LA RABBIA, L’ORGOGLIO E IL DUBBIO
Guerra in Iraq: «E
il mio dilemma rimane. Tormentoso, assillante».
Per evitare il dilemma, risparmiarmi la dolorosa domanda
«questa-guerra-deve-essere-fatta-o-no», per superare le riserve e le riluttanze
e i dubbi che ancora mi straziano, spesso dico a me stessa: «Ah, se gli
iracheni si liberassero da soli di Saddam Hussein! Ah, se qualche Ahmed o Abdul
lo liquidasse e lo appendesse pei piedi in qualche piazza come nel 1945 gli
italiani fecero con Mussolini!». Ma non serve. O serve in un senso e basta.
Nel 1945, infatti, gli italiani si liberarono di Mussolini perché gli Alleati
avevano occupato tre quarti dell’Italia. Quindi reso possibile l’insurrezione
del Nord. In parole diverse, perché la guerra l’avevano fatta. Una guerra senza
la quale Mussolini ce lo saremmo tenuti vita natural durante. (Hitler, lo
stesso). Una guerra durante la quale gli Alleati ci avevano bombardato senza
pietà ed eravamo morti come le mosche. Loro, idem. A Salerno, ad Anzio, a
Cassino. Nell’avanzata verso Firenze, sulla Linea Gotica. La tremenda Linea
Gotica che i tedeschi avevano opposto dal Tirreno all’Adriatico.
In meno di due anni, 45.806 morti americani e 17.500 tra inglesi, canadesi,
australiani, neozelandesi, sudafricani, indiani, brasiliani, polacchi. Nonché
francesi che avevano scelto De Gaulle e italiani che avevano scelto la Quinta o l’Ottava Armata.
(Sai quanti cimiteri di militari alleati ci sono in Italia? Oltre centotrenta.
E i più grossi, i più affollati, sono proprio quelli americani. Soltanto a
Nettuno, 10.950 tombe. Soltanto a Falciani, presso Firenze, 5.811… Ogni volta
che ci passo davanti e vedo quel lago di croci, rabbrividisco di dolore e di
gratitudine).
C’era anche un Fronte di Liberazione Nazionale, in Italia. Una Resistenza che gli Alleati rifornivano di armi e di munizioni. Poiché malgrado la tenera età mi occupavo della faccenda, ricordo perfettamente il Dakota che sfidando la contraerea ce le paracadutava in Toscana. Per l’esattezza, sul Monte Giovi dove per farci localizzare accendevamo i fuochi e dove una notte paracadutarono anche un commando che aveva il compito di allestire una radio clandestina detta Radio Cora. Dieci simpaticissimi americani che parlavano un ottimo italiano. E che tre mesi dopo furono catturati dalle SS, torturati in modo selvaggio, fucilati insieme alla partigiana Anna Maria Enriquez-Agnoletti. Così il dilemma rimane. Tormentoso, assillante.
Rimane per i motivi che mi accingo ad esporre. E il primo motivo è che,
contrariamente ai pacifisti che non berciano mai contro Saddam Hussein o Bin
Laden e se la pigliano solo con Bush o con Blair, (ma nel corteo di Roma se la
son presa pure con me, a quanto pare augurandomi di scoppiare in mille pezzi
col prossimo shuttle), la guerra io la conosco. So bene che cosa
significa vivere nel terrore, correre sotto le cannonate o le bombe da mille
chili, veder morire la gente ed esplodere le case, crepare di fame, non aver
nemmeno l’acqua da bere. E, peggio ancora, sentirsi responsabile per la morte
di un altro essere umano. (Anche se quell’essere umano è un nemico, ad esempio
un fascista o un soldato tedesco). Lo so perché appartengo, appunto, alla
generazione della Seconda Guerra Mondiale. E perché gran parte della mia vita
sono stata corrispondente di guerra. Non uno di quelli che stanno in albergo:
uno di quelli che al fronte ci vanno davvero.
Ergo, dal Vietnam in poi ho visto orrori che chi conosce la guerra soltanto
attraverso la TV o
i film dove il sangue è salsa di pomodoro non immagina nemmeno. E la guerra la
odio quanto i pacifisti in buona o cattiva fede non la odieranno mai. La odio
tanto che ogni mio libro trabocca di quell’odio. La odio tanto che perfino i
fucili da caccia mi danno fastidio e lo stupido schioppettare dei cacciatori
estivi mi fa salire il sangue al cervello. Però non accetto il fariseo
principio anzi slogan di coloro che dicono: «Tutte le guerre sono ingiuste,
tutte le guerre sono illegittime». La guerra contro Hitler e Mussolini era una
guerra giusta, perbacco. Una guerra legittima. Anzi, doverosa. Le guerre
risorgimentali che i miei nonni fecero nell’Ottocento per cacciare lo straniero
invasore erano guerre giuste, perbacco. Guerre legittime. Anzi, doverose. E la Guerra d’Indipendenza che i
coloni americani fecero contro l’Inghilterra, lo stesso. Le guerre (o le
rivoluzioni) che avvengono per ritrovare la dignità, la libertà, idem. Io non
credo nelle disinvolte assoluzioni, nelle comode pacificazioni, nel perdono
facile. E ancor meno credo nello sfruttamento della parola Pace, nel ricatto
della parola Pace. Quando in nome della pace si cede alla prepotenza, alla
violenza, alla tirannia, quando in nome della pace ci si rassegna alla paura,
si rinuncia alla dignità e alla libertà, la pace non è più pace. E’ suicidio.
Il secondo motivo è che, se giusta come spero e legittima come mi auguro,
questa guerra non dovrebbe svolgersi ora. Avrebbe dovuto svolgersi un anno fa.
Vale a dire quando le rovine delle Due Torri erano fumanti, e tutto il mondo
civile si sentiva americano. Se si fosse svolta allora, oggi i simpatizzanti di
Bin Laden e di Saddam Hussein non riempirebbero le piazze col loro pacifismo a
senso unico. Le star di Hollywood non si esibirebbero nel ruolo (per
loro grottesco) di capi-popolo. E l’ambigua Turchia che sta rimettendo il velo
alle donne non rifiuterebbe il passaggio ai Marines diretti al fronte
del Nord. Nonostante le cicale europee che insieme ai palestinesi ghignavano
«Bene-agli-americani-gli-sta-bene», un anno fa nessuno negava che gli Stati
Uniti avessero sofferto una seconda Pearl Harbor e che di conseguenza gli
spettasse il diritto di reagire. Meglio: se giusta come spero, legittima come
mi auguro, questa è una guerra che avrebbe dovuto svolgersi ancor prima. Cioè
quando Clinton era presidente e le piccole Pearl Harbor scoppiavano nel resto
del mondo. In Somalia, ad esempio, dove i Marines in missione di pace
venivano trucidati e mutilati poi dati in pasto alla folla impazzita. In Kenia,
nello Yemen, e via dicendo.
L’11 settembre non è stato che la brutale conferma d’una realtà ormai
fossilizzata. L’indiscutibile diagnosi del medico che ti sventola sul naso la
radiografia e senza complimenti dice: «Caro signore, cara signora, Lei ha
davvero il cancro». Se Clinton avesse speso meno tempo con le ragazze prosperose,
se avesse usato in modo più responsabile la Stanza Ovale, forse
l’11 settembre non sarebbe avvenuto. È inutile aggiungere che, ancor meno, l’11
settembre sarebbe avvenuto se George Bush Senior avesse eliminato Saddam
Hussein con la Guerra
del Golfo. Rammenti? Nel 1991 l’esercito iracheno si sgonfiò come un pallone
bucato. Si disintegrò così velocemente che perfino io catturai quattro dei suoi
soldati. Stavo dietro una duna del deserto saudita, sola sola e indifesa,
quando quattro scheletri scalzi e laceri vennero verso di me con le braccia
alzate. «Bush!» bisbigliarono in tono supplichevole. «Bush!». Parola che per
loro significava: «Ho tanta fame, tanta sete. Fammi prigioniero, per carità».
Io li presi, li consegnai al tenente in carica, e invece di congratularsi
questo brontolò: «Uffa! ne abbiamo già cinquantamila. Glielo dà lei da mangiare
e da bere?». Eppure gli americani non raggiunsero Bagdad. George Bush Senior
non lo rimosse, Saddam.
(«Il-mandato-delle-Nazioni-Unite-era-liberare-il-Kuwait-e-basta). E, per
ringraziarlo, Saddam tentò di farlo assassinare. Infatti a volte mi chiedo se
questa guerra tardiva non sia anche una rappresaglia pazientemente attesa. Una
promessa filiale, una vendetta da tragedia shakespeariana anzi greca.
Il terzo motivo è il modo sbagliato in cui l’ipotetica promessa al babbo s’è
realizzata. Chi oserebbe confutarlo? Dall’11 settembre agli inizi dello scorso
autunno tutta l’enfasi si concentrò su Bin Laden, su Al Qaida,
sull’Afghanistan. Saddam Hussein e l’Iraq furono praticamente ignorati. E solo
quando diventò chiaro che Bin Laden godeva un’eccellente salute perché
l’impegno di prenderlo vivo o morto era fallito, Bush e Powell si ricordarono
del suo rivale. Ci dissero che Saddam Hussein era cattivo, che tagliava la
lingua e gli orecchi agli avversari, che uccideva i loro bambini dinanzi ai
loro occhi. (Vero). Che decapitava le prostitute poi esibiva in piazza le loro
teste. (Vero). Che le sue prigioni straripavano di detenuti politici chiusi in
celle piccole come bare, che gli esperimenti chimici e biologici li eseguiva
con particolare diletto su tali vittime. (Vero). Che aveva legami con Al Qaida
e finanziava il terrorismo, premiava le famiglie dei kamikaze
palestinesi con 25.000 dollari a famiglia. (Vero). Infine, che non aveva mai
rinunciato al suo arsenale di armi letali sicché le Nazioni Unite dovevano
rimandare gli ispettori in Iraq.
D’accordo, ma siamo seri: se negli anni Trenta l’inefficiente Lega delle
Nazioni avesse mandato i suoi ispettori in Germania, credi che Hitler gli
avrebbe mostrato Peenemünde dove Von Braun fabbricava i V1 e i V2 per
polverizzare Londra? Credi che gli avrebbe mostrato i campi di Dachau e
Mauthausen, di Auschwitz e di Buchenwald? Malgrado ciò, la commedia degli
ispettori venne riesumata e con tale intensità che il ruolo di primadonna è
passato da Bin Laden a Saddam Hussein. E nemmeno l’arresto di Khalid Muhammed,
l’architetto dell’11 settembre, ha sollevato un congruo giubilo. La notizia che
Bin Laden sia stato localizzato nel Pakistan Settentrionale e rischi di fare la
medesima fine, lo stesso. Una commedia inzuppata di miserie, oltretutto. Di
vili doppi giochi anzi complicità da parte degli ispettori. Di strategie
sconsiderate da parte di Bush che tenendo il piede in due staffe chiedeva al
Consiglio di Sicurezza il permesso di muover guerra e contemporaneamente
inviava le truppe ai confini con l’Iraq. In meno di due mesi, un quarto di
milione di truppe. Con quelle inglesi e australiane, oltre trecentomila. E
questo senza capire che i nemici dell’America (ma dovrei dire dell’Occidente)
non stanno solo a Bagdad.
Stanno anche in Europa, signor Bush. Stanno a Parigi dove il mellifluo Chirac
se ne frega della pace ma sogna di soddisfare la sua vanità col Prix Nobel
de la Paix. Dove nessuno ha voglia di rimuovere Saddam perché Saddam
è il petrolio che le compagnie petrolifere francesi pompano dal suo Iraq. E
dove, dimenticando il piccolo neo chiamato Pétain, la Francia insegue la
napoleonica pretesa di dominare l’Unione Europea. Assumerne l’egemonia. Stanno
a Berlino dove il partito del mediocre Schröder ha vinto le elezioni
paragonandoLa al loro Hitler. Dove le bandiere americane vengono insozzate con
la svastica simbolo della Germania nazista. E dove, nel miraggio di sostener
nuovamente la parte dei padroni, i tedeschi vanno a braccetto coi francesi.
Stanno a Roma dove i comunisti sono usciti dalla porta per rientrare dalla
finestra come gli uccelli dell’omonimo film di Hitchcock. Dove i preti
cattolici sono più bolscevichi di loro. E dove affliggendo il prossimo col suo
ecumenismo, il suo terzomondismo, il suo fondamentalismo, Karol Wojtyla riceve
Aziz come se fosse una colomba col ramoscello d’olivo in bocca o un martire in
procinto d’esser divorato dai leoni del Colosseo. (Poi lo manda ad Assisi dove i
frati lo scortano fino alla tomba di San Francesco, povero San Francesco).
Negli altri paesi europei, idem o giù di lì. Non L’hanno ancora informata i
Suoi ambasciatori? In Europa i nemici degli Stati Uniti stanno dappertutto,
signor Bush. Ciò che Lei chiama garbatamente «differenze-d’opinione» è odio
puro. Un odio simile a quello che l’Unione Sovietica esibiva fino alla Caduta
del Muro. Il loro pacifismo è sinonimo di antiamericanismo e, accompagnato da
una cupa rinascita di antisemitismo, trionfa quanto in Islam.
Sa perché? Perché l’Europa non è più l’Europa. È diventata una provincia
dell’Islam come la Spagna
e il Portogallo al tempo dei Mori. Ospita sedici milioni di immigrati
musulmani, cioè il triplo di quelli che stanno in America. (E l’America è tre
volte più grande dell’Europa). Rigurgita di mullah, di ayatollah,
di imam, di moschee, di turbanti, di barbe, di burqa, di chador,
e guai a protestare. Nasconde migliaia di terroristi che i nostri governi non
riescono né a controllare né ad identificare. Ergo la gente ha paura e
sventolando la bandiera del pacifismo, pacifismo-uguale-antiamericanismo, si
sente protetta. Quasi ciò non bastasse, l’Europa li ha dimenticati i 221.484
americani morti per lei nella Seconda guerra mondiale… Dei loro cimiteri in
Normandia, nelle Ardenne, nei Vosgi, nella vallata del Reno, in Belgio, in
Olanda, in Lussemburgo, in Lorena, in Danimarca, in Italia, non gliene importa
un bel nulla. Anziché gratitudine l’Europa prova invidia, gelosia, livore e
nessuna nazione europea appoggerà questa guerra, signor Bush. Nemmeno quelle
veramente alleate come la
Spagna o rette da tipi che come Berlusconi La chiamano «il
mio amico George».
In Europa lei ha un amico e basta, un alleato e basta: Tony Blair. Però anche
Blair regge un Paese invaso dai Mori e verso gli Stati Uniti pieno di invidia,
gelosia, livore. Persino il suo partito lo rimbecca, lo osteggia. E a
proposito: devo chiederLe scusa, signor Blair. Devo in quanto nel mio libro «La
rabbia e l’orgoglio» sono stata ingiusta con lei. Sviata dal suo eccesso di
cortesia nei riguardi della cultura islamica ho scritto che era una cicala tra
le cicale, che il Suo coraggio non sarebbe durato a lungo, che appena non fosse
più servito alla Sua carriera politica lo avrebbe messo da parte. Invece quella
carriera politica la sta sacrificando alle proprie convinzioni. Con coerenza
impeccabile. Davvero mi scuso e ritiro anche la brutta frase che aggravava
l’ingiustizia: «Se la nostra cultura ha lo stesso valore d’una cultura che
costringe a portare il burqa, perché passa le vacanze nella mia Toscana
e non in Arabia Saudita o in Afghanistan?». E Le dico: «Ci venga quando vuole.
La mia Toscana è la Sua
Toscana, e la mia casa è la Sua casa. My home is your home».
Il motivo finale del mio dilemma sta nei termini con cui Bush e Blair e i loro
consiglieri definiscono questa guerra. «Una guerra di liberazione, una guerra
umanitaria per portare la libertà e la democrazia in Iraq». Eh no, cari
signori, no. L’umanitarismo non ha niente a che fare con le guerre. Tutte le
guerre, anche quelle giuste, anche quelle legittime, sono morte e sfacelo e
atrocità e lacrime. E questa non è una guerra di liberazione. (Non è neanche
una guerra di petrolio, sia chiaro, come molti sostengono. Contrariamente ai
francesi, gli americani non hanno bisogno del petrolio iracheno). È una guerra
politica. Una guerra fatta a sangue freddo per rispondere alla Guerra Santa che
i nemici dell’Occidente hanno dichiarato l’11 settembre. È una guerra
profilattica. Un vaccino come il vaccino contro la poliomelite e il vaiolo, un
intervento chirurgico che s’abbatte su Saddam Hussein perché tra i vari focolai
di cancro Saddam Hussein appare il più ovvio. Il più evidente, il più
pericoloso.
Inoltre Saddam costituisce l’ostacolo, (pensano Bush e Blair e i loro
consiglieri), che una volta rimosso gli permetterà di ridisegnare la mappa del
Medio Oriente. Insomma far quello che gli inglesi e i francesi fecero dopo il
crollo dell’impero ottomano. Ridisegnarla e diffondere una Pax Romana,
pardon, una Pax Americana dove regni la Libertà e la Democrazia. Dove
nessuno dia più fastidio con gli attentati e le stragi. Dove tutti possano
prosperare, vivere felici e contenti. Sciocchezze. La libertà non può essere
data in regalo come un pezzo di cioccolata, e la democrazia non può essere
imposta con gli eserciti. Come diceva mio padre quando invitava gli
antifascisti ad entrare nella Resistenza, e come dico io quando parlo con
coloro che credono onestamente nella Pax Americana, la libertà bisogna
conquistarcela da soli. La democrazia nasce dalla civiltà, e in entrambi i casi
bisogna sapere di cosa si tratta. La
Seconda guerra mondiale fu una guerra di liberazione non
perché regalò all’Europa i due pezzi di cioccolata cioè due novità chiamate
Libertà e Democrazia, ma perché le ristabilì. E le ristabilì perché gli europei
le avevano perdute con Hitler e Mussolini. Perché le conoscevano bene, sapevano
di che si tratta.
I giapponesi no. Ne convengo. Per i giapponesi i due pezzi di cioccolata furono
un regalo che li rimborsava, oltretutto, di Hiroshima e Nagasaki. Però il
Giappone aveva già iniziato la sua marcia verso il progresso, e non apparteneva
al mondo che ne «La Rabbia
e l’Orgoglio» chiamo La
Montagna. Una montagna che da 1.400 anni non si muove, non
cambia, non emerge dagli abissi della sua cecità. Insomma, l’Islam. I moderni
concetti di libertà e di democrazia sono del tutto estranei al tessuto
ideologico dell’Islam, del tutto opposti al dispotismo e alla tirannia dei suoi
Stati teocratici. In quel tessuto ideologico è Dio che comanda, è Dio che
decide il destino degli uomini, e di quel Dio gli uomini non sono figli bensì
sudditi, schiavi. Insciallah-Come Dio Vuole-Insciallah. Ergo nel
Corano non v’è posto per il libero arbitrio, per la scelta, cioè per la libertà.
Non v’è posto per un regime che almeno giuridicamente è basato
sull’uguaglianza, sul voto, sul suffragio universale, cioè per la democrazia.
Infatti quei due moderni concetti i musulmani non li capiscono. Li rifiutano e
invadendoci, conquistandoci, vogliono cancellarli anche dalla nostra vita.
Sorretti dal loro caparbio ottimismo, lo stesso ottimismo con cui a Fort Alamo
combatterono con tanto eroismo e finirono tutti massacrati dal generale Santa
Ana, gli americani sono certi che a Bagdad verranno accolti come a Roma e a
Firenze e a Parigi. «Ci applaudiranno, ci getteranno fiori» mi ha detto tutto
contento una testa d’uovo di Washington. Forse. A Bagdad può succedere di
tutto. Ma dopo? Che succederà dopo? Oltre due terzi degli iracheni che nelle ultime
«elezioni» hanno dato il cento per cento dei voti a Saddam sono sciiti che da
sempre vagheggiano di stabilire la Repubblica islamica dell’Iraq. E negli anni
Ottanta anche i sovietici vennero accolti bene a Kabul. Anche i sovietici
imposero la loro pax con l’esercito. Convinsero addirittura le donne a
togliersi il burqa: rammenti? Però dieci anni dopo dovettero andarsene,
cedere il passo ai Talebani. Domanda: e se, invece di scoprire la libertà,
l’Iraq diventasse un secondo Afghanistan? E se, invece di imparare la
democrazia, l’intero Medio Oriente saltasse in aria o il cancro si
moltiplicasse? Di paese in paese, con una specie di reazione a catena… Da
occidentale fiera della sua civiltà e quindi decisa a difenderla fino
all’ultimo fiato, senza riserve dovrei in tal caso unirmi a Bush e a Blair
asserragliati dentro una nuova Fort Alamo. Senza riluttanze dovrei in tal caso
combattere e morire con loro.
Il che è l’unica cosa sulla quale non ho il minimo dubbio.