuberi, globulari ellissoidali o appiattiti a seconda delle specie di orchidea da cui sono ricavati, si estirpano dal terreno quando la pianta è in fiore o appena sfiorita, si passano in acqua bollente per bloccare ogni attività germinativa, si pelano e si seccano. La polvere che se ne ottiene, sofisticata in passato con bulbi di colchico, è bruno-giallastra e contiene principalmente una mucillagine detta bassorina (al 48%), amido, zuccheri, albumina, calcio, sodio, potassio, fosfati, cloruri, ossalati e tracce di cumarina. Oggi il salep viene preparato in modi diversi (gelatina, decotto, infuso) a seconda della destinazione terapeutica. Una delle più interessanti è quella che prevede l’uso della polvere di orchidea per attenuare alcuni sgradevoli effetti gastrici dovuti all’ingestione dei farmaci di sintesi.
Un’orchidea nostrana ritenuta fino a non molto tempo fa notevolmente afrodisiaca dalla gente che vive nel suo stesso habitat, l’arco alpino fra i 1500 e i 2600 metri, è la profumata Nigritella nigra. Il composto ottenuto macerando i suoi fiori in olio di mandorle veniva spalmato sugli organi genitali, e la cura poteva essere rafforzata assumendo un infuso ottenuto dalla macerazione in acqua calda degli stessi fiori. Così stando le cose, non è improbabile che a sfoltire le popolazioni di nigritella, al punto da indurre le autorità a mettere la pianta sotto protezione, siano state per prime queste deleterie credenze magiche.
A parte i plurisecolari usi venerei, le orchidee sono comunque piante farmacologicamente ancora poco conosciute e l’uso medicamentoso riveste spesso tuttora carattere empirico. Come quello dell’orchidea “ballerina” (Aceras anthropophora), presente su tutto il territorio nazionale (Trentino escluso) i cui tuberi colti in estate avrebbero proprietà sedativo-tranquillanti. Con le foglie della stessa pianta, essiccate all’ombra, si preparava una volta un tè che aveva le stesse funzioni stomachiche del madagascariense “Tè Faham” ottenuto dall’orchidea Anagraecum fragrans.
Della “pianella della Madonna” (Cypripedium calceolus), tipica dell’Italia settentrionale ma rarissima, le porzioni sotteranee prelevate in autunno dovrebbero esplicare effetti antispasmodici, neurotonici e parasimpaticolitici. Tutti i componenti della “pianella” non sono peraltro ancora stati ufficialmente riconosciuti.
Stessa incognita nei confronti di Dactylorhiza incarnata, tipica delle zone acquitrinose del centro-settentrione, i cui tuberi, secondo alcuni autori, forniscono un decotto che stimola la produzione biliare e inibisce la degenerazione grassa del fegato. Nella panoramica medicinale non manca l’orchidea di puro potere antispasmodico (un tempo la si usava per curare l’epilessia): è la Gymnadenia conopsea, presente in tutta la Penisola.
Per le malattie della gola c’è invece Chamaeorchis alpina: la parte aerea della pianta, colta prima della fioritura, infusa e usata in gargarismi, quieta faringiti acute e croniche. Gode invece fama di vermifugo la parte sotterranea di Neottia nidus-avis, mentre proprietà cicatrizzanti sono attribuite a varie specie di Epipactis.
C’è da chiedersi a questo punto se non esista anche nel nostro Paese un’orchidea dal succo tossico come quello delle Cyrtopodium americane e che sembra gli indios utilizzassero addirittura per avvelenare la punta delle loro frecce. In qualche remoto angolo potrebbe anche esserci un endemismo fatale, che si è confuso finora fra altre erbe e altre infiorescenze; cosa più che facile, dato che da noi i fiori delle orchidee non hanno mai le dimensioni di quelli che i floricoltori dell’800 chiamavano “da seno” o “da occhiello” (le specie tropicali furono introdotte in Europa a partire dalla fine del ‘700) e che il periodo di fioritura è limitato a poche settimane.
Per noi profani non è nemmeno facile riconoscere le specie già entrate nella nomenclatura botanica, perché quella popolare le distingue con altri nomi; “elleborina” non è, come per assonanza si potrebbe credere, una qualche pianta, nipote dell’ elleboro, ma il nome attribuito alle orchidee Cephalanthera e a qualche Epipactis. Le specie vengono distinte 1’una dall’ altra in base al colore o 1’habitat: elleborina rossa, bianca, di palude. “Specchio di Venere” (o della vergine, o dell’uccellino) e “fior di specchio” sono nomi che stanno invece a indicare alcune Ophrys.
Le orchideee del genere Ophrys sono fra le più appariscenti: alte fra i 10 e i 40 cm, hanno il labello perlopiù trilobo, vellutato (villoso o peloso) e colori anche intensi. Per sopravvivere, se i loro fiori non vengono impollinati dagli insetti, provvedono all’autofecondazione curvando le claudicole e portando il polline sullo stimma. Nella nomenclatura popolare molti sono i richiami animali: si chiamano “galletti” i fiori di Orchis laxiflora, “bocca di gallina” quelli di Serapias neglecta, “fior di mosca” e “fior di ragno” sono, rispettivamente, quelli di Ophrys insectifora e Ophrys scolopax. E c’è una “farfalla” (Orchis papilionacea) e una “scimmia” (Orchis simia) detta anche “omino” perché si vuol vedere in ogni componente della sua infiorescenza un mini-individuo con tanto di braccia e gambe.
L’attribuzione più interessante riguarda però l’Orchis mascula una pianta che si rinviene nei luoghi erbosi e asciutti, nelle garighe, nelle macchie discontinue, ai margini e nelle schiarite dei boschi; è una delle specie più alte, che può superare il mezzo metro, e i fiori odorosi, riuniti in una spiga cilindrica più o meno densa, sbocciano tra la fine del mese di marzo e la fine di maggio; si chiama “giglio caprino”, forse a ricordare il fatto che le orchidee sono molto affini alle liliaceae e che, secondo alcuni botanici, sarebbero da quelle derivate nel lento, lungo corso dell’evoluzione.
Anna Faccini