Premessa
Il mio contributo all’abolizionismo è parziale. So di descrivere soltanto un particolare approccio all’abolizionismo, inevitabilmente segnato dalla mia storia, dalla mia formazione di sinistra radicale. Il nesso che ho stabilito tra merce e pena, per esempio, potrà infastidire qualche amico proveniente dalla scuola liberale. Invito tuttavia questo amico a non desistere dalla lettura. Non mi interessa infatti attaccare il mercato in quanto tale, ma criticare una società ormai dominata dalla logica del mercato fino al punto d’aver asservito o messo in ombra il «sistema del dono». Veicolo di questa invasione mercificante di tutte le relazioni sociali è stato il rapido evolversi del potere in una forma centralizzata che ha sconfitto (e utilizzato come maschere ideologiche le loro spoglie) tanto l’idea di rivoluzione liberale che quella socialista. Il frutto di questo potere, lo Stato nazione, ora in crisi sanguinosa nel mondo, ha visto nel sistema penale lo strumento tanto importante quanto sottovalutato della propria evoluzione.
Gli antropologi ci raccontano che un tempo, in comunità più piccole dove la
socializzazione era maggiore, le sanzioni penali erano spesso sostituite dalla
disapprovazione pubblica. Questo oggi è praticamente impossibile perché si deve
constatare che esiste un legame quanto mai ambiguo tra i valori morali di molti
rei e quelli formalmente onorati dalla società. Il reo è un delinquente non
autorizzato o un non-delinquente che viene criminalizzato mentre nei sistemi di
potere trovano ormai molto spazio forme di delinquenza non criminalizzata che
sono tra le più pericolose (Comfort, 1996). La vera disapprovazione pubblica è
una risposta culturale al comportamento asociale: dialogante ed educativa è
molto più efficace di qualunque repressione. E la sanzione, comunque, non
conosce l’idea di privazione della libertà; può volere un risarcimento o
allontanare (esiliare), ma non riduce l’altro a un’inesistenza di
morto-vivente; non umilia ma dà per scontato che si debba rispettare la
soggettività altrui. Ma il potere centralizzato (come le sue metropoli) è
guidato dall’asocialità e non può perciò criticare realmente l’asociale non
autorizzato dichiarato delinquente. Semmai lo crea e lo usa in un tragico gioco
di maschere. Spesso lo inventa: molti giovani puniti per uno spinello esprimono
magari con quell’atto e i riti che lo circondano un bisogno di socialità che
non sanno come realizzare altrimenti, ma comunque più elevato di quello
presente in chi li condanna. L’abolizionista sarà perciò anzitutto un
anti-settario, un amico della verità perché il suo primo compito è quello di
far cadere il gioco delle maschere, ridare valore alla realtà smontando le
rappresentazioni dietro alle quali si nascondono gli autoritari i quali
proiettano le loro insicurezze e ambiguità sui capri espiatori: i delinquenti
non-autorizzati stabiliti dal sistema penale. Sentirsi completamente diversi dal delinquente
è comodo: fino al punto di poter essere ancora più delinquenti di lui. Inoltre,
le masse addestrate a colpevolizzare i capri espiatori oggi minacciano i loro
stessi improvvidi maestri della classe dirigente. Non basta più loro avere in
pasto i delinquenti indicati dal sistema penale. Essendo la colpevolizzazione
un processo di semplificazione interpretativa, si estende con facilità. In
Belgio c’è già qualcuno che stabilisce l’equazione classe dirigente =
pedofilia; da lì nella testa di qualcuno ogni omosessuale viene confuso con un
pedofilo aggressivo e si diffonde l’uso della denuncia anonima contro il vicino
«strano». (Nell’Urss di Stalin si denunciava il vicino «controrivoluzionario»,
per placare i propri demoni o magari per ottenere il posto del vicino). In
Italia l’odio per la corruzione è diventato in taluni desiderio di eroi adatti
all’epoca, ovvero di uomini forti e giustizieri, come se avere a che fare con
una dittatura fosse meglio che avere a che fare con dei truffatori. Il sistema
penale alimenta se stesso cooptando masse per favorire una nuova fase del
potere centralizzato. Non è un disegno, è una prosecuzione della propria logica
per forza d’inerzia, il risultato di una autodifesa ai limiti dell’inconscio in
una fase storica nella quale il potere centralizzato va in pezzi. Il proseguire
come ieri in un contesto che non è più lo stesso aumenta all’inverosimile la
ricerca dei capri espiatori, rischia di dar corpo ai fantasmi fino al
rovesciamento completo della realtà, in un meccanismo fatalmente
cannibalesco… Un giudice francese diceva recentemente, tra l’analisi e
l’auspicio, che l’800 fu il secolo del legislatore, il ‘900 dell’esecutivo, il
2000 sarà forse il secolo dei giudici; il presidente della Camera paventa il
rischio di una «repubblica giudiziaria»…
Per superare questa tragica trappola mentale l’abolizionista dovrà perciò
essere una persona capace di confrontarsi con il prossimo non in base alle sole
idee dichiarate, ma in base a ciò che ognuno fa: opera su se stesso, quindi,
prima ancora che sugli altri. Linguaggi diversi possono nascondere esperienze
vicine, linguaggi simili possono mascherare esperienze lontane fra loro.
Visto così il mondo ti si rivela in modo spesso originale. Tanti che credevi
vicini ti sono lontani, altri che credevi lontani ti sono vicini. Non si
possono più usare facilmente le ideologie, le parole come maschere che rinnovano
un inganno il quale a sua volta rinnova la sofferenza e l’ingiustizia. Ma
questo è quel che può imparare per esempio ogni persona che finisca in galera.
Atrocemente. Alcuni rimangono distrutti dalla disillusione. Altri, superando
quell’inevitabile prima fase , sono meravigliati dalla sorpresa, sorpresa che
può diventare una strada per una nuova percezione della realtà e perciò una
preziosa resistenza alle sofferenze.
È per questo che nelle pagine che seguono, per parlare d’abolizionismo, parlo
soprattutto del carcere visto e vissuto dal di dentro. La soggettività del
recluso è quel che il sistema penale deve ignorare e far ignorare a priori,
organizzandosi come un mercante fuori luogo che pensa di misurare, di poter
rendere quantificabile la soggettività umana: non sapendo dunque quello che fa.