CHE LA LUCE SIA AL TERZO COLPO DEL MIO MAGLIETTO!
( ricordi di un vecchio maestro )
di G. M.
E luce fù.
Ricordo, in un attimo, un gruppo di visi sorridenti, i rituali colpi sulla pietra grezza, le scale di tre, cinque, sette gradini e le prime rughe ed i primi capelli bianchi.
I ricordi affiorano veloci e fanno rivivere tanti momenti carichi ora di felicità ora di dolore, momenti di scelte dibattute ma mai ripudiate, tanta umanità e tanta tristezza per quei fratelli che ora vivono soltanto nel nostro cuore.
Mi rivedo, cinto da un grembiule bianco, con gli strumenti del mio lavoro in mano, ad operare con energia su una pietra grezza…………… Sento distintamente il rumore del martello sullo scalpello e lo scalfirsi della pietra sotto i miei colpi; colpi violenti scagliati da una forza istintuale, cieca pur se guidata da una mano ferma e da una volontà precisa; operare sulla materia al fine di migliorarla, plasmarla a quella che è solo apparentemente una mia volontà ed apparentemente perchè in realtà non è ancora una volontà definita; troppe immagini nei miei pensieri, troppe le storie ascoltate che guidano il mio operato, troppe le certezze che col passare del tempo si riveleranno in parte illusorie; ma io continuo…..
Le mani, protette da morbidi guanti bianchi, obbediscono fluidamente al mio pensiero operativo ma la mia opera , haimè, per il momento, è lungi dall’essere definita; la pietra si oppone con fierezza alla mia volontà, scagliando su di me, ad ogni colpo, una parte di se, ma il grembiule che mi cinge, con la bavetta rialzata, protegge con facilità il plesso e la mia emozionalità.
E’ un lavoro lungo e sfibrante ma non sono il solo ad applicarmi, vicino a me tanti apprendisti, silenziosi, sulla scia di una antica tradizione, intaccano la materia con i loro colpi che risuonano ritmicamente per ogni dove.
Il tempo scorre velocemente ed il mio fisico si è abituato al duro lavoro; ricevo giornalmente la paga e non dimentico mai di destinarne una parte, pur se piccola, a coloro i quali non hanno possibilità.
Il pavimento vicino alla mia postazione di lavoro è pieno di frammenti, ma la pietra non ha mutato la sua natura, è sempre grezza e accarezzo il pensiero che forse non è l’uso della forza il miglior modo per operare su di essa; riduco la forza di impatto e la pietra ferita, quasi comprendendo il mio pensiero, non mi scaglia più addosso le sue scorie.
Il mio modo di operare ha avuto dei testimoni e seguo con timore un Maestro che mi conduce per una scala di cinque gradini; ho lavorato con coscienza ed avverto in me come un cambiamento, una sensibilità diversa che ancora non riesco appieno a comprendere.
DA OGGI LAVORERAI CON LA BAVETTA ABBASSATA!
Il pavimento della mia nuova postazione di lavoro presto incomincia a riempirsi di frammenti di pietra, ma essi non sono più grossi o aguzzi come prima, opero in superficie con colpi “morbidi” e la materia si spoglia di tutte le sue asperità in maniera sequenziale ma la forma che riesco a dare è soltanto un abbozzo di quella che sarà, forse un giorno, un’opera ultimata; non basta sapere usare con abilità gli strumenti del lavoro, bisogna conoscere e, per ben conoscere, bisogna studiare ed io nei tempi liberi dal lavoro iniziai a studiare i grandi artisti, quelli di cui si diceva avessero “la luce nelle mani”.
………….Grande era la fretta di apprendere e ammirevole la mia dedizione ma, nonostante ciò, la mia pietra continuava a rimanere tale.
Era un gran pezzo di roccia strappata alla madre terra sul Qornet es Sauda, sicuramente con grande difficoltà ed in altezza mi superava di un paio di cubiti.
La osservai con maggiore attenzione, era veramente un gran masso e chissà quanta fatica era costata a coloro i quali erano stati preposti al suo trasporto nell’attuale posizione;
valutai il suo peso, quanti uomini si erano spezzati la schiena per intagliarla? Quanti per estrarla dalla terra? Quanti ancora si erano stremati per issarla e trasportarla? Piansi a quel pensiero, piansi perchè era stata affidata a me per pulirla, per levigarla e se non avessi avuto capacità di ben lavorarla il sacrificio di tanti uomini avrebbe partorito soltanto un bastione per una fortezza; no! Non ero nato per questo; le cose facili non mi erano mai piaciute, l’idea di realizzare il lavoro di tanti uomini, pur spaventandomi, mi induceva a lavorare ancora con maggiore vitalità ed attenzione; ma, come spesso succede, l’entusiasmo si viene a scontrare con la cruda realtà e fu così che passarono diversi anni ed in tutto questo tempo varie volte avevo pensato di abbandonare il lavoro, ma ogni volta, al sorgere del sole, sono ritornato alla mia postazione; ora la pietra ha la forma di un umanoide, tozza, con le forme abbozzate ma con una base stabile, frutto della mia forza e della mia dedizione; oggi non opero più col solo scalpello, accarezzo la mia pietra con delle rocce tenere ed abrasive per delineare meglio le forme.
Ogni tanto un anziano maestro, preposto alla mia persona, mi diceva: “ricorda che il tuo lavoro è importante per l’ edificazione del Tempio”.
Il Tempio, pensavo, è la casa della virtù, della pace e della sincerità, non un luogo posto al di fuori del mondo e, nel Tempio, non esiste un luogo destinato alla mia persona; ognuno è chiamato ad operare per garantirsi l’ ingresso.
Io avevo sempre pensato che solo ad una certa età mi sarebbe stato permesso di entrare nella sua parte più interna e non riuscivo a capire il significato della scritta situata su quella porta di ingresso <<CONOSCI TE STESSO>>
Credevo di conoscermi bene, sapevo di essere una persona onesta e di buoni costumi, di credere all’Essere Supremo e di operare alla sua Gloria ma, nonostante ciò, non potevo entrare nella parte interna del tempio dove si radunavano i maestri.
Opera, impara e persevera mi diceva il mio maestro che, di tanto in tanto, veniva a controllare il mio lavoro; non mi dava consigli ed io non ne chiedevo; pur non essendomi stato mai detto sapevo che avrei dovuto realizzare la mia opera da solo e che essa sarebbe stata esclusivamente frutto della mia conoscenza e della mia sensibilità.
Gli altri compagni a me vicini operavano con alacrità e la loro volontà era, una volta, per me pungolo a ben operare, ma ormai lavoravo senza la certezza di terminare un giorno la mia opera; ero sfiduciato, non bastava la tecnica di cui, col passare degli anni, mi ero impadronito; non bastavano più le lunghe ore rubate al sonno, a studiare e a perfezionarmi; guardavo la mia opera e mi maceravo…….Varie volte avevo pensato di distruggerla, essa sembrava una forma abbozzata nel fango, priva com’era di quella adamitica scintilla divina; anche i miei attrezzi, non più regolarmente puliti, mostravano preoccupanti segni di usura. Tenevo conservati fra morbide stoffe un martello ed uno scalpello; erano vergini e lucidi, mi sarebbero dovuti servire per dare l’ ultimo ritocco all’ opera finita.
Una mattina, cominciava appena ad albeggiare, mentre mi recavo al tempio, venni distratto dai miei pensieri dal pianto sommesso di un ragazzo; lo confortai, piangeva perchè tre ragazzi dispettosi gli avevano rubato la bisaccia in cui conservava i suoi pochi averi, qualche moneta, dei panni di ricambio, un pezzo di pane e gli arnesi del suo mestiere; era uno scalpellino e si guadagnava qualche siclo sistemando le lastre di pietra della strada della città.
In tanti anni mai ero arrivato tardi al lavoro, ma quella mattina……. accompagnai quel ragazzo in casa mia; gli lavai il viso, gli offrii una ciotola di latte ed il mio pane di orzo; dalle morbide stoffe trassi gli utensili nuovi e glieli regalai.
Com’ era felice quel ragazzo, i suoi occhi esprimevano riconoscenza e amore, ma io ero ancora più felice di lui e con imbarazzo, col bordo della veste, mi asciugai le lacrime che mi scendevano lungo le guance. Riposati, gli dissi. Devo andare ma questa sera, quando ritornerò, porterò del cibo, delle vesti nuove e, se vorrai, ti insegnerò tante cose che potrebbero servirti per il tuo lavoro; e così, con l’animo leggero, uscii nuovamente per raggiungere il posto di lavoro.
Salii la rampa dritta di tre gradini e poi quella curva di cinque ed il mio smarrimento fu totale quando vidi che la mia opera non era più al suo posto; mi aspettavano invece tre maestri anziani, che non avevo mai visto; si impadronirono di me e mi spinsero nella parte interna del Tempio, facendomi camminare al contrario, dopo di chè venni scaraventato in una fossa, credetti di morire e persi i sensi……
…….Quando ripresi i sensi mi trovai ai piedi di una scala di sette gradini; incominciai a salirla senza tremare; alla fine di essa una ampia sala piena di nicchie con delle statue meravigliose, certamente opere di Dio, si parò davanti ai miei occhi e lontano, verso la fine della sala, posta davanti ad una nicchia vuota vi era la mia opera; essa non era degna di stare in quella sala ove sfigurava alla presenza delle altre statue; dovevo portarla via ma, per farlo, avrei dovuto distruggerla perchè era troppo pesante per muoverla.
Trassi dalla mia bisaccia il martello e mentre mi accingevo ad assestare il primo colpo pensai: a cosa vale l’opera dell’ uomo davanti all’opera di Dio?! A nulla, così come il canto dell’ uomo se paragonato al canto della natura o il suono di uno strumento se paragonato ai suoni della natura.
Il colpo venne vibrato con immane violenza su quello che doveva essere il capo del mio lavoro e avrebbe dovuto frantumarlo, ma esso invece produsse una forte vibrazione che, dalla sommità, si riprodusse verso la base; osservai l’ effetto di quel colpo; non una sola briciola di materia era caduta per terra ma la mia opera ne risultò tutta crepata tanto che la sua superficie sembrava solcata da piaghe profonde; ora sarebbe bastato semplicemente intaccarla con lo scalpello e trasportare via i pezzi; raccolsi lo scalpello dalla bisaccia e lo insinuai in una crepa di quello che doveva essere il volto della statua, venne via una parte di materiale simile ad una grande crosta e sotto di essa apparve per incanto una parte di viso di donna, levigato e liscio; febbrilmente, aiutandomi con le unghie, cominciai a intaccare le crepe più vicine e le “croste” vennero via con facilità liberando, dalla materia che l’ aveva tenuta prigioniera, le fattezze di una giovine donna dall’espressione dolce e serena; mi inginocchiai piangendo, coprendomi il volto con le mani callose.
ALZATI MAESTRO!
Sollevai il capo e vidi, attorniato da tutti i maestri del Tempio, il Venerabile Maestro; << ora hai capito il vero senso della vita: soccorrere, confortare e difendere i bisognosi; essere un uomo giusto. Hai conosciuto te stesso ed hai saputo rinunciare a tutti i tuoi sogni ed all’opera a cui avevi dedicato tutta la tua vita, ora và per le strade del mondo ad insegnare quello che hai imparato, quello che nessuno è stato capace di insegnarti e che da solo hai saputo comprendere; il più grande regalo fatto da Dio all’ Uomo – LA CARITA’ – lo spirito divino reso visibile sulla terra >>.