“L’Italia prima dei romani”
di Roberto Bosi
“L ‘Etruria aveva diritto alla terra”
Fin dai primordi della storia etrusca si apprende che gli abitanti delle fertili colline della Toscana, del Lazio e delle vallate fluviali del Tevere e del Chiana erano agricoltori. Lo stesso mito delle origini del popolo etrusco e delle prime fondazioni di città ci dice che il legame con la terra era per gli Etruschi antico e primario. Ma c’è ancora una cosa da aggiungere: molto presto, rispetto agli altri popoli italici, gli Etruschi organizzeranno la loro agricoltura entro un ampio e ben regolato sistema di proprietà private, piccole e grandi. Una ultima considerazione, che si ricava anche dalla traduzione del Cippo di Perugia, è che “L’Etruria aveva diritto alla terra” e poiché questo diritto era stato promesso agli Etruschi da Tinia, suprema divinità, la legge che lo regolava era sacra. Sacri quindi erano i confini, sacre le disposizioni delle autorità.
A questo concetto si riallaccia anche la leggenda di Romolo che uccide Remo perché, per oltraggio, aveva scavalcato i confini dell’Urbe appena tracciati, il celebre “solco”. In particolare, la suddivisione della terra in tante piccole proprietà contadine avvenne dalle colline in riva all’ Arno, a sud della linea Fiesole-Arezzo e a ovest della dorsale Cortona-Perugia-Todi, per giungere fino a Falerii Veteres (Civita Castellana), spingendosi fino alla Maremma, all’ Amiata, alle colline metallifere. La principale produzione degli agricoltori etruschi era data dai cereali, che venivano anche esportati: ne dà testimonianza a più riprese Tito Livio quando ci dice che, se c’era carestia a Roma, si ricorreva ai rigurgitanti depositi delle città etrusche.
Le località che fornivano grano a Roma erano in particolare le zone intorno a Perugia, Chiusi, Cere, Arezzo, Roselle e Volterra. Lo scrittore Varrone nei suoi Rerum Rusticarum Libri dice che il ricavo di un campo d’Etruria era di quindici volte il seminato, mentre Plinio il Vecchio nella Storia Naturale parla del farro (un frumento che dava farina molto usata per fare minestre) che raggiungeva ventisei libbre per moggio. Ovidio, inoltre, suggeriva alle signore del suo tempo di incipriarsi il naso con la farina etrusca, il cui candore era inarrivabile. Una specie di frumento tenero, che i Romani chiamavano siligo, e che gli Etruschi coltivavano nella Val di Chiana, era importato dai Romani per cuocere il pane di tipo raffinato.
Per quel che riguarda il vino, siamo ben informati: lo scrittore greco Ateneo afferma che gli stessi Greci amavano molto il vino etrusco, mentre Dionisio di Alicarnasso e il poeta Marziale ci narrano che i vini etruschi non erano secondi a nessun vino del Mediterraneo. Anche oltre l’ Appennino, nei territori raggiunti dall’espansione etrusca verso l’ Adriatico e il Delta del Po, si piantavano ottime vigne: ne è conferma un passo di Plinio che ricorda le vigne di Cesena, in Romagna, e di Adria, a Nord delle bocche del Po. Sembra inoltre che il palato degli Etruschi preferisse il vino dolce, del tipo che oggi chiameremmo “moscato”. Ma come lo sappiamo? Perché scrittori romani, fra cui ancora Plinio, citano il vino “apiano”, chiamato così perché ne sarebbero state ghiotte le api; giustamente però, Jacques Heurgon suggerisce che tale nome veniva, forse, da quello di un produttore. Ci è noto, infatti, per la zona di Fiesole, secondo una testimonianza di documenti interpretati da Massimo Pallottino, il nome di un Avle Apianas. Altrove, a Todi ad esempio, si beveva il tudernis; ad Arezzo il talpona, nome, anche questo, di una illustre famiglia.
Le colline di Chiusi e della attuale zona fra Chianciano, Pienza, Buonconvento e Monte Oliveto Maggiore erano celebri nell’antichità per i loro vigneti, come, del resto, lo sono ancora oggi: Plinio avverte che tale vitigno era stato importato dalla Campania, al tempo in cui gli Etruschi vi avevano cercato scali commerciali. Forse, per questo, il vino prodotto in queste località veniva chiamato “pompeiano”. Una coltura importante, che mancava in Etruria, era invece quella dell’ulivo: tant’è che una iscrizione, in cui vengono nominati gli askà eleivàna, cioè i “vasi per olio”, si riferisce a prodotti di importazione greca.