21-04-2020
Considerazioni sulla percezione del tempo.
Fratelli cari, un caloroso triplice fraterno abbraccio virtuale ed un sentito ringraziamento per la vostra vicinanza, per gli spunti che mi fornite, per la condivisione di questo nostro spazio virtuale, in attesa di recuperare il nostro spazio fisico dalla Sala dei passi perduti, fino al Tempio.
In questi giorni, il mio lavoro mi porta a pensare a questo tempo principalmente dal punto di vista economico. I concetti sono sempre gli stessi, i temi trattati coi clienti sono accomunati dalla costante che, a meno che non ci sia un rapido cambiamento dell’umore complessivo che faccia velocemente dimenticare ciò che sta accadendo – è questo non significa che il virus sarà sconfitto – il nostro mondo è finito.
E via sciagure di questo tipo.
Si potrebbero derubricare come chiacchiere da bar, ma è anche vero che il nostro modello
economico si basa sulle aspettative e sulla fiducia. In questo momento non ci sono: nel prossimo, nelle istituzioni, nel futuro, nel lavoro. Senza fiducia, non si investe, non si spende. Ed il nostro modello economico non lo può sostenere.
“Quando si riaprirà….” la frase che sento dire più spesso, già è in contrasto con la sensazione che stiamo vivendo. Qualsiasi lavoro, dovrà fare i conti, per la prima volta dall’ultimo dopoguerra, con una crisi di domanda, di dimensioni apocalittiche. In soldoni, tutti noi ci immaginiamo che dove si facevano 50 caffè in un’ora se ne faranno 10. Ma per il nostro modello, per le persone che vi lavorano, per gli impegni che un barista si è preso, i caffè devono essere 50, sennò non ci stiamo dentro.
A questo punto del mio discorso, però, decido di sterzare bruscamente e infischiarmene di tutto ciò che ho scritto fino ad ora, perchè mi rendo conto che sto ragionando a vecchio.
Il Fratello Claudio ha parlato dell’antropocentrismo. Se qualcuno mi aiuta con il greco a coniare una parola adatta – “l’attualicentrismo” potrebbe essere un tema ulteriore. È una parola stramba, non mi viene in mente di meglio. Spero di riuscire spiegare a cosa mi riferisco.
Per non parlare di quella dell’Universo, la storia della Terra è universamente riconosciuta in 4,5 miliardi di anni. Paragonandola ad una giornata di 24 ore, la storia dell’uomo ne occupa l’ultimo minuto e mezzo. Quella dell’uomo moderno – diciamo dagli egiziani – ne occupa un ventesimo di secondo. Il novecento occupa un millesimo di secondo, più o meno; considerazioni più volte ascoltate sui documentari di National Geographic.
Senza scomodare la storia della Terra, se utilizziamo come termine di paragone l’era dell’Uomo moderno, la domanda è: cos’è il novecento rispetto ai 5000 anni che l’hanno preceduto? Qualcosa di acquisito? Qualcosa di consolidato? Come possiamo dirlo?
Mi spiego meglio: la popolazione della terra ai tempi degli Egizi, nel 3000 a.c., era stimata in 25 milioni di persone, dell’anno 0 era decuplicata in 200 milioni di abitanti, è poi raddoppiata nel 1500 in 450 milioni di abitanti, per triplicare di nuovo, nel 1850, in soli 300 anni, fino al miliardo e mezzo. Poi, come tutti sappiamo, grazie alla rivoluzione verde e l’agricoltura intensiva, la farmacia, l’igiene diffusa, in una spaventosa accelerata, siamo giunti in soli 170 anni a quintuplicare a 7,5 miliardi la popolazione. In un grafico ci immaginiamo un’iperbole che, per sua stessa estrazione, è una crescita esponenziale.
E adesso fotografiamo il novecento e paragoniamolo al passato anche in termini di ricchezza. Mai come adesso, la ricchezza ed il benessere è stata così distribuita. Esprimere un concetto così però è molto superficiale: la tentazione è di affermare che fino all’epoca della rivoluzione industriale, per come abbiamo studiato la storia, non ci sono state molte differenze nei millenni nella distribuzione del benessere: per una persona che viveva nell’agio, che fosse un nobile od un ricco mercante o un esponente dell’alto Clero, ce ne erano 1000, 10.000, 100.000? che vivevano nella miseria. Sono numeri non significativi, sparati così a caso, ma servono ad esprimere il concetto.
Se volessimo, verificare, con studi effettuati, il confronto non necessita di tornare tanto indietro; bastano 200 anni; anche perchè studi sulla ricchezza pro capite in serie storiche non vanno tanto indietro. Il prof. Paolo Mananima, menbro del CNR nel suo studio “Storia dello sviluppo Economico”, mostra come la crescita esponenziale del pil pro capite mondiale, dal 1820 al 2020, è passato dagli 800$ – immagino attualizzati – ai 10.000$. E’ un dato da prendere con le molle che andrebbe spacchettato che, di fatto, non ci dice granché soprattutto sull’omogeneità, – mi riferisco alla sua interpretazione, non alla rigorosità dello studio che non mi potrei neppure permettere di mettere in discussione – ma è innegabile che il benessere, a partire dalla rivoluzione industriale, si sia distribuito come non mai prima nella storia.
I numeri si prestano all’interpretazione; non solo: mi ricordano, come noi interpretiamo il tempo; e qui siamo al succo di quella che non è né una ricerca, né uno studio. È una semplice riflessione:
La nostra natura ci porta a fotografare come un istantanea a cristallizzare ed eternizzare qualcosa che è, invece, eccezionale e sempre in mutamento.
Congelare a cristallizzare un evento, ci porta a considerarlo un dato acquisito, probabilmente per il bisogno di cercare sicurezze e risposte logiche ai dubbi. Ma in questo modo, la percezione che abbiamo della Storia, nel senso della cronologia degli eventi è distorta.
Prendiamo un libro di storia: il cinquecento può essere condensato in un capitolo di 10 pagine; la seconda guerra mondiale un altro capitolo di altre dieci pagine. Così come la percezione del tempo che vi è trattato, quando li leggiamo. Il tempo che viviamo, invece, è molto più lento: lo viviamo giorno per giorno. Gli eventi si susseguono con lentezza paragonati a quelli che studiamo su di un libro. Invece è esattamente il contrario. Il nostro è un tempo velocissimo che consideriamo lento,
soprattutto perchè tratta di giorni. Il tempo trattato sui libri di storia lo consideriamo, invece, veloce, perchè, come dovessimo metaforizzare, il tempo che ci mettiamo a leggerne un capitolo, è lo stesso che ci mettiamo a leggere l’editoriale di un quotidiano di un evento della sera precedente. È evidente che sono due cose profondamente diverse. È solo la nostra percezione a renderle analoghe.
E cosa c’entra questo con il paragone tra il novecento in termini di popolazione e ricchezza con tutto ciò che ci ha preceduto? La nostra percezione dà lo stesso valore temporale a questi due eventi, rispetto a tutti quelli sommati che li hanno preceduti. Ma è evidente che non è così. Il novecento è un battito di ciglio rispetto a tutto il resto della storia dell’umanità. Ciò che noi consideriamo uno status quo, è invece un qualcosa di passeggero, che è probabile torni ad uno status precedente molto più duraturo rispetto alla situazione dell’ultimo secolo o cambi ulteriormente in qualcosa di mai verificatosi, ma non resterà tale. Di questo siamo certi, come espresso dal Fratello Claudio citando Montaigne, nella sua “altalena perenne”.
E questo status, che a noi appare lento, eterno, immutabile, scandito da un DPCM e un Ordinanza della Regione, è invece un piccolissimo, infinitesimale episodio che la storia, tratterà in un capitolo di un libro fra 300, o 400 anni, come un capoverso. Esattamente come i nostri libri di storia trattano eventi durati mesi e anni, accaduti 300 o 400 anni fa. Un capoverso.
Questa considerazione mi porta ad accettare serenamente questo evento in corso come un qualcosa a cui non posso oppormi, che non posso capire, figuriamoci controllare.
Noi siamo un battito di ciglio. E non è un’opinione. È la storia che ce lo dice. E quando noi non lo capiamo, o non lo accettiamo, o non ci crediamo, crediamo di essere più forti della storia. Ma, come la Natura di Leopardi, citata sempre dal Fratello Claudio, la Storia se ne infischia di cosa pensiamo
noi, e se fossimo l’Islandese dell’operetta morale, la natura ci direbbe che noi ed il nostro periodo storico, siamo uno dei tanti elementi, che se anche non ci fossimo, la natura non se ne accorgerebbe.
Probabilmente è vero, e l’Islandese ribatterebbe alla Natura che, pur microscopici, nel tempo e nello spazio, siamo parte di questo equilibrio; ne siamo un elemento. E la Natura controribatterebbe che la nostra assenza non sarebbe un problema; ci sarebbe un altro equilibrio.
E quindi tutto è giusto e perfetto.
Un caro saluto Fratelli ed un triplice fraterno abbraccio.
A. F.