GIUSEPPE GARIBALDI (Nizza 1807 – Caprera 1882)
Garibaldi, l’eroe più popolare del Risorgimento italiano ed il principale artefice dell’unità d’Italia, nacque a Nizza il 4 Luglio 1807 da Domenico e Rosa Raimondi. Il padre possedeva una tartana con la quale praticava il cabotaggio, ma avrebbe voluto avviare Giuseppe, suo secondogenito, alla carriera d‟avvocato o di medico, o anche a quella ecclesiastica. Il figlio, però, amava poco gli studi e prediligeva la vita sul mare, tanto che, per i contrasti con la famiglia, tentò giovanissimo di fuggire, con altri compagni, alla volta di Genova. A questo punto il padre si decise a lasciargli seguire la carriera marittima, ed egli la cominciò come mozzo all‟età di 15 anni. Durante uno dei suoi viaggi, a Taganrog sul mare d’Azov, fece amicizia con un affiliato alla Giovine Italia, la società segreta fondata da Mazzini, alla quale egli stesso, spinto dai suoi sentimenti patriottici, s‟iscrisse con il nome di copertura di Borel. Nel 1833, dopo essersi incontrato a Marsiglia con Mazzini, si arruolò nella marina sarda per il servizio di leva e cominciò a diffondere tra i giovani marinai le nuove idee repubblicane e patriottiche. L‟anno seguente fu incaricato dal Mazzini di organizzare un’insurrezione a Genova, in concomitanza ai moti mazziniani in Savoia; ma Girolamo Ramorino, al quale era stato affidato il comando delle truppe provenienti dalla Svizzera, guidò la spedizione senza entusiasmo, sperperando i fondi che gli erano stati assegnati, sì che le truppe svizzere e quelle di Carlo Alberto riuscirono facilmente a disperdere i rivoltosi. Garibaldi non riuscì quindi ad avere contatti con compagni che dovevano giungere dal nord, e dovette fuggire a Marsiglia, dove venne a conoscenza della sua condanna a morte per tradimento. Dopo qualche viaggio nel Mediterraneo su navi mercantili, partì per l’America del Sud, raggiungendo Rio de Janeiro nel 1836. Con un altro esule italiano, Luigi Rossetti, appoggiò i ribelli repubblicani del Rio Grande, insorti contro il governo imperiale di Don Pedro II, e dopo aver preso parte a diverse azioni belliche, lasciò la regione, recandosi, nel 1841, a Montevideo. Al soggiorno riograndese risale il suo incontro con Anita, l’innamoramento, l’abbandono del marito da parte di lei per seguire l’eroe, la nascita, nel 1840, del primogenito Menotti, cui seguirono Teresita e Ricciotti. Il 26 marzo 1842, deceduto il primo marito di Anita, i due poterono unirsi in matrimonio a Montevideo. Anche in Uruguay Garibaldi riprese a combattere in favore delle forze rivoluzionarie che lottavano contro l’Argentina. Comandante di alcune flottiglie, fu in questo periodo che creò la Legione Italiana, che condusse, vestita di quelle camicie rosse che un giorno sarebbero divenute leggendarie, in diverse valorose azioni, come nei combattimenti del Cerro, del Salto e sul fiumicello S. Antonio. Quest’ultima battaglia mise in luce le qualità militari di Garibaldi, che nel 1847 fu nominato generale e capo della difesa di Montevideo.
Le speranze suscitate nei patrioti italiani dall’elezione di Pio IX al soglio pontificio spinsero Garibaldi ad offrire al pontefice la propria legione. L’offerta non fu accettata, tuttavia Garibaldi partì per l’Italia, sbarcando a Nizza nel giugno 1848, quando le truppe
di Carlo Alberto erano già in marcia contro gli Austriaci. Nonostante il parere contrario di Mazzini, non esitò a mettersi a disposizione del re con le sue truppe, anche se questi non volle inquadrarlo nell’esercito. Si pose allora alla testa di alcuni battaglioni di volontari, ma l’armistizio di Salasco lo sorprese quando era ancora nella fase organizzativa; non accettando la pace con gli Austriaci, Garibaldi, con le sue sole forze, li attaccò a Luino ed occupò Varese; ma sopraffatto da forze superiori a Morazzone, faticò non poco a disimpegnarsi dal combattimento e a rifugiarsi in Svizzera. Tornato a Genova, fu eletto deputato, ma anziché sedere in Parlamento, preferì recarsi nell’Italia centrale per organizzare una legione in appoggio al governo provvisorio di Roma. Proclamata la Repubblica Romana il 9 febbraio 1849, fu nominato generale comandante delle truppe della città, battendo i Francesi a Porta San Pancrazio e i Napoletani a Palestrina. Gli attacchi in massa sferrati dai Francesi ebbero tuttavia ragione dell’eroica resistenza delle truppe garibaldine al Gianicolo, a Villa Corsini, Villa Spada, battaglie dove si coprirono di gloria Manara, Dandolo, Mameli, Bixio; ma il 2 luglio Garibaldi fu costretto a lasciare la città, incalzato da ogni parte dai nemici. Giunto a San Marino dopo lunghe peripezie e con una marcia leggendaria, fece deporre le armi ai suoi soldati, proseguendo poi con 250 uomini verso Cesenatico. Imbarcati i suoi su alcuni bragozzi, che presto furono catturati dalle navi austriache, riuscì a stento a sbarcare a Magnavacca, oggi Porto Garibaldi. Nella cascina Guiccioli, Anita, che lo aveva sempre seguito in ogni sua avventura, gli moriva tra le braccia, ma l’eroe non ebbe neppure neppure il conforto di seppellirla: braccato dagli Austro-papali fu costretto a riprendere la fuga. Con l’aiuto di diversi patrioti, riuscì a raggiungere Portovenere, presso La Spezia, ma il governo sardo, onde evitare comprensibili complicazioni di natura politica, lo invitò ad andarsene. Fu allora a Tangeri, poi a New York, dove, con Antonio Meucci, organizzò una fabbrica di candele per dare lavoro agli Italiani esuli; andò poi nell’America meridionale e centrale, poi in Cina, dedicandosi al cabotaggio; quindi ritornò a New York, poi in Inghilterra e nel 1854 fu a Nizza, finché, nel 1857, si ritirò nell’isolotto di Caprera, dove aveva acquistato alcuni terreni per dedicarsi all’agricoltura. Nel silenzio continuò a mantenere rapporti epistolari con i patrioti italiani. Si allontanava intanto sempre più dal Mazzini e aderiva alla monarchia sabauda, purché questa facesse sua la causa italiana. Nel 1859, su invito di Vittorio Emanuele II, assunse, con il grado di generale dell’esercito sardo, il comando di un corpo di volontari, i Cacciatori delle Alpi, e fu allora che essi ebbero il loro inno “si scopron le tombe, si levan i morti”, scritto dal Mercantini e musicato dall’Olivieri. Scoppiata la guerra, Garibaldi ebbe il compito di operare sulle sponde del lago Maggiore contro l’estrema ala destra austriaca; cooperò quindi alle azioni per la seconda guerra d’indipendenza occupando Varese, Como e San Fermo; dopo la battaglia di Magenta, entrò in Bergamo e Brescia, sostenendo poi numerosi scontri in Valtellina. Dopo l’armistizio di Villafranca, si dimise dall’esercito, e si pose al servizio della Lega tra Toscana e Romagna, in sottordine al generale Fanti, proponendo e fomentando un‟insurrezione nello Stato Pontificio e nel Regno delle due Sicilie; dissuaso dal re stesso, lasciò il comando e si ritirò a Genova. Il 24 gennaio 1860 sposò la marchesina Giuseppina Raimondi di Fino Mornasco, che lasciò lo stesso giorno delle nozze, essendo stato informato della sua infedeltà.
L’insurrezione di Palermo del 4 Aprile 1860 suscitò in lui nuovo entusiasmo patriottico; con un po’ d’armi e due vecchi piroscafi, il Lombardo ed il Piemonte, con circa mille animosi, Garibaldi, il 5 maggio 1860 salpava da Quarto, presso Genova, diretto verso la Sicilia. Ci sembra piacevole riportare a questo punto una parte del testo del libro “I Mille” di Giuseppe Bandi: … A una certa ora, balzai in piedi, e fattomi a poppa, chiesi a Rossi, che vegliava al timone: che ore sono? Le dodici e un quarto. Dove siamo? Abbiamo perduto di vista il fanale di Livorno; saremo tra poco nel canale di Piombino. Dopo qualche altra parola, tornai verso la cabina del generale. Il generale uscì fuori e mi disse: Oh! siete qui? Non mi riesce dormire, generale; passeggio. Si mise a passeggiare con me, e di quando in quando, si fermava a guardare la bussola, che splendeva illuminata presso il timone, che voleva vedere il Lombardo. Ad un tratto, mi chiese: avete sigari? Ho dei toscani… buonissimi! Soggiunse, e ne prese uno, lo ruppe in mezzo e l‟accese. Poi, dopo un breve silenzio, tornò a dire: siete pratico delle maremme toscane? Chi mi parla della Maremma, risposi, mi parla dei miei luoghi; luoghi poco ameni, ma pur sempre miei, per quanto non ci possieda una zolla. Nacqui a Gavorrano, presso Follonica, e conosco la spiaggia, palmo a palmo. Lo sapete, disse Garibaldi, fermandosi di botto, lo sapete che abbiamo a bordo qualche migliaio di fucili, ma non abbiamo una cartuccia? Rimasi di sasso. Come! Non abbiamo cartucce? Ve ne fate meraviglia?, aggiunse il generale, le munizioni erano affidate ai contrabbandieri e questi, venali nell’anima, han corso dietro al loro meglio. Come? Hanno consegnate le vostre munizioni alla polizia? No, caro, han piantato in mezzo al mare le barche delle munizioni, per fare un contrabbando che prometteva loro guadagni più lauti. Assassini! Assassini fin che volete, ma il mondo è andato sempre così. È inutile che si rimpianga ciò che non si può disfare. Capirete bene che le munizioni ci sono necessarie più del pane, e bisogna procurarcele ad ogni costo. Pigliereste voi l‟impegno di andare a Siena e far quivi le provviste che ci vogliono? Vi aspetterei a Piombino… No, generale, no; a Siena non troveremo lì per lì le munizioni che ci occorrono, e poi, ci sarebbe il rischio che non rivedeste più né il messo, né l’ambasciatore. In Toscana comandano i moderati, e è vicerè il Ricasoli. Passeggiammo per qualche tempo in silenzio. Andremo all’isola d’Elba, ripigliò Garibaldi, a Portoferraio, a Longone… No, generale, no; dissi. A Portoferraio ci sono a iosa le munizioni, ma c’è un comandante piemontese, e la piazza è forte. Basta che il comandante faccia alzare un pontelevatoio, e noi restiamo come quelli… Dite di andare a Longone! E che volete trovare a Longone!… Troveremo forse tanta polvere, quanto basti per andare a caccia alle passere… Garibaldi non fece verbo; ma giunto che fu, nel passeggiare, vicino alla prua mi disse: aspettatemi; ora vengo.… che direste, riprese, se andassimo a Talamone? La c’è un bel golfo, e ci deve essere un forte… sicuro, dissi, e c’e vicino Orbetello, dove troveremo a armi e munizioni a bizzeffe. Ci conoscete nessuno in Orbetello? Èh, generale, ci conosco tanta gente… C’è Arus, il gonfaloniere, che fu buon liberale anche ai tempi del granduca, c’è Agostino Cappelli, detto il barbaro, ufficiale del genio, ci sono i Raveggi, c’è il prete Bellucci, che per prete non è affatto male… Ma c’è una guarnigione in Orbetello, e la città deve essere fortificata…
A proposito! Esclamai, chi comanda in Orbetello è il Giorgini, fratello di un nostro professore, che fu sempre liberalissimo; è un uomo per bene, e gli leveremo anche la camicia di dosso… Garibaldi passeggiò alquanto senza far motto, poi tornò a dirmi: non sarebbe male il trovare, oltre le munizioni, qualche po‟ di carbone. Sapete voi che ci siano depositi di carbone sulla costa? Pensai un minuto, e risposi: sì, sì, se ben mi rammento, ce ne dev‟essere uno a Santo Stefano, a poche miglia da Talamone… Là c’era un deposito di carbon fossile per fornire il Giglio, il gran vapore da guerra di Leopoldo II, e questo deposito ci dev’essere ancora. Va bene, disse il generale… Mi destai che albeggiava. La terra appariva vicina, e già si distingueva a occhio nudo il promontorio su cui sorge la rocca di Talamone. Garibaldi mi chiamò nella cabina e mi disse: stanotte mi avete rammentato i nomi di certe brave persone che si trovano in Orbetello. Scrivete adesso qualche lettera e io la darò a Turri, che andrà per primo a conferire col colonnello Giorgini. Mentre io scrivevo dentro la sua cabina, egli usci, e poco dopo lo sentì gridare col porta voce, comunicando a Bixio sul Lombardo non so quali ordini. Tornato in cabina, Garibaldi si fece porgere la tunica da generale dell’esercito sardo e il berretto, e cominciò a vestirsi, dicendomi: oggi questi abiti possono far comodo: voi andate in giro e dite a tutti quanti hanno indosso la divisa dell’esercito, che vengano qua, vicino a me. Obbedii, trovati cinque o sei compagni, vestiti come voleva lui, glieli condussi. Intanto, ci venivamo avvicinando a Talamone, e una lancia con la sua brava bandiera a poppa ci muoveva incontro. Guardai col cannocchiale e vidi che c’erano dentro due uomini in uniforme. Ecco la lancia della sanità, dissi. Bene, rispose il generale. Quando farò fermare, e quando la scala sarà abbattuta, scendete voi e fatevi sentire parlare toscano, e fate che gli ufficiali che sono nella barca montino a bordo e vengano qui da me. Mi posi vicino alla scala e aspettai. Poco dopo, la voce del capitano Castiglia gridò al macchinista: Arrètez. Tosto la scala s’abbassò, e la barca venne a fermarsi a piè della scala. C’erano dentro un ufficiale di sanità e un tenente dell’artiglieria da costa; due poveri vecchi, impresciuttiti e logori, che, sommando i rispettivi lunari, potevano mettere insieme gli anni di Matusalemme. Li salutai militarmente, e dissi: evviva, signori. Si scopersero il capo, e mi porsero la mano. Sentii che tremavano come foglie e ripresi: salgano, sono due legni italiani, su cui sventola la bandiera di sua maestà il re Vittorio Emanuele. A bordo c’e un luogotenente generale che mi ha dato l’ordine di farli salire su. I due vecchi alzarono gli occhi e videro la bandiera che s’era issata in quel punto; ma nel veder la bandiera, videro anche il ponte pieno di camicie rosse. Ohimè! disse l’ufficiale di sanità, quelle uniformi rosse… sono abiti da viaggio, risposi. Del resto, guardino quest’uniforme mia, è quella di quei i signori che stanno su in cima alla scala… Vengano, non abbiano paura, il signor generale li aspetta. Così dicendo, li presi, ad uno alla volta, per la mano e li trassi sulla scala, ma più morti che vivi. Appena posero piede sul ponte e videro tutta quella rossa grazia di Dio che c’era, mi guardarono in faccia stralunati, quasi più dimandarmi se fossero caduti in mano dei corsari, e per dirmi: ti ringraziamo, bel ciacchero! Non seppi tenermi da ridere, e feci loro strada fino alla cabina del generale, e ne apersi la porta, dicendo: ecco, generale, il comandante del porto e il comandante della fortezza di Talamone, che vengono a ricevere i suoi ordini. Garibaldi li salutò con infinito garbo e, data loro familiarmente la mano, disse loro: io sono Giuseppe Garibaldi, generale, come sapete, che debbo compiere una missione che molto sta a cuore al re, ma che deve essere condotta al termine senza che si sappia che egli vi prestò mano. Perciò, non posso presentarvi alcun ordine scritto, ma vi dico, e potete crederlo, che qualunque cosa facciate per aiutare la mia impresa, sarà utile alla patria e sarà volta al servizio del re. I due galantuomini si guardarono in faccia l’un l’altro, e si provarono a balbettare qualche parola, ma la voce fece loro cecca, e rimasero a bocca aperta. Allora, il generale mi fé segno che chiudesse l’uscio della cabina. Obbedii e li lasciai soli.
Dieci minuti dopo, l’uscio della cabina s’aperse, e i due comandanti di Talamone escivan fuori rossi in viso come gamberi cotti, e con gli occhi pieni di lacrime. Ambedue mi presero per mano e mi dissero: Oh, che uomo, che uomo!… Oh, che onore per noi!… Glielo dica anche lei, caro tenente, glielo dica che faremo tutto quello che vuole, e che tutto quanto è in Talomone, la consideri come roba sua! Garibaldi escì anch’egli dalla cabina, scese nella lancia della sanità, e andammo a terra tutti insieme. Sei giorni più tardi sbarcò a Marsala, ed a Salemi si proclamò dittatore della Sicilia in nome del re d’Italia. La vittoria di Calatafimi e la conquista di Palermo significarono la liberazione di tutta la Sicilia, mentre da ogni parte arrivavano sempre nuovi volontari a rinforzare il suo piccolo esercito. Cadute Milazzo, Messina, Siracusa ed Augusta, il 19 agosto Garibaldi sbarcò sul continente, conquistando Reggio per marciare poi rapidamente su Napoli, favorito dai moti popolari che ovunque scoppiavano contro i Borboni. Cavour, nel timore di una rottura con la Francia e di un pronunciamento repubblicano da parte dei garibaldini, tentò di affrettare l’annessione dell’Italia meridionale al regno di Sardegna, attirandosi lo sdegno di Garibaldi, che avrebbe voluto conquistare Roma e consegnare al re un’Italia unita con Roma capitale. Mentre le truppe regie delle Marche e dell’Umbria marciavano verso il Napoletano, Garibaldi riuscì a trasformare in una sonante vittoria l’offensiva iniziata dai Borboni sul Volturno; il 7 novembre 1860 andò incontro a Vittorio Emanuele II a Teano e lo accompagnò a Napoli, dove il popolo aveva entusiasticamente proclamato l’annessione al regno di Sardegna. Consegnata la città nelle mani del re, Garibaldi tornò nel suo solitario rifugio di Caprera, con un sacco di sementi e poche centinaia di lire, dopo aver rifiutato il grado di generale d’armata, il collare dell’Annunziata e donazioni per i figli. Nel 1862, durante un viaggio in Sicilia, fu accolto da grandi manifestazioni popolari in favore della liberazione di Roma, sicché, postosi a capo di un gruppo di volontari, partì da Catania il 24 agosto e sbarcò in Calabria, presso Mileto, con l’intenzione di proseguire verso il nord. Ma il 29 agosto le truppe regie furono costrette a fermarlo ad Aspromonte, dove rimase ferito ad un piede. Nel 1864 si recò in Inghilterra per incontrarsi con Mazzini, nel tentativo di convincerlo ad appoggiare, per il bene della patria, l’unione dell’Italia sotto i Savoia, ed in quell’occasione gli fu concessa la cittadinanza inglese. Ritornato in Italia nel 1866 combattè nel Trentino nella guerra contro l’Austria, a fianco dell’alleato prussiano; l’armistizio lo sorprese mentre stava per raggiungere Trento ed all’ordine di abbandonare le ostilità, rispose “Ho ricevuto il dispaccio 1072. Obbedisco”. Ma non rinunciò all’idea di liberare Roma, ed il 19 ottobre 1867 sbarcò a Vada, presso Livorno, per marciare poi su Roma, mentre l’insurrezione in città falliva con la sconfitta e il sacrificio dei Cairoli a villa Gloria. Per tale motivo, pur avendo conquistato Monterotondo, Garibaldi fu costretto a ritirarsi. La liberazione di Roma, nel 1870, non vide presenti le camicie rosse, che tanto sangue avevano versato per quella città. Nell’ottobre si mise al sevizio della Francia, conquistando Digione. Dopo la sconfitta francese rientrò in Italia dove si dedicò alla vita politica ed appoggiò le idee della sinistra; in questo periodo scrisse anche un poema, quattro romanzi e le “Memorie”, tutte opere di carattere autobiografico.
Il 26 gennaio 1880, ottenuto finalmente l’annullamento del matrimonio con la Raimondi, sposò Francesca Armosino dalla quale aveva già avuto due figli: Clelia e Manlio. All’inizio del 1882 fece un viaggio in Sicilia, accolto con enorme entusiasmo, ma pochi mesi più tardi, il 2 giugno, si spegneva a Caprera, al cospetto di quel mare che aveva tanto amato. Giuseppe Garibaldi era stato iniziato libero muratore in Brasile nel 1844 alla Loggia “Asilo de la Vertude” e successivamente passò alla Loggia “Amis de la Patrie” all’Orinte di Montevideo. Fu poi affiliato alla Loggia “Tompkins” n° 471 di Stapleton all’Oriente di New York. Nel 1863 fu eletto Supremo Gran Commendatore del Supremo Consiglio del R.S.A.A. di Palermo; nel 1864 fu eletto Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia e nel 1872 Gran Maestro Onorario a vita del Grande Oriente d’Italia.
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