GIOSUE’ CARDUCCI

GIOSUE‟ CARDUCCI (Valdicastello 1836 – Bologna 1907)
Nacque a Valdicastello, una frazione di Pietrasanta in provincia di Lucca, il 27 luglio del 1835 da Michele, che esercitava la professione di medico, e Ildegonda Celli; trascorse nella cittadina lucchese solo i primissimi anni della sua infanzia, perché nel 1838 suo padre si trasferì prima a Castagneto, poi a Laiatico e nel 1849 a Firenze, dove il giovane Carducci compì i primi studi presso le scuole dei padri Scolopi di San Giovannino. Fu padre Barsotti, uno dei suoi insegnanti, che nel 1853 lo convinse a fare un concorso per un posto gratuito di convittore presso la Regia Scuola Normale di Pisa, dove, nel 1855, a soli 20 anni, si laureò in filosofia e filologia con una tesi sul poema cavalleresco. Durante questo periodo universitario fu negativamente colpito dal tipo d’insegnamento, che definì “antiquato”. Nel 1866 ottenne il suo primo incarico ufficiale come professore di retorica presso il Ginnasio di San Miniato al Tedesco, ma alcuni suoi atteggiamenti, legati allo spirito rivoluzionario ed alle idee mazziniane che aveva ereditato dal padre, nonché alcuni discorsi d’impronta ateistica, lo resero “sospetto”, tanto che dovette cambiare ambiente e, pur avendo vinto nel 1857 la cattedra di greco al Ginnasio di Arezzo, le autorità toscane furono dissuase dall’assegnargliela. Visse allora dei proventi di lezioni private e delle “cento lire toscane per tomo” che gli derivavano dalla direzione della collana “Diamante” presso l’editore Barbèra. Il 1859 fu un anno importante per il Carducci, che sposò la cugina Elvira Menicucci, fu poi nominato professore di latino e greco nel liceo di Pistoia ed alcuni mesi più tardi fu nominato, dal Ministro della Pubblica Istruzione Terenzio Mamiani, professore d’eloquenza, poi di letteratura italiana all’Università di Bologna; aveva compiuto appena venticinque anni. A Bologna arricchì i suoi interessi culturali, estendendo gli studi dagli autori latini ed italiani agli scrittori e storici europei: Hugo, Goethe, Von Platen, Shelly, Tierry, Bèrenger, Barbier, Quinet, Michelet, Teine, Blanc. Le sue lezioni di letteratura divennero presto affollatissime ed il Carducci acquisì una fama ed una popolarità che lo fecero presto identificare come uno dei più prestigiosi rappresentanti della cultura italiana; ma il suo interesse non era solo culturale, egli era sollecitato anche da interessi che non erano certo quelli della borghesia, e cominciò a scrivere su giornali decisamente democratici, preparò programmi per le Società Operaie che andavano costituendosi un po’ dappertutto. Nel 1860 pubblicò “Juvenilia”, una raccolta di poesie nelle quali affrontò problemi culturali, politici e morali, ma che espressero anche la sua protesta anticlericale, come avviene in “Voce dei preti”: Ahi giorno sovra gli altri infame e tristo, Quando vessil di servitù la Croce E campion di tiranni apparve Cristo!
Nel 1862 venne in contatto con la Massoneria e si affiliò alla Loggia “Severa” all‟Oriente di Bologna. Nel 1863 pubblicò “Delle poesie di Messer Angelo Poliziano” il saggio “Delle Rime di Dante”, e scrisse l’inno “A Satana” decisamente anticlericale, che, pubblicato due anni dopo a Pistoia, suscitò un vespaio di polemiche. Continuò a far sentire la sua voce rivoluzionaria in opere come “Sicilia e rivoluzione”, “Dopo Aspromonte”, “Per il quinto anniversario della battaglia di Mentana”, ma la raccolta che incarnava il suo spirito polemico fu quella dei “Decennali”, i futuri “Giambi” ed “Epodi”, una raccolta di poesie dove si ritroverà la consueta polemica antipapale, una visione feroce e grottesca della restaurazione borbonica in Francia, ed il desiderio di un’umanità progressista e libera da qualsiasi ipoteca politica ed ecclesiastica. Nel 1867 i Fratelli Massoni di Bologna fondarono il giornale “L’Amico del Popolo” e l’associazione “Unione Democratica”, alla quale aderì anche il Carducci. Nel 1868, in concomitanza con il Concilio Ecumenico, fu ripubblicato l’“Inno a Satana”, ancor più improntato dell’innato anticlericalismo carducciano e che contrapponeva la cultura illuministica della rivoluzione e del progresso scientifico al Sillabo di Pio IX. Come conseguenza dell’adesione all’Unione Democratica, e di questa riedizione, il nuovo ministro della Pubblica Istruzione, Broglio, lo trasferì d’ufficio all’università di Napoli; ma Carducci non si piegò al provvedimento, che sapeva tanto d’epurazione ideologica, e continuò a scagliare numerosi strali contro la mediocrità della classe politica italiana, che non aveva saputo conseguire un’unità completa e contro il re che aveva emarginato Giuseppe Garibaldi. Le sue idee avverse alla politica governativa gli valsero la sospensione dall’attività e dallo stipendio per tre mesi, ma nel 1869 commemorò il ventesimo anniversario della Repubblica Romana scrivendo la poesia “In morte di Giovanni Cairoli”, deceduto per le ferite riportate a Villa Glori nel tentativo garibaldino di liberare Roma nel 1867; la chiusa della poesia, “La nostra patria è vile” suscitò indignazione nella destra moderata italiana. Il 1870 si aprì e si concluse con avvenimenti funesti che lo colpirono nell’intimo. Infatti il 3 febbraio morì la madre ed il 9 novembre morì il figlioletto Dante. Da questi avvenimenti luttuosi, nacque la struggente elegia “Pianto Antico”. Ma chiusa questa infelice parentesi, si aprì per Giosuè una stagione di amori e di muse ispiratrici, ed amerà per lunghi anni l’affascinate Carolina Cristofori Piva, che cantò con il nome di Lina nelle “Primavere elleniche”, e con quello di Lidia in altre liriche.
Nel 1871 uscirono, presso l’editore Barbèra di Firenze, “Le Poesie”, raccolta che comprende “Decennali”, “Levia gravia” e “Juvenilia” e due anni dopo fu la volta di “Nuove poesie” (confluite nelle Rime nuove). Ma la sua attività si esplicò anche in campo saggistico e filologico nell’opera “Studi letterari”, poi, nel 1876, in “Bozzetti critici e discorsi letterari”. Nel 1875 si legò a Zanichelli, che curerà molte edizioni delle sue opere, come la prima delle “Odi barbare”. Nel frattempo le sue posizioni radicali si ammorbidirono passando da un repubblicanesimo acceso alla monarchia, tant’è vero che nel 1878, colpito dal fascino della regina Margherita, moglie di Umberto I, le dedicò l’ode “Alla Regina d’Italia”. Nel 1880 lo Zanichelli pubblicò una riedizione di “Juvenilia” ed un‟edizione delle “Nuove odi barbare”. Nel 1882, dopo l‟impiccagione di Guglielmo Oberdan, al quale Francesco Giuseppe aveva rifiutato la grazia, Carducci, invocando il “giorno della giustizia”, lo definì “l’imperatore degli impiccati”, e, in quello che doveva essere il suo ultimo anelito giacobino-repubblicano, pubblicò la raccolta di sonetti “Ça ira”, rievocazione della rivoluzione francese. Guai fisici cominciarono a debilitarlo, ed ebbe una paresi al braccio destro, ma nonostante ciò continuò la sua fervente attività, scrivendo un saggio in onore del Prati e del Parini principiante, e nel 1886 fu nominato Accademico della Crusca. Tra il 1889 ed il 1905, sempre con la casa editrice Zanichelli, avviò un‟edizione completa delle sue opere, lavoro che lo impegnerà quasi fino alla morte. La sua attività culturale lo portò ad intervenire nel 1897 in senato, per la tutela e la pubblicazione degli scritti leopardiani. Nel 1906 ricevette in Bologna, dall’ambasciatore di Svezia, il premio Nobel per la letteratura. Morirà solo un anno dopo, nella notte fra il 15 e il 16 febbraio a Bologna, per broncopolmonite. Fu sepolto nella Certosa di Bologna, dove tuttora riposa. Sin dagli esordi, nel suo impegno con l’Accademia dei Filomusi e in seguito con gli Amici Pedanti, fu chiara ed inequivocabile l’avversione al romanticismo svuotato dei valori iniziali e pieno di languido sentimentalismo, come quello che rispecchiavano le produzioni di un Prati e di un Aleardi. Non criticò, anzi apprezzò l’opera di Giovanni Berchet o di Goffredo Mameli, in cui c’era l’afflato patriottico, della prima generazione romantica, che pensava al riscatto della nazione italiana. Si spiega in quest’ottica il recupero della classicità, come l’età eroica per eccellenza. Questa grandezza del passato spicca notevolmente se confrontata con la pochezza e la mediocrità di un Risorgimento che, nato sotto la spinta di altri intenti, aveva portato ad un’unità incompleta e prodotto una classe politica e dirigente che era stata la diretta responsabile di tentennamenti e fallimenti. L’eroe per il Carducci è colui che afferma se stesso contro tutto e contro tutti; egli è diverso dagli altri, e non esita, per affermare se stesso e la sua diversità, a ricorrere al gesto estremo e stoico del suicidio. L’ideale eroico è in un certo senso una presa di posizione anche nei confronti della religione. Infatti l’eroismo cozza con la morale degli “umili”, propria del cristianesimo. Questo ateismo, non della prima ora, dal momento che nel 1848 aveva scritto “A Dio”, può esser visto anche come adesione ideale alla cultura settecentesca e illuministica. Inoltre il cristianesimo, come sostiene in “Alle fonti del Clitunno”, ha raso al suolo quel mondo in cui egli vede realizzata ogni umana grandezza. L’eroismo carducciano fu genuinamente presente in quegli uomini vestiti di rosso e di ardore che “fecero l’Italia” sbarcando a Quarto, combattendo sull’Aspromonte e resistendo a Mentana; vero è che, non di rado, il poeta cede al retore ed ai fasti di un‟età mediocre, come fu in sostanza quella umbertina, che si fregiano di aquile romane e di elmi scipionici. Ma è pur vero che tra le armi e le battaglie spesso si aprono squarci rasserenanti di natura incontaminata: la fresca rappresentazione della sua Maremma. Giosuè Carducci era stato iniziato massone nella Loggia “Severa” all’Oriente di Bologna nel 1862. Nel 1866 passò alla Loggia “Felsinea”, sempre a Bologna, dove raggiunse il 33° grado del R.S.A.A. nel 1888.

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