Il colera del 1855 in Maremma. e sull’Amiata
In Toscana si ammalarono cinquantamila persone e ne morirono quasi ventiseimila. A Piancastagnaio si distinse nel soccorso dei malati anche il giovane Giosuè Carducci
Fece la sua comparsa in Toscana verso la fine del 1854. Dilagò, a poco a poco, in tutto il Granducato. Dapprima graziò intere aree, città, paesi, villaggi. Si comportò come l’acqua di un fiume che leggermente tracima, incanalandosi nelle depressioni e lasciando, qua e là, isole di terra; poi come un fiume che, gonfio da non poterne più, riversa sulle campagne circostanti la sua massa d’acqua impetuosa, tutto travolgendo, tutto sommergendo.
Proprio così fece anche l’epidemia di colera che – tragica- si abbatté dalla Maremma alla Versilia, dal Mugello all’Amiata, per dieci lunghi, interminabili mesi, fino all’inizio dell’ultima decade di ottobre 1855.Quando la temibile bufera si placò, furono contate le persone colpite dal morbo e quelle che non trovarono scampo: 49.413 le prime, 25.841 le seconde. Una strage di proporzioni gigantesche. Una vera carneficina. Anche una trentina di medici (per l’esattezza ventinove) pagarono con la vita l’opera di soccorso e di assistenza che prestarono agli ammalati negli ospedali esistenti e in quelli improvvisati un po’ dappertutto per far fronte alle necessità del drammatico momento.
Il numero dei morti, superò notevolmente quello dei nati in tutto il corso dell’anno. Anche I’erario pubblico fu messo a dura prova dal flagello. Le spese sostenute ammontarono, infatti, ad un milione e ottocentomila lire che, per quei tempi, rappresentavano una cifra enorme rispetto al potere d’acquisto della moneta.
Si può facilmente immaginare, dunque, quale fu la gioia della popolazione toscana quando apparve chiaro che il morbo aveva ormai esaurito la sua letale azione; e allorché, a Firenze, per tre giorni consecutivi (27 ,28 e 29 ottobre) ci furono forti e prolungate tempeste d’acqua e di vento che, con tutta probabilità, contribuirono ad eliminare definitivamente l’infezione.
Il vescovo della città indisse per il primo di novembre una giornata di ringraziamento: e il 16 di dicembre, I’Arciconfraternita della Misericordia, per lo stesso motivo, organizzò una processione che raggiunse prima la chiesa della Santissima Annunziata, poi San Marco, com’era avvenuto nel 1632 dopo la peste.
I confratelli sfilarono silenziosamente per le vie fiorentine, tenendo in mano una candela da offrire alla Madonna, indossando la cappa nera e il cappuccio dello stesso colore (la buffa) calato sul viso. Lo spettacolo che inscenavano era da brivido, soprattutto per la gente sfuggita al massacro, nella quale suscitava angoscia e commozione.
Chi sulla spalla destra, chi sulla sinistra, mostravano in molti la cappa logora a causa delle innumerevoli barelle (i cataletti) trasportate da un punto all’altro della città per trasferire i colerosi agli ospedali e i defunti ai cimiteri.
Notizie e dati sul colera del 1855 sono riportati, con dovizia di particolari, nel volume Il governo di famiglia in Toscana. Le memorie del Granduca Leopoldo II di Lorena (1824-1559), pubblicato nel 1987 dall’Editore Sansoni di Firenze a cura di Franz Pesendorfen, uno storico tedesco formatosi all’Università di Vienna, che aigranduchi di Lorena ha dedicato altre importanti pubblicazioni. Questa, piuttostocorposa (quasi 600 pagine), venne da lui scoperta casualmente presso il Ministero dell’Agricoltura cecoslovacco: inedita, per colpa del re Giovanni di Sassonia, alquale Leopoldo II aveva raccomandato di licenziarla alle stampe.
Si tratta di un testo prezioso, nel quale “Canapone” ha dettagliatamente descritto tutti gli atti del suo governo, oltre agli avvenimenti più importanti di quegli anni, fra i quali anche il colera che afflisse la Toscana (e non solo questa regione), cui dedica una ventina di pagine.
Diversi riferimenti, relativi alla materia in argomento, egli fa anche alla Maremma. Ed è ai medesimi che si è rivolta la nostra attenzione, cercando di individuarli, qua e là, e metterli insieme per avere una visione non frammentaria delle situazioni citate dall’autore.
La prima grave manifestazione del morbo nell’area maremmana fu comunicata il 21di giugno, al governo granducale, dal Prefetto di Grosseto Cercignani e riguardava il paese di Porto Santo Stefano. Cercignani corse immediatamente sul posto e notò come le persone più povere e debilitate dall’insufficiente nutrizione avessero trovato subito la morte, mentre le altre, terrorizzate, fossero fuggite per rifugiarsi nelle capanne del territorio, rendendo così impossibile ogni intervento del personale sanitario.
Non poche, infatti, furono poi trovate senza vita; anche un giovane medico, in quel frangente, non riuscì a sopravvivere. Si chiamava Gaspero Conti e aveva appena trentasei anni, essendo nato a Prato nel 1819. Un caporale e tredici soldati della truppa di linea si prodigarono al massimo, per giorni, senza pretendere alcun compenso, nell’opera di soccorso della popolazione contagiata. Sostegno di <<pietà religiosa e di carità fraterna>> fu portato ai santostefanesi dal Cardinale Gabriele Ferretti dell’Abbazia delle Tre Fontane di Roma.
Verso la fine del mese di luglio, a essere colpita in maniera grave fu Massa Marittima, dove molte famiglie furono quasi distrutte. Ci furono anche casi clamorosi in cui i malati condotti dai parenti all’ospedale e ritenuti morti, tornarono casa dopo qualche giorno fra l’incredulità e lo stupore dei congiunti. Vittima del colera fu anche un funzionario dell’amministrazione granducale molto apprezzato da Leopoldo II, il cavalier Giacomo Grandoni.
Fu poi la volta di Pitigliano, in cui il timore di essere contagiati provocò la fuga dal paese di tutta la popolazione, molta della quale abitava nelle cantine e nelle grotte. Scrive Leopoldo II: <<…era bene che da quello scoglio ristretto la gente si allargasse>>. In effetti, abitare uscio a uscio, in un groviglio d’angusti vicoli, in un dedalo di viuzze, poteva facilitare il contagio e determinare una situazione patologica veramente drammatica.
Avvisaglie di colerosi giunsero a conoscenza del Granduca, in quei giorni, pure da Scansano; ma per il momento, il libro di “Canapone” non aggiunge altro a proposito di questo paese.
Nella ricorrenza dell’Assunzione della vergine, il 15 agosto, i contagiati – in Toscana – furono 905, 427 i morti. L’epidemia <<ripullulò>> a Porto Santo Stefano, suscitando sconcerto e disperazione; e si estese dall’Argentario a Magliano in Toscana, da Grosseto a Gavorrano, da Castiglione della Pescaia a Massa Marittima.
A Pitigliano si riaccese furiosa; e fu un’ecatombe. Il danaroso gonfaloniere Gaspero Ciacci prestò un’opera di soccorso infaticabile. Aveva un figlio medico che si attivò per ottenere aiuti. E fu esaudito.
A proposito di Scansano, ecco che cosa scrive il Granduca,la cui contrarietà al periodo di “estatatura” in quel luogo fu sempre esplicita e convinta: paese <<elevato ma esposto a bacio fra mezzogiorno e ponente, dove li effluvi di Maremma salgono per la valle dell’Albegna, luogo soggetto alla nebbia e a subitanee variazioni di temperatura (per lo che non lo credevo opportuno come soggiorno estivo all’impiegati di Maremma) avvenuta una vicenda fortissima di temperatura le diarree si mutarono in colera>>
In quello stesso 15 agosto, a Scansano, i contagiati furono 32, imorti21. Questi, per mancanza d’idonei mezzi di trasporto, furono caricati sul pianale di un grosso carro munito di torcia, uno sopra l’altro. La scena fu tragica, come quella di manzoniana memoria che aveva visto all’opera i monatti incaricati di <sgombrare>> le case di Milano dalle vittime della peste.
Oltre ai possidenti Castagnoli, Ajola e Valle, si ammalarono – essendo a Scansano per l”‘estatatura” – il procuratore Mori-Ubaldini, l’auditore del Tribunale Bianchi, il consigliere di prefettura Pratesi e il commesso Rossi. Il delegato Ademaro Ripoli volò nel mondo dei più. E fu davvero malvagio, il suo destino, se si pensa che era emigrato da Grosseto in collina per sfuggire alla malaria.
I preti del paese e i frati del convento di Petreto affrontarono la situazione con grande spirito di sacrificio, <<finché uno restasse vivo>>, riferisce “Canapone”. A Scansano fu spedito il delegato Ricci; a Grosseto, per far fronte alla crescente richiesta di soccorso, fu assegnata ai colerosi la chiesa di San Francesco.
Anche sul Monte Amiata, fino a quel momento lasciato in pace, il morbo fece la sua comparsa in quei giorni. E, ad essere colpita per prima fu la comunità di Santa Fiora (dove fu mandato un funzionario governativo); poi fu la volta d’Arcidosso e di Roccalbegna; quindi – sul versante senese – di Abbadia San Salvatore e di Piancastagnaio.
Qui, il dottor Michele Carducci e i figli Dante e Giosuè (ma questo Leopoldo II non lo dice, non poteva dirlo, perché il poeta era ancora un giovane ventenne ignorato e suo padre, fra l’altro, osteggiava il governo granducale) si distinsero per altruismo, solidarietà e abnegazione, tanto da ricevere I’encomio dei pubblici amministratori.
Lo racconta, invece, Giuseppe Fatini nel volumetto Il padre di Giosuè Carducci medico nel Senese (Siena, 1937), dove si apprende che la prima vittima del colera nel paese amiatino ci fu iI26 agosto 1855 e si trattò di una povera donna, stroncata dal morbo dopo sette ore d’indicibili sofferenze.
La rapida diffusione del contagio terrorizzò talmente la popolazione da indurla a fuggire nei boschi della montagna, abbandonando i familiari ammalati o defunti nelle loro case; e dimenticando non solo il dovere d’umanità che doveva trattenerla, ma anche ogni sentimento d’affetto nei confronti delle persone care.
Su circa tremila abitanti, i colerosi furono 128, i morti 53. Eppure qui, come nel resto della Toscana, l’epidemia cominciò a decrescere verso la fine di settembre per placarsi e scomparire una ventina di giorni più tardi.
Quelle che abbiamo riportato, riguardo alla Maremma, sono le sole notizie che il volume del Granduca ci tramanda ma è indubitabile che – quali più, quali meno tutti i centri abitati del Grossetano furono colpiti dal colera. Il quale, oltre a provocare in Toscana circa ventiseimila morti; a gettare nella disperazione le famiglie colpite dalla sventura di perdere talvolta più di un congiunto; a suscitare panico nella generalità della popolazione, fu disastrosa anche per l’economia dei singoli cittadini e della collettività, perché molti lavori furono trascurati o sospesi. Per vivere, la gente era costretta a portare i suoi oggetti preziosi al monte di pietà allo scopo di ottenere un Prestito. <<In questo tristo tempo – scrive “Canapone” – non solamente le sustanze delle basse classi della società erano stremate. Fu portato a me lo stato dell’uffizio del Presto di Firenze: eravi deposito di argenti, ori e gioie per 1.675.000 lire, valori che senza errore puonno raddoppiarsi>>.
DA “La Maremma raccontata da Alfio Cavoli”