DAVID MARIA TURALDO

David Maria Turoldo. Un mistico-poeta

Stralci di «Letture»

Da poche settimane padre David, frate dei Servi di Maria, e perso­naggio di spicco nel mondo artistico e culturale non soltanto italiano, ha lasciato la sua vita terrena.

Ebbi occasione di passare qualche ora con padre David quando, rien­trato in Italia dopo i «forzati vagabondaggi» all’estero, si stabili a Sotto il Monte, paese natale di Papa Giovanni XXXIII, nell’Abba­zia di Sant’Egidio. Breve incontro che ha lasciato però in me un ri­cordo imperituro.

Nato nel 1916, nel Friuli, figlio di poveri contadini, all’età di 14 an­ni entra nell’Ordine dei Serviti e riceve l’ordinazione nel 1940. E incorporato così in un ordine religioso detto dei mendicanti e questuanti che ben si addiceva al suo spirito evangelico-caritativo, già forte dell’esperienza di povertà vissuta in famiglia fin dall’infanzia.

E proprio per amore dei poveri il suo impegno si rivolge con la parola e con l’azione religiosa e sociale ai diseredati.

Anche la poesia egli l’ha concepita come voce e suono dati al «silen­zio di Dio» e ai poveri «che non hanno voce».

Seguono gli anni milanesi: l’università, la predicazione e durante la guerra la Resistenza. A Milano anche l’esordio editoriale-poetico.

Dal 1947 al 1952 a Nomadelfia, «Città della fratellanza», basata sul principio che si può essere « madri per vocazione e celibi per elezione», e che si possono costituire famiglie per orfani o abbandonati soltanto in forza della carità intesa evangelicamente come totale dedizione.

Utopia fu detta da molti questa causa che costò a padre David tra­versie ed amarezza, conclusasi con l’invito a «girare» fuori dell’Italia.

«… Dal mio esilio dopo Nomadelfia. Ero colpevole di aver creduto che la fraternità fosse legge. Perciò mi avevano detto di “girare”, purché non ritornassi in Italia. Ero senza casa e senza Chiesa. E dovevo girare. Pri­ma a Monaco di Baviera dove andavo tutti i giorni alla stazione a vedere partire i treni; poi a Parigi, poi a Ginevra.., ed era Natale».

Turoldo riprende la predicazione in particolare tra gli emigrati in Ca­nada e negli Stati Uniti. Rientra in Italia nel 1954 e dal 1963 fino alla morte resta all’Abbazia di Sant’Eligio.

Da Sotto il Monte, paese natale dell’amatissimo Papa Giovanni XXXIII scriveva:

« Sì, gli ho creduto fino al punto di ritirarmi nel suo paese, di mettermi a vivere qui, a camminare per queste mulattiere, in mezzo ai suoi vigne­ti; a guardare   dal monte gli spazi e il cielo che lui si era portato con sé –per le strade dell’oriente e dell’occidente, fin dalla sua infanzia, qui in mezzo alla sua gente. Vivevo e dormivo in una torre di mille anni.

E da quelle finestrelle guardavo giù tutta la pianura. E dovevo entrare da una porticina piccolissima, cosicché dovevo curvarmi e ogni volta che uscivo avevo la sensazione di inchinarmi di fronte alla creazione. E go­devo di tutte le più piccole cose, della mia vocazione, della mia volontà di donarmi; godevo specialmente di stare con gli umili e con i fanciulli.

E ho creduto veramente nella possibilità di un mondo nuovo o comun­que diverso. Speravo che storia dovesse cambiare».

Turoldo non ha mai cessato di scrivere poesia, compagna e conforta­trice anche nelle ore più dolorose. Molte anche le opere di prosa e di teatro. Però è soprattutto la poesia la sua predilezione, il vertice dei suoi interessi e dei valori «… Almeno, tra tante devastazioni e in mezzo alle molte cose ormai irrimediabilmente perdute, ci sia d’a­vanzo l’amicizia e il dono della poesia».

In tutta la poesia turoldiana domina l’Io del poeta, come bene ha os­servato Andrea Zanzotto: «E sempre un io fortemente storico e psi­cologico (…) un io che lavora all’interno dei dati concreti (…) verso i territori di quello che viene chiamato l’impegno sociale (…). Egli va incontro alla storia, ma il contatto viene garantito fuori della sto­ria stessa, attraverso la religiosità. Si tratta comunque di una religio­sità continuamente verificata nel quotidiano; in essa esiste il ricordo o la nostalgia di una totale esperienza mistica».

Dalle poesie:

Comprendere e cantare la povertà

« Signore non ti chiedo di avere

quello che gli altri hanno,

essi non sanno

il caldo

 lume di questa povertà.

Nulla è il loro possesso

di fronte alla nostra

 pena di essere spogli».

Inno alla vita immortale

«Ora tutto il mio essere è in fiore;

il sangue a fiotti germoglia

al bacio di questo

primo sole di maggio:

ora anche le pietre

sono in amore, o Primavera.

Iddio come un uccello

tiene il suo nido fra queste

selve! (…)

Ed egli canta tra i nostri rami.

E noi pure cantiamo».

Pessimismo esistenziale

«Un male è di questa vita

di cui non ci è dato guarire.

E Dio non ci dà tregua:

la nostra è una tragedia

di sole».

Colloquio notturno

«E quando la notte fonda

ha inghiottito uomini e case

una cella mi accoglie

esule dal mondo.

….

Allora Egli mi attende solo,

a volte seduto sulla sponda del letto,

a volte abbandonato sul parapetto

della grande finestra. E iniziamo

ogni notte un lungo colloquio.

Io divorato dagli uomini, da me stesso,

a sgranare ogni notte il rosario

della mia disperata leggenda.

Ed Egli a narrarmi ogni notte

la sua infinita pazienza».

O Theos…

«Mai di te sapremo:

o Suono

o Silenzio

o Parola

che tu sia,

oppure Occhio che riflette

tutta la terra come una perla;

e mai nulla di definito sapremo

neppure di noi… »

Questa voce è stata pubblicata in Varie. Contrassegna il permalink.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *