ALIMENTAZIONE NEL MODO GRECO

da: “Alimentazione nel mondo greco”

di Eugenia Salza Prinia Ricotti

Il vino

      Bevanda di elezione del banchetto antico in epo­ca classica era natural­mente il vino. Euripide nella sua Bacchica scri­ve: «Il vino, antidoto di ogni dolore, venne do­nato ai mortali: senza vino l’amore non vive ed ogni altra gioia muore». Tutti gli altri poeti an­nuivano, limitandosi a suggerire una certa mo­derazione perché, come dice Antifane, «se un uomo beve continuamente si istupidisce. Solo se beve moderatamente si riempie di nuove idee».

      Anticamente si pensava che il vi­no andasse sempre diluito, perché pu­ro avrebbe portato alla distruzione del corpo. Nonostante questo, c’era chi lo beveva puro e ne beveva anche molto.

      Alessandro Magno, ad esempio, lo a­veva sempre fatto ed era uso a stravi­ziare. Si sussurrava, anzi, che questa fosse la ragione di quella sua frigidità che tanto aveva preoccupato i suoi ge­nitori, ma che non doveva poi essere così terribile, visto che nelle sue cam­pagne si era sempre portato appresso la famosa Thais e, con quello che un’e­tera di lusso costava, doveva pur in qualche modo sfruttarla.

      Sempre per il vino puro si diceva che fosse impazzito Cleomene, lo spartano che, essendo vissuto molto con gli Sciti, aveva preso da loro l’abi­tudine di berlo così. Questo uso degli Sciti era tanto noto nell’antichità che i Greci con «bere alla scita» indicavano il bere vino puro, ed a questo attribui­vano ogni male. Perciò si faceva di tutto per non prendere il vizio.

      Quando si doveva annacquare il vino, si usava prima mettere l’acqua e poi aggiungerlo (Senofane, Anacreon­te ecc.). Nella sala del triclinio vi era sempre una tavola sulla quale veniva disposta tutta la suppellettile del sim­posio: le brocche per il vino dette  oinochoai, quelle per l’acqua, gli attingi­toi, i misurini, le coppe ed il grande recipiente nel quale si preparava la mi­stura. Questi corredi per il simposio erano a volte ricchissimi e foggiati in materiale prezioso; ma vi erano anche quelli di semplice ceramica.

      Le proporzioni nelle quali biso­gnava mescolare l’acqua con il vino venivano stabilite volta per volta da uno dei convitati, eletto dai com­mensali alla carica di simposiarca. Questi fissava anche il numero e la modalità dei brindisi. Le diluizioni preferite, dopo aver scartato quella metà acqua e metà vino che era giudicata ancora pericolosa per la salute, venivano chiamate a cinque ed a tre. La proporzione a cinque era formata da tre parti d’acqua e due di vino; quella a tre era invece formata da due parti di acqua e una di vino. Esisteva anche quella a quattro; ma tale mistura, molto annacquata, veni­va da Plutarco definita come buona soltanto per saggi magistrati. D’in­verno il vino veniva diluito con l’ac­qua calda; d’estate con quella fredda.

      Quando faceva molto caldo si usava la neve, che Simonide diceva raccol­ta sulle pendici dell’Olimpo.

      Si consigliava pure di non bere molto. Eubulo fa dire a Dioniso che le persone morigerate bevono soltanto tre coppe: una per il brindisi, una per l’amore ed una per il sonno. A questo punto il saggio doveva terminare la se­rata e andare a casa. Se restava, infatti, e continuava a bere avrebbe fatalmen­te scoperto che la quarta coppa appar­teneva alla violenza; la quinta al chias­so; la sesta all’allegria dell’ubriachez­za; la settima alla rissa (agli occhi ne­ri, come si diceva in greco); l’ottava al tribunale; la nona all’attacco di fegato; la decima alla follia ed alla distruzione del mobilio.

      Dati gli effetti che il vino dell’epo­ca produceva nonostante la notevole diluizione, ne consegue che esso dove­va avere una forte gradazione alcooli­ca. Certo è che il vino greco era consi­derato il migliore del mondo antico e spesso si cercò di imitarlo. Catone, Varrone, Columella e tutti gli scrittori antichi che si occuparono di agricoltura diedero ricette e consigli per «fare vino greco», che pare si ottenesse me­scolando al mosto una certa quantità di acqua di mare: a quel che si diceva, questo rendeva il vino più dolce. Trat­tato in tal modo era il Myndio, tanto che il cinico Menippo chiamava gli a­bitanti di Myndo bevitori di acqua ma­rina; c’era poi il vino di Alicarnasso ed anche quello di Coos nel quale l’ag­giunta era notevole, mentre meno se ne metteva in quello di Rodi. Si diceva che i vini trattati con acqua di mare non causassero mai mal di testa, fosse­ro lassativi, ridestassero i succhi ga­strici ed aiutassero la digestione. In­somma, avrebbero dovuto essere un vero e proprio toccasana.

      Uno dei migliori vini greci era il rosso di Chio. C’era poi il Thasio, che doveva essere particolarmente buono se Antidoto scrive: «Riempi la mia coppa di vino thasio, poiché non im­porta quale sia la cura che tortura il mio animo; quando lo bevo il mio cuore guarisce istantaneamente». Molto quotato era il Pramnio di Le­sbo. Clearco esclama: « Vino di Lesbo che deve esser stato fatto dallo stesso Marone [Marone era il prete di Apol­lo che diede ad Ulisse il suo vino]!». Ed Alexis:«Non c’è vino altrettanto piacevole da bere quanto un bicchiere di Lesbio». Anche Archestrato, parlando di vini, consiglia il Lesbio invecchiato. 

       Ermippo, invece, non è  di questa opinione e mette in bocca allo  stesso Dioniso le lodi del Thasio, «su cui aleggia il profumo delle mele». Per lui è il migliore di tutti i vini. Ma anche il vino di Nasso pare che fosse molto buono: Archiloco, che di vino se ne intendeva, lo paragona al netta­re. Il poeta scrive: «Dalla mia lancia dipende il mio pane; dalla mia lancia il vino ismarico, ed appoggiato alla mia lancia io lo bevo…».

      Di altri vini si registrano caratte­ristiche assurde e stravaganti. Così Teofrasto, nella sua storia delle pian­te, racconta che ad Erea in Arcadia si produceva un vino che causava pazzia negli uomini, mentre metteva incinte le donne che si azzardavano a gustarlo.

      Altro che fecondazione artificiale! E vero che vi era poi un altro vino, il Trezenio, che teneva il posto della moderna pillola antife­condativa, ed uno che faceva aborti­re; anzi pare che bastasse mangiare un grappolo dell’uva con la quale es­so si produceva per ottenere tale ef­fetto. In Tasos, poi, gli abitanti erano persino riusciti a produrre un vino che teneva svegli ed un altro che fa­ceva dormire; e può darsi che, col potere della suggestione, tutto que­sto funzionasse.

Altri  alimenti

      Oltre al pane ed al vino, nel mercato greco del V secolo a.C. si trovava un po’ di tutto. Gli autori greci dell’epoca ce ne danno un accurato elen­co. Diffusissimi erano i legumi, tra i quali molto usati i ceci conosciuti fin dai tempi dell’Iliade; quei ceci che secondo Ateneo erano stati introdotti nel­l’uso addirittura da Posei­done. Essi vengono citati da moltissimi autori e persino dalla ro­mantica Saffo. Si mangiavano nel do­po cena ed oltre ai ceci si mangiavano le fave.

      Vi erano poi molte verdure: la ci­polla, l’eterno cavolo, le rape, il doli­co, la malva, la zucca, che tutti gli scrittori dicevano importata dall’India e della quale esistevano vari tipi.    

      Né si possono dimenticare il cetriolo ed i polloni di varie piante, che venivano raccolti in primavera ed erano chiama­ti asparagi. Tra questi cosiddetti aspa­ragi, erano molto stimati i butti di un cavolo speciale, il cramboasparago, che si ritrovano poi quotatissimi nella cucina romana: le famose cime di ca­volo detestate da Apicio e dal suo ami­co Druso, il figlio di Tiberio. Molto apprezzati erano anche gli amarissimi lampacioni che erano considerati afro­disiaci. Anche i funghi venivano con­sumati, benché si temesse di restarne avvelenati, cosa che del resto accade­va spesso. Vi era poi il cardo, che al­cuni studiosi hanno erroneamente pensato fosse il carciofo, un vegetale che invece non esisteva e che compare sol­tanto nel XV secolo come frutto di una serie di selezioni.    

      Tra le insalate si u­sava la lattuga, la quale, sia coltivata che selvatica, aveva la fama di placare gli ardori amorosi, ragion per cui si cercava di limitare con un antidoto i suoi funesti effetti e la si mischiava spesso con l’eccitante ruchetta; vi era­no poi il crescione ed altre erbe dei campi e degli orti.

      I mercanti ed i grandi viaggiatori provenienti dai paesi lontani portava­no notizie di legumi e verdure esoti­che, sul tipo del cuore di palma, di cui si nutrirono i soldati di Senofonte rica­vandone, pare, notevoli mal di capo: delicatezze, comunque, che si poteva­no consumare soltanto sul posto, men­tre i semi di loto e la colocasia egizia­na dovevano essere reperibili anche sui mercati di Atene e delle altre città greche, come lo furono poi su quelli di Roma.

      Si consumava una grande varietà di frutta: mele, mele granate, pere ed uva, quest’ultima soprattutto sotto for­ma di uva passa, tutti frutti già esisten­ti da tempo immemorabile e citati nel­la descrizione dell’orto di Alcinoo. L’antichità classica apprezzava moltis­simo la frutta secca, sempre disponibi­le.

da “Civiltà da scoprire”: “Gli Etruschi a tavola”

di Umberto Nerucci

      Plinio il Giovane ci ha lasciato una bella descrizione della campagna etrusca: “Prata inde campique, campi quos non nisi ingentes boves et fortissima ara­tra perfrigunt. Perata florida et gemmea trifolium aliasque herbas teneras semper et molles et quasi no­vas alunt” (V, 10). Tutto questo si era realizzato a seguito delle continue opere di bonifica e di irriga­zione attuate dagli aquilices che intervennero effi­cacemente su terreni dalle più varie caratteristiche geologiche. Infatti nella pianura maremmana fu pra­ticato un controllo particolare delle risorse idriche mediante la creazione nei pressi delle case coloni­che di laghi artificiali, questi, dopo essere stati resi impermeabili con un impasto di argilla e calce spenta potevano raccogliere e trattenere le acque piovane dell’inverno che poi venivano fatte defluire nei cam­pi, durante i mesi caldi, con un sistema di canali di coccio, mentre nelle zone collinari della stessa area era stato approntato un sistema diverso di irrigazio­ne simile a quello americano del dry farming.

      L ‘a­gricoltura nella Federazione seguì un costante pro­gresso garantitole da moderni modelli dì sviluppo i quali furono una vera novità nel mondo antico e portarono benessere e ricchezza in quella regione tanto che Varrone definì la Dodecapoli: “Terra pin­gue, di campi ubertosi e di assidua coltura, nonché di altissimi alberi e il tutto senza muffa”, mentre Diodoro Siculo scrisse che: “Gli Etruschi abitava­no una regione incredibilmente fertile la quale op­portunamente coltivata forniva non solo il necessa­rio, ma anche il superfluo per i piaceri e il lusso”.

      I prodotti principali di quelle campagne erano le gra­naglie e fra queste ricordiamo il Triticum Spelta, il T. Vulgare, il T. Turgidum, il T. Sphaerococcum, il T. Dicoccum e l’orzo. Queste semente rendevano dalle dieci alle quindici volte, come asserisce Colu­mella, mentre il reddito usuale nel resto dell’Italia era di appena quattro. Il T. Spelta costituiva il cereale più diffuso nella nostra penisola durante il pe­riodo protostorico, si coltivava facilmente anche in terreni umidi, e da esso derivava il Farro, la zona di Chiusi ne produceva una qualità molto apprezzata (Columella II, 6) detta, appunto, far clusinum che pesava ventisei libbre al moggio, contro le normali venticinque, però non era adatto alla panificazio­ne, dava un macinato con cui si preparava un polenta che, con il nome di puls, rappresentò per tre­cento anni il cibo dei Romani, i quali di solito la consumavano in stoviglie di fattura etrusca: “Po­nebant igitur tusco farrata catino” , (Giovenale XI).  

      La gente di Rasna in seguito cominciò a tostare il farro, pestandolo, in un secondo tempo, dentro un particolare mortaio il cui inventore, un certo “Pilumno”, fu perfino divinizzato, con questa lavorazione si otteneva una farina panificabile con la quale venivano preparate delle focacce che erano facilmen­te digeribili per la parziale destrinizzazione dell’amido contenuto nel T. Spelta causata dal processo di torrefazione. Plinio (XVIII, l0) ci ha tramanda­to le fasi di quell’operazione: “Pistura non omnis facilis quippe et Etruria spicam farris tosti pinsente pilo praeferrato, fistula serrata et stella intus denticulata ut nisi intenti pinsant, coincidantur grana ferroque frangantur” . Nel territorio di Pisa cresceva un’ ottima qualità di T.Spelta e la siligo bianca di questa zona assieme a quella della Campania dava il miglior pane d’Italia. Il basso Val d’Arno era famoso per la segale, l’Etruria circumpadana per il miglio, quella settentrionale per le biade.  

      Gli uomini di Rasna in seguito sostituirono i cereali più rozzi con il grano vero, mentre i Romani continuarono a mangiare puls fino alle guerre puniche tanto era rimasta arretrata la loro agricoltura. Anche se questa si era sviluppata nella nazione dei Lucumoni grazie al contributo delle tecniche degli ingegneri idrau­lici e al lavoro degli agronomi, le genti della cam­pagna restarono sempre legate alle tradizioni, infatti prima di seminare, come ci tramanda Varrone, nel De Re rustica (I, 40), seguivano scrupolosamente i consigli degli aruspici. Una caratteristica dei conta­dini della Dodecapoli era quella di piantare in mo­do tale che il Circio, vento di NO, sfiorasse le colture solo in obliquo in quanto un eventuale im­patto frontale avrebbe compromesso l’intero raccolto.

      Gli Etruschi per molto tempo riuscirono a bilan­ciare saggiamente, all’interno del loro sistema eco­nomico, l’agricoltura con l’industria e così furono evitati squilibri a livello delle classi medie che era­no la struttura portante delle poleis. La terra veni­va lavorata da manodopera libera, gli schiavi suben­trarono come bracciantato intorno al III sec. a.C. con il sopraggiungere della malaria, sempre in quel periodo la borghesia campagnola abbandonò le terre a basso reddito e le subentrò il latifondo con la sua economia agricola estremamente antiquata.

      Uno dei prodotti più celebrati della Duodecim Populi era il vino, Plinio (Hist. Nat. XIV, IV) dice che “…..nes­sun’altra terra più dell’Etruria gode della vite:..” (Etruria nulla magis vite gaudet). Le migliori quali­tà provenivano dall’alto Fiora, dal Chianti, da Or­vieto, da Statonia e Luni (Plinio op. ct. XIV, 24) da Todi e da Firenze (XIV, 36). Pisa era famosa per la Pharia, ad Arezzo cresceva la Talpana che dava con la sua qualità nera un mosto chiaro per cui gli agricoltori etruschi conoscevano la vinificazione in bianco. Un vitigno molto noto era la Tuderna che nella lingua locale si chiamava Florentia (Plinio op. ct. XIV, IV, 3)! Molto apprezzata era la rotondità della dolce Apiana e dei moscatelli in generale, que­sto gusto filtrò anche nelle abitudini degli austeri cit­tadini dell’Urbe per i quali, come ci tramanda Mar­ziale (XIII 10), la puls accompagnata da del vino  amabile costituiva una vera leccornia: “Imbue ple­beias Clusinis pultibus ollas ut satur in vacuis dul­cia musta bibas”.

      L ‘olivo per molto tempo restò una coltura scono­sciuta sia nella nostra penisola che in altre aree del Mediterraneo occidentale, in uno scritto di Fenestel­la risalente ai tempi di Augusto, citato da Plinio (XV, 1 ), si legge che in Italia durante il regno di Tar­quinio Prisco (183° anno di Roma, 571 a.C.) non esistevano oliveti, per cui gli Etruschi importavano l’olio direttamente dalla Grecia; infatti un vaso di epoca arcaica con scritto “aska mi eleivana” (tr. “io sono un orcio per l’olio”) ci ricorda la dipendenza della Dodecapoli dall’Ellade per ciò che concerne­va questo prezioso prodotto che veniva saggiamen­te risparmiato alternandolo con l’estratto di semi di lino e di lentisco, mentre per l’illuminazione erano adoperati la cera, la resina e il sego. In seguito, pe­rò, questa coltura attecchì anche nella Federazione divenendo uno degli elementi che maggiormente ca­ratterizzarono quelle campagne.

      Inoltre gli uomini di Rasna facevano largo uso di ortaggi soprattutto di carciofi, di rape, di aglio, di cipolla, di asparagi, di sedano, apprezzavano gli aromi della menta e del timo che chiamavano «nepeta» e «mutuca». Dal lat­te di pecora veniva preparato il formaggio, il più fa­moso era quello di Luni che poteva pesare fino a trecentoventisette chilogrammi ed era in grado di sfamare, come ci dice Marziale (XIII, 31), quasi un migliaio di persone: “Caseus Etruscae signatur ima­gine Lunae praestabit pueris prandia mille tuis”.

      In quella campagna oltre agli ovini erano allevati anche i maiali che venivano fatti ingrassare d’au­tunno nei querceti in quanto le ghiande rendevano più saporite le carni. Anche la selvaggina ora mol­to richiesta in particolar modo il cinghiale nero: “Cur tuscus aper generosior quam umbro” (Stazio Silv. IV, 6).

      Nelle acque del Tirreno si pescavano anche i tonni il cui passaggio era avvistato da delle poste fisse si­te nei pressi di Porto Ercole e di Populonia. (Stra­bone V, 2). Nel Tevere, il “tuscus amnis” secondo Virgilio (Georg. I, 499-Aen. VIII, 473) viveva il pre­libato “lupus tiberinus”, il luccio. 

      La religione che fu l’elemento di più intima coesione della nazione dei Lucumoni, interveniva attraverso precise prescri­zioni anche nelle abitudini alimentari di quel popo­lo, infatti era vietato mangiare i frutti dei cosiddetti arbores infelices, cioè di quelle piante che per la Etrusca Disciplina costituivano la rappresentazio­ne terrena delle entità degli inferi. Secondo una li­sta tramandataci da Macrobio, derivata da un’ope­ra dall’aruspice Tarquizio (I sec. a.C.), erano proi­biti i fichi scuri, le pere selvatiche, le more e i lam­poni. La mensa della gente di Rasna, oltre a godere dei prodotti di una campagna particolarmente ric­ca e generosa, era caratterizzata da una gastrono­mia estremamente raffinata. Icuochi preparavano le vivande mentre citaredi e suonatori di subulo, il flauto, intonavano le loro musiche, in quanto la gioia di vivere di quel popolo era così intensa da trasparire perfino dalle più comuni attività quotidiane. La tavola veniva imbandita due volte al giorno con grande sfarzo di stoviglie e varietà di cibi. Api­cio nel “De re coquinaria” (VIII 8,1) ci tramanda una delle ricette più famose: “Per preparare un sugo per la lepre, tritare pepe, ligustro, semi di seda­no, intestini di pesce del Tirreno, silfio, il tutto in abbondante aggiunta di vino e olio, lasciarvi mace­rare la lepre, indi bollirla a lungo nell’intingolo do­po averla fatta convenientemente rosolare. Un al­tro piatto tipico di questa cucina erano le tagliatelle la cui preparazione, come vediamo nella tomba dei rilievi di Cerveteri, era identica a quella dei nostri giorni.

      Nell’Urbe si faceva un solo vero pasto al giorno, il pranzo restò sempre una colazione molto frugale che veniva consumata, fredda, in piedi: ” Sine men­sa prandium post quod non sunt lavandae manus” (Seneca, ep. 83,6) e questa abitudine sarebbe rima­sta anche in epoca imperiale allorché la gastrono­mia si fece più raffinata con l’introduzione di piatti ricercati come lo spezzatino con albicocche, il pe­sce con purea di mele cotogne e le varie salse di garum e di muria. Per i Romani le abitudini alimen­tari degli uomini della Dodecapoli erano sinonimo di mollezza e assimilarono l’ etrusco ad una sorta di grassone dedito solo ai piaceri della tavola.

      L’obe­sus etruscus di Catullo (Carmina XXXIX, II) e il pinguis tyrrenus di Virgilio (Georgiche II, 193) so­no immagini falsate dell’uomo di Rasna, create per porre in maggior risalto i pregi della romanità che tanto aveva, invece, attinto dalla civiltà dei Lucu­moni e ci risulta davvero difficile pensare che l’uni­co erede di Romolo in sovrappeso, come certe fon­ti vorrebbero farci credere, sia stato Nerone il qua­le per dimagrire si sottopose ad una ferrea dieta a base di feci di cinghiale stemperate in acqua tiepi­da. Inoltre le caratteristiche dell’obesus etruscus, se­condo una valutazione antropologica coincidereb­bero con quelle di un’etnia euro-asiatica che in epo­che remote si era sovrapposta alle popolazioni locali.

      Questo ventre grosso dell’uomo della Duode­cim Populi potrebbe essere la conseguenza di un’e­patosplenomegalia causata dalla malaria e scambiata erroneamente per adipe in quanto l’associazione del­la malattia con l’addome voluminoso fu un dato ac­quisito soltanto in epoca più tarda con Galeno.

      Co­munque agli Etruschi spetta il merito di aver concepito l’agricoltura in termini straordinariamente moderni mediante selezioni botaniche, opere di bo­nifica e di irrigazione, questo fece sì che i prodotti della  Dodecapoli venissero esportati molto lontano già nel VI sec. a.C. , tanto che le strutture della na­zione dei Lucumoni si configurarono presto con quelle di una economia in piena espansione la qua­le si era consolidata anche per il lavoro svolto nei campi da intere generazioni di agricoltori che ave­vano reso quelle terre non solo ricche, ma addirit­tura più suggestive dal punto di vista paesaggistico tanto che Plinio il Giovane, adoprando delle imma­gini tipiche della filosofia platonica, le identificò in una rappresentazione ideale del bello: “Neque enim terras tibi sed formam aliquam ad eximiam pulchri­tudinem pictam videberis cernere; ea varietate, ea descriptione quoqumque inciderint oculi reficientur” .

 da A. V. N° 1 1988. A tavola con gli Etruschi.

      I prodotti della terra, come è ovvio, hanno avuto certamente una parte notevolissima    nell’alimentazione degli Etruschi: cereali, legumi, ortaggi, dovevano costituire il piatto forte, almeno sulla tavola delle classi meno agiate. Gli Etruschi conoscevano già l’aratro.

      Oltre alle coltivazioni di cereali quali orzo, avena, grano, farro, dall’inizio del VII secolo, iniziò in Etruria la coltivazione intensiva della vite e non molto tempo dopo anche l’olivocultura. Pur essendo in queste zone già noti in forme selvatiche sia la vite sia l’olivo fin dal II millennio a.C., è soltanto ora che la coltivazione si è estesa su larga scala per la produzione di vino e olio, destinati ad essere esportati nel Tirreno via mare in anfore da trasporto, prodotte soprattutto nell’area Vulcente e ceretana.

      Durante il banchetto i servitori preparavano il vino in grandi contenitori dove veniva mescolato con altri ingredienti aromatici; filtrato con colini, veniva poi versato con mestoli nelle brocche e portato in tavola.

da: Cibi e bevande nell’antica Roma

di: Eugenia Salza Prinia Ricotti

Allestimenti spettacolari: animali guarniti come figure mitologiche, dolci come statue. Il vino dei padroni del mondo.

      Nella presentazione del vassoio che si trova nel Satyricon, il trionfo cen­trale, circondato da polla­stre ed altre delicatezze, era costituito da una lepre guarnita di ali in modo da rappresentare Pegaso, il mitologico cavallo alato. Attorno a questa parte centrale vi era poi una ca­naletta, nella quale erano stati collocati pesci che sembrava nuotassero nella salsa. Una presentazione barocca, fantastica, ma affascinante, probabilmente simile a quella che nella realtà veniva disposta nel vassoio di Oplontis.

      Altri allestimenti spettacolari con­sistevano nel portare a tavola animali cucinati interi: grossi pesci, cinghiali, maiali e persino vitelli. Dato che la gente mangiava con le dita e non ave­va posate, essi andavano tagliati a pez­zi di dimensioni possibili. Per questo esistevano gli scalchi, servitori che se­guivano speciali scuole, come quella tenuta alla Suburra da un tal Trifero. Era da lui che essi venivano addestrati su come tagliare in modo perfetto e ra­pido qualsiasi arrosto. Travestiti a vol­te da personaggi mitologici, venivano al seguito del vassoio e si scagliavano sull’animale da affettare come se fosse un pericoloso nemico, facendo dell’o­perazione di dividerlo in pezzi uno spettacolo di varietà.

      Ormai qualsiasi portata veniva pre­sentata con molta ricercatezza. Anche i pasticceri ricorrevano a presentazioni spettacolari per i loro dolci. Nel ban­chetto di Trimalcione il dessert è addi­rittura una statua di pasta dolce, rap­presentante Priapo mentre sorregge nel grembo della veste ogni genere di frutta: un tipo questo molto frequente nella statuaria. Tutto ciò naturalmente non era limitato al banchetto di Tri­malcione. Anche se in esso tutto è for­zato e caricaturato per poter far ridere il lettore, il tipo di presentazione dei cibi doveva comunque esser simile a quello descritto da Petronio, e queste portate dovevano far parte di molti banchetti compreso quello imperiale.

      Ormai in tutte le case, quando si offri­va una cena, si seguiva il tipico sche­ma del banchetto romano che partiva dalle uova sode, passava attraverso gli antipasti più complicati, gli arrosti più saporiti ed approdava infine ai dolci, alla frutta ai fiori ed ai profumi distri­buiti durante il simposio.

      Questo speciale tipo di dopocena ha sempre fatto parte di tutti i banchet­ti dell’antichità. Con diverse forme, naturalmente. A Roma era molto più morigerato di quello dell’epoca d’oro greca. 

      Ma questo era da prevedersi, in quanto ai banchetti romani, a diffe­renza di quelli greci, partecipavano spesso mogli e figlie dei convitati e quindi bisognava comportarsi bene. Lo spettacolo più spinto che poteva a­ver luogo nella riunione romana era quello che veniva offerto dalle balle­rine gaditane, graziose fanciulle spa­gnole che danzavano agitando i fian­chi a suon di nacchere, mentre attor­no a loro tutti battevano ritmicamen­te le mani, più o meno come si fa an­cor oggi in Andalusia. Anche se ogni tanto qualche poeta le criticava, trovandole troppo spinte, non sembra che le povere figliole offrissero ragio­ne di scandalo e, infatti, pare che molti mariti vi assistessero con a fianco le proprie spose.

      Per il resto si chiacchierava e si be­veva secondo uno speciale cerimonia­le. I vini che venivano serviti erano ormai squisiti. I Romani potevano permetterselo, perché erano senza di­scussione i padroni del mondo. I mi­gliori erano sempre quelli che si im­portavano dalla Grecia, ma anche in Italia se ne producevano di eccellenti. Li elencano i poeti, quando descrivo­no i lunghi dopocena romani. Anche a Roma, come ad Atene, si eleggeva uno dei convitati che dirigesse il sim­posio: in latino egli veniva chiamato magister bibendi, ossia «direttore del bere», e dava disposizioni sul come si dovesse preparare la mistura di vino ed acqua decidendo poi a chi biso­gnasse brindare.

      Ciò voleva anche dire che egli fi­niva con lo stabilire quanto si doves­se bere: infatti, quando i Romani brindavano alla salute di qualcuno, tracannavano tante coppette quante e­rano le lettere che componevano il nome del festeggiato; ed i nomi ro­mani erano particolarmente lunghi. Grazie al cielo, il vino era solitamen­te molto diluito: si usava mettere tre parti di acqua per una di vino. 

      D’in­verno, come abbiamo visto, si ag­giungeva acqua bollente e a volte, per averla sempre pronta, si usavano inte­ressanti bollitori, che funzionavano con lo stesso sistema dei samovar russi: uno molto bello si trova nel­l’Antiquarium di Pompei. D’estate il vino veniva invece allungato con la neve, raccolta d’inverno sulle cime dei monti ed immagazzinata in depositi sotterranei dove, coperta di paglia, si conservava per tutta l’estate.

      I più belli fra tali depositi sono quelli principeschi di Villa Adriana, che, scavati nel tufo, sono costituiti da una serie di gallerie poste ai lati di un canale di servizio. Questo ha un fondo a sezione concava ed un’inclinazione verso settentrione necessaria per il de­flusso dell’acqua di fusione. La neve, una volta immagazzinata e ben stivata nei bracci laterali, veniva sigillata con paglia e fieno. Dato che si intaccava un braccio per volta, gli altri lasciati chiusi ed intatti potevano durare mol­tissimo, soprattutto perché l’intonaco, che rivestiva questi speciali depositi, era leggerissimo, e formava una sorta di enorme thermos nel quale la neve si conservava bene.

      Nell’antica Roma se ne usava mol­ta: essa serviva per preparare speciali piatti ghiacciati; per confezionare sor­betti e, quando d’estate il sole faceva riscaldare l’acqua nelle piscine delle terme, era sempre con la neve che la si faceva freddare. Ma l’uso più diffuso era, come sempre, quello di far gelare le bibite durante il periodo caldo. In quella stagione non c’era triclinio e ce­na elegante che ne facessero a meno e con vino ghiacciato si chiudeva il ban­chetto estivo. Era quasi sempre buio quando i convitati, sazi e leggermente brilli, sa­lutavano il loro ospite. Quasi sempre la cena prendeva fine al tramonto; ma quando ci si avviava al tetto domestico si aveva spesso bisogno di torce o di lanterne e, quando non si era ricchi ed accompagnati da forti ed atletici schia­vi, bisognava pregare tutti gli dei di esser salvati dai cattivi incontri: le strade erano piene di banditi e di risso­si ubriaconi. Era fortunato colui che riusciva ad arrivare sano e salvo al proprio letto. A volte però era proprio a casa che iniziava la battaglia. Qui, ad attendere l’amato compagno, vi era spesso una moglie od un’amante: co­munque una donna amareggiata, che si sentiva offesa e che pensava di esser stata abbandonata e trascurata.

      I bellissimi versi di Properzio, che rientrando dopo una cena vede la sua bella ancora addormentata mentre giace sul letto illuminata dalla luce della lu­na, inondano di poesia la fine del suo banchetto. E la scena che scoppia subi­to dopo il risveglio della dolce creatura non riesce a sciogliere l’incantesimo: l’amata è troppo bella e l’ira contribui­sce soltanto a renderla più desiderabile. Ma questa scena ci dice pure che, anche se le grandi dame e le imperatrici romane partecipavano con gli uomini ai banchetti e si sdraiavano sui letti tricli­niari, non a tutte era consentito di segui­re il loro esempio. Anche in epoca impe­riale il romano medio preferiva, come Properzio, lasciare a casa la sua donna e limitava la disturbatrice presenza fem­minile alle riunioni con gente seria e per bene. Parenti stretti possibilmente, cene di tutto riposo: insomma, quelle nelle quali non si beveva troppo e si era sicuri di non dover fare a pugni per difendere l’onore della propria consorte.

      Ecco, quindi, quel magnifico spettacolo che fu la cena romana con tutti i lussi più raffinati che i Romani avevano importato dalla Grecia, dall’Egitto e dall’Oriente; e tutte le usanze ed i costumi che ave­vano assorbiti ed elaborati: un tipo di banchetto che con essi si diffuse poi fino agli estremi confini del loro impero.

      Certamente, come si diceva al principio, l’estendersi del potere centrale avrà anche potuto togliere varietà alla vita conviviale del mon­do dell’epoca; ma chi se ne poteva lamentare? Con i Romani la cena, questa parte così fondamentale del­l’antica vita sociale, aveva preso un carattere speciale, estremamente in­teressante ed importante; ed essa re­stò in uso con pochi cambiamenti fi­no alla fine dell’impero. Forse durò addirittura fino a quando, con l’arri­vo del medioevo e la scomparsa dei letti tricliniari, la gente si sedette at­torno a lunghe tavole ed iniziarono i digiuni e le penitenze. Con la fine di Roma, anche il mondo brillante ed edonistico dell’antichità era, almeno apparentemente, finito.

dal libro “Vita quotidiana degli Etruschi” 

di Jacques Heurgon

      “……………l’Etruria produceva cereali a sufficienza da poterne esportare neipaesi vicini; nel V secolo, Roma che soffriva di carestia, ri­corse più volte ai depositi rigurgitanti nei magazzini dell’Etru­ria marittima e tiberina,  come ricordano i testi che parlano dei grandi convogli discendenti il corso del fiume. La lista del 205 rammenta anche il frumento di Cere, Rusellae, Volterra e so­prattutto di Chiusi, Perugia ed Arezzo; nell’epoca classica è an­cora all’interno, a Chiusi e ad Arezzo, che troviamo i granai dell’Etruria più ricchi per quantità e per qualità.

      Si vantavano i raccolti miracolosi di questi Tusci campi, che davano un pro­dotto di quindici volte la semente, il rendimento del farro di Chiusi (far Clusinum), farro che raggiungeva le ventisei libbre, per moggio, e il candore della sua farina ( candoris nitidi), di cui Ovidio consigliò una volta alle sue lettrici l’uso come polvere per il viso, ma che nell’attesa serviva al popolo minuto, per fare quelle focacce (clusinae pultes) che hanno costituito per moltissimo tempo il nutrimento principale degli Etruschi e degli Italici.

      Chiusi ed Arezzo erano famose anche per il loro grano tenero, la siligo, che si usava nella confezione del pane fine. Questo frumento di prima qualità faceva altresì la repu­tazione di Pisa, che non era meno rinomata per quella che noi, chiameremmo la sua pasta, fabbricata con una specie di semola (alica) mescolata con vino e miele. Quanto alla Gallia Cisalpina essa era particolarmente atta alla coltura del miglio.

La vigna e gli alberi

      Anche sui vini siamo informati esaurientemente. Dall’epoca di Alessandro i vini etruschi erano noti in Grecia. Dionisio di Alicarnasso li raccomanda in generale alla pari del Falerno e di quelli dei colli romani, lo spagnolo Marziale riconosce che valgono quelli di Tarragona, mentre altri autori precisano che il migliore prodotto è quello di Luni, ai confini della Liguria. Le vigne di Graviscae, nonostante la malaria che esalavano i miasmi dei dintorni e quelle di Statonia sulle colline dell’alto Fiora, davano un vino eccellente. Ma il territorio di Veio non produceva, con grande pregiudizio degli stomaci di Orazio, Per­sio e Marziale che un vinello rosato dalla feccia spessa e gradito soltanto alla borsa degli anfitrioni avari. Nella Gallia Cisal­pina si celebravano i vini di Adria, di Cesena e un Maecena­tianum, prodotto certamente in qualche proprietà di Mecenate.

      Queste erano le qualità universalmente apprezzate. Ci interessa anche di sapere che gli Etruschi, per loro, preferivano alcune qualità di moscato, del cui sapore dolce, si diceva, erano ghiotte le api (apes), per cui si chiamavano Apianae: etimologia, poe­tica, perché questo nome derivava probabilmente da quello di qualche produttore ( Appius, con semplificazione etrusca dell’oc­clusiva: si conosce a Firenze un Aviles Apianas=AuloAppia­no). In ogni caso questo vino dolce, che dava alla testa, è quel­lo di cui si ubbriacano i banchettanti sui nostri dipinti.

      Altri ceppi locali annunciano i futuri Chianti e Orvieto; a Todi, al confine umbro, il tudernis, ad Arezzo il talpona ( che ricorda il gentilizio Talpius, Talponius). Tutte queste varietà denotano una lunga esperienza della tecnica viticola, una vecchia pratica dell’innesto per la creazione di ibridi, una costituzione metodica dei vigneti con la sovrapposizione di viticci diversi. Plinio ci parla di un viticcio detto murgentina, introdotto dalla Sicilia in Campania, dove prese il nome di pompeiana, che poi prosperò particolarmente sul suolo fertile delle colline di Chiusi. Ma se questo viticcio è stato importato recentemente, non si vorrà cre­dere che sia stato il gusto del suo vino ad ispirare ai Galli, atti­rati da Arruns di Chiusi, il desiderio di invadere l’Italia.

      Abbiamo visto che la specialità di Tarquinia, alla fine del III secolo, era la coltura del lino e la tessitura della tela da vele Plinio non ne parla più. Sembra che l’ industria tessile sia stata una tradizione del paese dei Falisci: i poeti abbigliavano i loro eroi leggendari con tuniche di lino fluttuanti, denunziate dai Romani come segno di rilassatezza, e gli Etruschi ancora sotto Augusto mantenevano il primo posto per la manifattura delle reti da caccia «tanto solide che resistevano alla lama più taglien­te, sottili che potevano passare in un sol pezzo attraverso un anello e leggere che un solo portatore ne portava facilmente sulle spalle un numero sufficiente da coprire un bosco».

      Cosa curiosa, l’ulivo, il colore verde argento alla Corot del quale sembra essere quello della Toscana moderna, doveva es­sere meno diffuso nell’Etruria antica. La coltivazione dell’ulivo era ancora ignota in Italia ai tempi di Tarquinio Prisco, e se, nel II secolo, Catone descrive con amore un uliveto nella re­gione del Venafro, al confine nord-est della Campania, nessuna allusione antica rivela, salvo errore, che ve ne fossero di simili in Etruria.

      Ciò non vuol dire che gli Etruschi non faces­sero un consumo abbondante di olio, del quale avevano molto presto appreso il nome dai Greci, come dal canto loro fecero i Latini; una delle iscrizioni etrusche più antiche, incisa su un recipiente di argilla, porta il nome di aska eleivana, cioè vaso ( askos ) da olio ( elaion ). Quest’olio però era stato importato dall’Attica nelle numerosissime anfore che si trovavano sparse nei cimiteri di Cere e di Spina.

      Nell’epoca in cui Varrone, in un elogio entusiastico dell’Ita­lia, dichiarava che essa era «dovunque piantata d’alberi al pun­to da sembrare un solo frutteto di estensione illimitata», dob­biamo ritenere che il territorio etrusco non facesse eccezione alla regola. E’ necessario, però, non dimenticare che la maggior parte dei nostri frutti e dei nostri legumi erano sconosciuti nell’Italia primitiva, dove sono stati importati nel corso dei secoli con le raffinatezze dell’Oriente. Non per nulla Virgilio, nel quarto libro delle Georgiche, affida il giardino dei suoi sogni ad un orticol­tore da poco sbarcato dalla Cilicia.

      Vi fu un’epoca in cui le ciliegie passavano per un frutto esotico, importato dal Ponto nel 73 dal riccone Lucullo dopo la sua vittoria su Mitridate, e i limoni, nel paese «in cui fioriscono i limoni», erano un medicamento utilizzato come contravveleno o per dare un alito grade­vole. Irapporti degli Etruschi con Cartagine dove l’agricoltura era perfezionata, il gran numero di schiavi orientali che entra­vano nelle loro familiae, avevano loro permesso di sorpassare i Romani. Basta sfogliare il Lexique des termes de Botanique en latin di Jacques André per vedere che il citron (limone) o cé­drat deriva il suo nome da una lingua nonindoeuropea con la mediazione dell’etrusco, e che, fra le varietà delle ciliegie ve n’era una dai frutti più rossi, il cerasum apronianum, il cui crea­tore, un certo Apronio, era certamente originario delle parti di Perugia.

      Pertanto, quando gli agronomi antichi enumerano la frutta più succulenta della penisola, citano le mele di Ameria, le pere di Taranto, i fichi di Ercolano, le mandorle di Preneste:  l’Etruria manca nel catalogo, mentre Ovidio dice solamente che il paese falisco era ricco di frutteti.   

      Lo stesso è per i legumi: tutti vantavano i porri di Ariccia, le rape di Nursia, le cipolle di Tuscolo, gli asparagi di Ravenna: uno strano silenzio regna invece sugli orti etruschi. Anche il cavolo, che ispirò a Catone un ditirambo straordinario, il ca­volo, delizia dei gastronomi e panacea universale, il cavolo, me­dicina delle ulceri e della malinconia, che suscitava, per produrne specie ricciute, tenere, a testa grossa, dal sapore piccante, cavol­fiori e cavoli rape, l’emulazione di tutte le città d’Italia, Ariccia, Ardea, Tivoli, Signa (Segni), Capua, Caudium (Montesarchio) ecc., anche il cavolo lasciava l’Etruria del tutto indifferente alla competizione. Segno che i latifundia della costa non avevano in­coraggiato lo sviluppo delle colture della frutta e degli ortaggi e che le piane dell’interno erano consacrate per intero ai cereali e alla vigna……………”

dalle riviste “Archeo”e “Archeologia Viva”

Note varie di cucina

“La scoperta del vino”, di Carlo Zaccagnini.

      L’annuncio è di poche settimane fa: analisi ai raggi infrarossi effettuati nei laboratori dell’università della Pensylvania su giare e otri provenienti dal sito di Godin Tepe, nell’Iran Occidentale, hanno rivelato tracce di acido tartarico.

      Ciò rappresenta un sicuro indizio che gli antichi recipienti fossero colmi di vino: i reperti ceramici risalirebbero al 3500 a.C. ed a tale data potrebbe comunque fissarsi la più antica esperienza di vinificazione, che gli studiosi americani non esitano ad attribuire ai Sumeri. In attesa di conoscere in dettaglio i risultati delle analisi e la precisa collocazione stratigrafica dei contenitori esaminati, è possibile sin d’ora avanzare qualche nota di commento.

      L’acido tartarico non è contenuto solo nell’uva: in questo caso, ed in considerazione anche della forma dei manufatti ceramici, è comunque ragionevole ritenere che esso derivi da uva fermentata piuttosto che da altri prodotti ortofrutticoli. La zona dell’antico sito di Godin Tepe risponde perfettamente ai requisiti geo-climatici indispensabili per la viticoltura, a differenza della pianura mesopotamica, dove non si dà coltivazione di vite e dove il vino è sempre un prodotto di importazione da zone più o meno distanti.

      I Sumeri conoscevano però la vite e la bevanda fermentata da essa prodotta: ne fa fede la presenza, tutt’altro che sporadica, del segno geshtin (che rappresenta una foglia di vite appesa ad un arbusto) nelle tavolette cuneiformi arcaiche, risalenti almeno alla metà del III millennio.

“In vino veritas”, di Sergio Rinaldi Tufi.

……………. In Oriente, per esempio in Mesopotamia, il vino rimane un prodotto raro e costoso in confronto con la preponderante popolarità della birra.

      In Grecia è, ovviamente, ben noto; ma il suo uso, nel rito o nel simposio (si tratta di due fenomeni ben distinti) è in genere ben controllato, per non dire limitato.

      Nella commedia classica, si può dire che sia rara la presenza di personaggi ubriachi; nella ceramica attica, si conosce un solo caso (una coppa conservata a Londra) di raffigurazione di banchetto degli dei.

      Anche nella raffigurazione omerica, di vino si parla poco: se ne parla, per meglio dire, in casi drammatici, sanguinosi, estremi (partenza da Troia; uccisione di Agamennone; episodio di Poliremo). Nelle abitudini greche, inoltre, il vino è sempre misto ad acqua; solo gli schiavi, i barbari o gli dei devono vino puro……………..

“Il vino in Cina” di Massimo Baistrocchi

……………….il vino ha una grande importanza nell’evoluzione e nello sviluppo dell’arte cinese del bronzo. Un’antica leggenda riporta che “inventore” del vino sarebbe stato Yi Din.

      In realtà, tutte le popolazioni primitive apprendono, ad un certo stadio della loro evoluzione, che è possibile ottenere una bevanda inebriante, con un processo naturale, dalla macerazione di granaglie e di frutta. Ben presto l’uomo, con lo sviluppo delle sua conoscenze, ha imparato a produrre artificialmente questa fermentazione per poter sfruttare le caratteristiche “tossiche” del vino, vale a dire il suo potere inebriante: un mezzo per accedere ad una “dimensione” diversa, soprannaturale, per contattare ed entrare in simbiosi con la divinità e gli antenati. I più antichi resti di vino sino ad oggi scoperti in Cina risalgono a circa il I millennio a.C.

      Essi sono stati trovati in una tomba a LousHan, nella provincia dello Henan, risalenti alla dinastia Shang. Il vino era conservato in uno zun di bronzo sigillato. Esami al carbonio 14 di alcuni materiali contenuti nella tomba indicano che la sepoltura è antica di 3.200 anni. Inoltre nel 1974 sono stati scoperti, in una tomba principesca a Pingshan, nella provincia dello Hebei, altri due grandi vasi sigillati di bronzo risalenti alla dinastia Han occidentale (206 a.C. – 24 d.C.): uno di essi conteneva ancora i resti viscosi di vino che, nonostante siano trascorsi da allora duemila anni, hanno ancora un aroma alcolico!

      L’esame dei depositi trovati sul fondo dei vasi ci permette di sapere che il vino era stato ottenuto facendo fermentare una mistura di miglio e riso. Anche in un fang yi (vaso per la conservazione del vino) della collezione Hardy di Hong Kong sono stati rinvenuti residui completamente solidificati di una sorta di idromele, che conferma la formula di una mistura di granaglie su una base di riso………….

……………………..Tra i manufatti in bronzo di Zhengzhou, meritano particolare at­tenzione alcuni splendidi ding (vasi per cottura e offerta di cibo) rinve­nuti nel sito denominato Duling. Il pi(j interessante di questi ha forma rettangolare, misura circa I m di al­tezza e pesa 82 kg. L ‘imponenza del vaso e la grande qualità della sua or­namentazione (maschere e figure zoomorfe, borchie e vari altri motivi decorativi) sono la dimostrazione dell’ alto livello raggiunto nell’ arte e nelle tecniche di fusione, oltre che nella lavorazione del metallo, da parte degli antichi fabbri cinesi.

      Altri oggetti appartenenti alla fase antica della dinastia Shang sono ov­viamente i variatissirni vasi rituali in bronzo, da quelli per la cottura dei cibi (ding, li) ai contenitori per cibo (gui), da quelli per vino (jue, gu, jia, you, lei) a quelli per acqua (pan, he).

      Tutti questi oggetti, se venivano utilizzati in cerimonie religiose ed in particolari festività civili, come anche in ban­chetti e per doni ai re e ai principi di regni vici­ni o alleati, erano soprat­tutto oggetti collegati coni riti di inumazione propri di una società aristocratica che fondava il suo potere e la sua sopravvivenza sulla schiavitù.

      Rispetto al periodo precedente, si nota un notevole sviluppo nelle tecniche di fusione e di fabbricazione dei vasi. Spesso negli oggetti si riconoscono ancora tracce di saldatura, specie sui fian­chi, il che conferma ulterior­mente l’ uso della tecnica di fondere i singoli pezzi sepa­ratamente in stampi e poi di assemblarli.

“Il vino dei romani”

……………….. Poi ci saranno gli asparagi di montagna, raccolti dalle contadine quando smettono di filare la lana, e grandi uova ancora tiepide del loro fieno, con le galline che le hanno fatte. Inoltre grappoli d’uva conservati per molti mesi come erano sul tralcio, pere di Segni e pere dell’Oriente. In più, dalle stesse ceste, mele dal profumo purissimo.

      L’ unica bevanda alcolica in uso era il vino: lo si profumava con miele e foglie di rosa, viola e cedro, cannella e zafferano; e lo si beveva caldo con acqua. I condimenti erano molto diversi dai nostri, perché i Romani mischiavano abitualmente i sapori aspri con quelli dolci: la carne poteva essere condita con il miele, il pesce con la frutta, i dolci con il pepe.

      Frequenti risultano le salse di pesce, tra cui il celebre garum, I dolci erano assai raffinati; e i cuochi romani si sbizzarrivano nelle forme, portando in tavola (ce lo racconta Petronio nella cena di Trimalcione) tordi fatti di segala, frutti di mare fatti di mele cotogne, e simili.

“Cucina nell’antico Egitto”   di Edda Bresciani

……………………………Si consumavano grassi vegetali (olio d’oliva, di sesamo) e animali, mentre anche il latte aveva le sue applicazioni in cucina sia come coibente nella cottura sia sotto forma di una specie di burro, o come formaggio. Spezie ed erbe aromatiche come il cumino o il timo, benché conosciute come piante nell’Egitto faraonico, non sembra che abbiano avuto una utilizzazione in gastronomia, ma solo in medicina.

      L ‘equilibrio dietetico era integrato con bevande, come la birra (insieme con l’acqua fresca, era la bevanda egiziana preferita, apprezzata dai vivi e augurata per il benessere della vita futura), preparata con la fermentazione di farina d’orzo impastata, imperfettamente cotta, fermentata con malto, insieme con acqua e con l’aggiunta di datteri, poi filtrata; e come il vino d’uva, prodotto nei vigneti del Delta, in quelli del Sud del paese, ed anche delle oasi che si allineano nel deserto libico parallelamente alla valle del Nilo, ma anche importato dalla Siria.

       Le anfore vinarie che numerosissime sono state rinvenute nei siti archeologici faraonici portano di regola, scritta sulla superficie del recipiente, l’indicazione del vigneto e spesso del vignaiolo responsabile, oltre all’anno regio di produzione: una vera e propria etichetta di denominazione d’ origine controllata!

      Si conoscevano anche altre bevande, più o meno alcoliche e ottenute sempre con la fermentazione di bacche vegetali o di frutti: la più nota è lo scedeh, che veniva bevuto con riprovevole intemperanza dai giovinotti dissipati che frequentavano le case di piacere nell’Egitto ramesside.

      «Pane e birra, bovini e volatili» erano gli alimenti che – con l’augurio di averne a migliaia! – le preghiere per le offerte cercavano di assicurare anche per i defunti, poiché le credenze escatologiche egiziane antiche prevedevano la continuazione della vita post mortem affidata all’assunzione, come durante la vita sulla terra, di cibi e di bevande: ecco quindi la ripetitività ossessiva delle domande di offerta per i morti, le raffigurazioni del defunto come commensale seduto davanti a tavole coperte con ogni sorta di cibarie, ecco la deposizione, nelle tombe stesse, di alimenti pronti per essere miracolosamente consumati per tutta l’eternità………….

“Cucina nell’antica Mesopotamia” di Claudio Saporetti

…………………………….Nell’intimità delle loro case, commercianti, artigiani e contadini avevano certo un menu un po’ più vario: al pane potevano aggiungere la verdura, come le leguminose, radici commestibili, aglio e cipolle, pennuti da cortile o catturati con le reti, latte, pesci e frutta, come i fichi e tanti datteri. Il sesamo dava l’olio, e si dolcificava con il miele. Anche se non mancava il vino, importato dall’estero, la bevanda fondamentale era la birra, prodotta in cento qualità differenti.

      Era bevuta in grandi bicchieri di terracotta o metallici, oppure direttamente da un otre, per mezzo di lunghe canne, come ci testimoniano varie impronte di sigilli antichissimi: pare che fosse un modo per evitare di ingoiare i grani di orzo che galleggiavano nel liquido. Sembra davvero che la birra fosse indispensabile in ogni pasto. Sono, a questo proposito, molto indicative le prime frasi di una simpatica favoletta, chiamata “Il Poveruomo di Nippur”, che descrivono la situazione di un poveraccio privo di pane, di birra e di carne.

      Probabilmente dando in cambio i suoi vestiti, costui riesce ad acquistare una vecchia capra da mangiare. Ma si accorge che non può cucinarsela: «Ti pare che macelli la capra a casa mia? – dice – ­Tutt’altro! Non sarò io a mangiarla! Non ho nemmeno la birra. E poi i miei vicini mi sentirebbero e si adirerebbero, ed anche i parenti ed i famigliari si adirerebbero con me!».

      È un soliloquio molto indicativo: pare davvero che senza birra  non si potesse mangiare.

“Cucina presso gli antichi Cristiani” di Fabrizio Bisconti

……………………….. anche i cibi base che i Cristiani devono consumare: innanzi tutto il pane, che è alla portata di tutte le borse, e il pesce arrostito, in memoria del miracolo della moltiplicazione.

      Ci si doveva guardare da tutti quegli alimenti che stuzzicavano l’appetito, ma era permesso far uso di cipolle, olive, legumi, latte, formaggio e di vivande cotte, ma senza salse.

      Il vino doveva essere bevuto con moderazione: S. Paolo raccomanda il vino a Timoteo, ma solo come medicina; il piacere del vino – scrive S. Giovanni Crisostomo (IV sec.) – non è male o peccato, mentre lo sono l’intemperanza e l’ubriachezza; S. Basilio Magno (IV sec.) ricorda che il vino è dono di Dio e deve essere usato convenientemente. In sintonia con il costume di allora il vino veniva usato in miscela con acqua: berlo puro – come sentenzia ancora S. Giovanni Crisostomo – ­era sinonimo di ubriachezza.

      Non mancarono taluni movimenti rigoristi che proibirono l’uso del vino, in quanto considerato opera diabolica, e per questo vennero ironicamente definiti aquarii…….

“Cucina presso l’antica Cartagine” di Sandro Filippo Bondi

……………………………Abbondanti erano i melograni (che vari autori latini chiamano significativamente “mele puniche”), le mandorle, le noci e le pe­re, nonché i datteri, le cui palme sono spesso rappre­sentate sulle monete e sugli ex-voto di Cartagine. Quanto ai fichi, chi non ri­corda che proprio mostran­do in Senato alcuni di que­sti frutti provenienti da Cartagine e ancora freschi, Catone convinse i Romani della pericolosa prosperità e vicinanza dell’avversaria? 

      Nell’agricoltura, e dunque nelle abitudini alimentari, di Cartagine un ruolo di as­soluta preminenza aveva la vite, impiegata sia per la produzione di vino sia per quella di uva da tavola. Le rappresentazioni figurate sulle stele ci assicurano del­la diffusione dell’uva sulle mense dei Cartaginesi e, quanto al vino, si sa per certo che essi ne bevevano volentieri, indulgendo al consumo in maniera anche eccessiva, se è vero che, a credere alle parole di Plato­ne, si era dovuta promulga­re a Cartagine una legge che vietava di bere vino a varie categorie di abitanti, dalle più modeste (schiavi, solda­ti) a quelle investite di mag­giori responsabilità (giudi­ci, magistrati pubblici in ca­rica, nocchieri).

      La qualità del vino da tavo­la cartaginese non doveva però essere propriamente eccellente, a giudicare dal­l’ affermazione di Plinio, se­condo cui i Cartaginesi era­no noti per usare la pece per le loro case e la calce per i loro vini. Una sola qualità di vino incontrò favore anche al di fuori del mondo punico: era il passum, rica­vato da uva secca secondo un procedimento che l’agronomo cartaginese Magone illustrava dettagliata­mente.

      Quanto ai condimenti, il prodotto più usato (come è sempre accaduto nei paesi mediterranei) era l’olio di oliva, sia d’importazione si­ciliana, sia di produzione locale; vale la pena di nota­re in proposito che proprio le genti fenicie introdusse­ro in Nord Africa l’oleicol­tura, apparentemente non praticata dagl’indigeni nel periodo precedente alla fondazione di Cartagine.

      Sembra comunque che i Cartaginesi facessero un uso smodato anche dell’a­glio, come attesta ancora Plauto, che definisce un personaggio del suo Poenu­lus «più pieno d’aglio e d’u­piglio

[una varietà locale di aglio]

dei rematori roma­ni».

      Seguendo l’ordine dei no­stri pranzi di oggi, l’ultima notazione va riservata ai desserts: sulla tavola dei Cartaginesi dovevano esse­re serviti soprattutto dolci a base di farina, come quel tipo di torta dall’indicativo nome di «punica» che fu conosciuto anche fuori del­l’ Africa e che, come testi­monia il latino Festo Avie­no, «era chiamato probum [“squisito”] perché più di ogni altro gradevole». E forse proprio a guarnire ci­bi di questo genere erano destinati i cosiddetti «stam­pi per focacce» in terracot­ta, decorati con motivi geo­metrici o animali e ritrova­ti in grande quantità in tut­te le regioni di cultura pu­nica.

      I Cartaginesi ebbero nel­l’antichità fama di persone austere e, come diceva lo storico greco Plutarco, osti­li ai piaceri. Ma, immagina­ti di fronte alle mense im­bandite dei ricchi prodotti della loro terra, essi acqui­stano ai nostri occhi un aspetto meno arcigno e se­vero di quello con cui, sot­tolineandone l’avidità nei commerci e la durezza in guerra, li vollero dipingere gli antichi scrittori, tratteg­giandone il carattere con quel tanto di pregiudizio che spesso si accompagna alla considerazione di una civiltà diversa e, oltretutto, nemica e sconfitta………

“Cucina presso gli Etruschi” di Giuseppe Sassatelli

……………………. I banchettanti, generalmente in coppia e semisdraiati su letti triclinia­ri, sono provvisti di coppe per bere il vino.

      Quest’ulti­mo viene preparato all’in­terno di grandi vasi conte­nitori da servi, che poi lo prelevano con mestoli e lo filtrano con un apposito co­lino. Imestoli, spesso in nu­mero di due e di diversa grandezza, probabilmente costituivano anche delle unità di misura, mentre l’u­tilizzo del colino si spiega col fatto che al vino veniva­no aggiunte spezie o altri in­gredienti solidi, per cui era necessario filtrarlo.

      Dopo tale operazione il vino veni­va versato nelle brocche, portato in tavola e servito ai commensali, che lo beveva­no nelle loro coppe. Questo ciclo costituisce una sequenza quasi rituale nel­le pitture di Tarquinia e di Chiusi. E anche in quelle aree dove mancano le tom­be a camera e non ci sono pitture (come ad esempio nell’Etruria padana), l’allu­sione al banchetto e al vino avviene attraverso la depo­sizione nella tomba degli utensili che servivano a que­ste operazioni: un grande vaso contenitore, due me­stoli e un colino, le brocche per servirlo e le coppe per berlo.

      Sia attraverso le pit­ture che attraverso il servi­zio di mensa deposto accan­to al defunto, si allude es­senzialmente al consumo del vino. Questa insistenza sta a significare prima di tutto che il momento evoca­to, più che un banchetto nel vero senso della parola, è in realtà un simposio, cioè la riunione conviviale (o quel­la parte delle riunioni con­viviali) in cui ci si limitava all’uso di questa bevanda……………..

“A tavola con i Romani” di Anna Maria Liberati

………………………  IRomani coltivavano il fru­mento (triticum), il farro (far), l’orzo (hordeum), il lupino (/upi­nus), la fava (faba), il fagiolo (pha­se/us), il trifoglio (cytisus), il lino linum), la canapa (cannabis), l’er­ba medica (herba medica), ed inol­tre ortaggi (olera) come la cipolla (cepa), l’aglio (allium), il porro (porrus), e l’asparago (asparagus).

      Numerosi erano i frutteti, dove ve­nivano particolarmente curati tutti gli alberi che conosciamo anche noi, meno gli agrumi e il cachi. Grande cura si aveva inoltre della vite, disposta in filari o unita all’ olmo e ad altri alberi.

      La preparazione del vino era simile alla nostra: staccati con un (falcetto «falcula vineatica), i grap­poli di uva (racemi) venivano rac­colti in appositi canestri (corbulae) da dove erano poi scaricati in cesti più grandi e quindi posti sui carri.

      L ‘uva era pigiata in appositi tini (lacus- labra) e le vinacce (vinacea) erano poi messe nel torchio (torcu­lar). Il mosto (mostum), versato in vasi di terracotta coperti di pece all’esterno, si lasciava fermentare e poi si travasava in anfore di argilla, chiuse con sughero e pece. Su ques­te anfore si scriveva il nome dei consoli in carica quell’anno, sistem­a questo che serviva ad indicare l’età del vino.

      Ciò che era prodotto con la fatica dell ‘uomo era poi natural­mente gustato a tavola.

Il pane anche allora era l’ele­mento principe dell’alimentazione; poteva essere di frumento o di farro e di diverse qualità: dal pane bianco, di lusso (panis candidus), a quello, sempre bianco, ma meno pregiato (panis secundarius), fino al pane nero (panis militaris e plebeius).

      Non essendo conosciuti thè, caffè, o liquori, l’unica bevanda era il vino. I vini più pregiati veni­vano dalla Campania, come il Coe­cubum, il Massicum, il Falernum, il Calenum. Tra i vini stranieri mol­to apprezzati erano quelli che pro­venivano da Chio, Sicione, Rodi, Cipro e dalle isole del Mar Egeo in genere.

      Il vino puro era usato solo nelle libagioni. Con gli antipasti veniva mischiato al miele e nel corso del pranzo era addirittura bollito (o unito ad acqua bollente) e mischia­to col garum o col pepe. Veniva attinto dal cratere dove già si trovava preparato con l’acqua nella giusta proporzione (indicata di vol­ta in volta dal re del convito) trami­te una specie di mestolo dal lungo manico (cyathus) e si mesceva nelle coppe filtrandolo mediante un co­latoio, in quanto non si conosceva la tecnica di produrre vino perfet­tamente limpido…………….

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