PREGHIERA PER INIZIATO O PER PROFANO?
CONSIDERAZIONI SUL PATER
La preghiera del PATER è riportata nei libri del nuovo testamento così detti legali che comprendono i quattro Vangeli Sinottici espressi in ordine cronologico di stesura, e cioè quelli di Matteo, di Marco, di Luca e di Giovanni. Gli Evangeli furono scritti in greco tranne quello di Matteo, che si presume fosse stato vergato in Aramaico, il cui originale, ora perduto, fu tradotto in greco presumibilmente negli ultimi decenni del primo secolo. La datazione dell’originale non è nota, ma si presume anteriore a quello di Marco che si pone fra il 55 ed il 58 d.C. Gli altri Vangeli sono databili al più tardi entro il 65 d.C… Due sono le versioni del PATER. La prima, quella riportata da Matteo è quella attualmente recitata nelle comunioni cristiane, la seconda, riferita da Luca, è più sintetica ed è quella che voglio prendere in esame in questa tavola.
PADRE, SIA SANTIFICATO IL TUO NOME, VENGA IL TUO REGNO; DACCI OGNI GIORNO IL NOSTRO PANE QUOTIDIANO E PERDONACI I NOSTRI PECCATI, PERCHÉ ANCHE NOI PERDONIAMO AD OGNI NOSTRO DEBITORE E NON ci INDURRE IN TENTAZIONE.
Il testo di Luca si inserisce all’interno di una catechesi più ampia che culmina con la richiesta dello SPIRITO. Quale padre tra voi, se il figlio gli chiede un pesce, gli darà al posto del pesce una serpe? O se gli chiede un uovo, gli darà uno scorpione? Se dunque Voi, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro celeste darà lo SPIRITO a coloro che glielo chiedono” (Luca 11,11-13). “Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto. Poiché chi chiede ottiene, chi cerca trova e a chi bussa gli sarà aperto” (Luca 11,9-10).
Padre! Esaminiamo più a fondo l’invocazione, proponendo delle banali comparazioni basate su presupposti gerarchici. Mi indirizzo a Lei, signor Presidente! Da questa frase non ne scaturisce in modo automatico il rapporto esistente fra me e il Presidente. Meno ancora tra me ed il Presidente con gli altri. Il Presidente risulta quasi un concetto astratto. E il mio Amico. In questo caso il rapporto è più chiaro, ma non coinvolge direttamente il mio prossimo, perché in realtà l’amico, in un rapporto a due, è solo il mio amico e non ne consegue necessariamente che lo sia anche di altri. Nel caso della preghiera attribuita a Gesù, il problema si pone in termini più avvolgenti. Innanzi tutto il vocabolo espresso nella lingua originale era certamente ABBA, traducibile in italiano con il termine confidenziale. “papà”. È un termine squisitamente filiale adatto a chi aveva chiesto a Cristo “insegnaci a pregare”. È una parola adatta all’apprendista, anoi tutti apprendisti. Ben diversa è l’invocazione che si attribuisce al Gesù morente “Eloì, Eloì, lamma sabactani” quando il Cristo perde la sua identificazione con l’Io e ne ha piena consapevolezza. Il Sé divino è rientrato nell’Abbà, che a quel livello di trascendenza non è più Abbà ma Eloì. Se invoco il papà sono logicamente suo figlio e quindi in questo caso il rapporto è chiaro, diretto, generatore-figlio, figlio-generatore.
Il vocabolo Abbà, nel linguaggio originale in cui era espresso, non creava problemi interpretativi.
Sono stati i due Evangelisti, nella stesura greca, (originale o tradotta) a fornire la loro interpretazione del termine suddetto in base alla propria ispirazione, conseguente al proprio modo di sentire e, soprattutto, di spiegare ai discepoli, e cioè: Padre nostro e Padre. A prima vista la differenza può sembrare insignificante, ma, a mio avviso, il testo di Luca è forse, sotto il profilo esoterico, più vicino al termine Aramaico. Padre, Principio, assunto a livello universale senza bisogno di aggettivi che spieghino. Il Padre, il Principio, è. Semplicemente è, non è né mio, né tuo, né nostro, né di chicchessia, è. Nel caso della traduzione di Matteo a noi giunta, il termine Abbà è stato tradotto in Padre nostro, per rendere più evidente il concetto di fratellanza. Se io, tu, lui, altri, siamo figli dello stesso padre, siamo implicitamente fratelli. In Lui siamo chiamati a divenire “una sola cosa”, siamo chiamati dalla dispersione all’unità: “non vogliate essere chiamati maestri, perché uno solo è il vostro maestro € voi siete tutti fratelli” (Matteo 23,8).
Sia santificato il tuo nome. Bisogna riferirci alle preghiere ebraiche laddove il verbo santificare si trova spesso in parallelo ad un verbo più vicino alla nostra comprensione, e cioè magnificare, in altre parole valorizzare un qualcuno o un qualcosa in tutta la sua grandezza. Qui il termine “sia santificato- sia magnificato” deve essere visto come impegno del figlio a compiere una determinata azione. È quindi deve intendersi come un fatto attivo del figlio e non come un fatto attivo del Padre che non ha bisogno di “santificare” il proprio nome. Nel primo caso ci troviamo di fronte ad un significato etico che deriva dal secondo, che è ontologico, perché l’agire (etico) risulta dall’essere (ontologico). Cosa deve essere lodato e magnificato? Il nome del padre. Il problema si pone in termini di conoscenza. Siamo alla ricerca della parola perduta, forse del Nome, non perduto, ma molto più semplicemente non conoscibile. Non conosciamo neppure il nostro nome, il nostro suono, come potremmo santificare il nome del Padre?
Recita la sacra legge “non nominare il nome di Dio invano”. Se vogliamo essere razionali non saremmo neppure in grado di bestemmiare poiché il nome “Dio” non è il Suo nome e di conseguenza qualsiasi aggettivo, per volgare e triviale che sia, non potrà mai aderire a qualcosa che non esiste. Ogni aggettivo è per sua natura comunque limitativo e pertanto qualsiasi attributo, che nella nostra ignoranza definissimo esaltante, resterebbe, nell’ipotesi di considerare quale bestemmia solo l’attributo negativo, altrettanto una bestemmia. Dio non può essere limitato: semplicemente è. L’invocazione “sia santificato il tuo nome” è, in termini concreti, un atto di fede, più che di devozione, poiché dobbiamo magnificare un qualcosa di cui non siamo, allo stato attuale della nostra immanenza, consapevoli. Il tetragramma sacro è pronunciato raramente dal Rabbino e mai a cielo aperto. È un simbolo, forse uno dei meno distanti dalla verità, ma resta solo un simbolo, un modo di rappresentare un trascendente, una chiave di lettura, un mezzo per la conoscenza, ma non è il Suo nome. Se pronunciassimo il nome del Padre saremmo una cosa unica con Lui.
Venga il tuo regno.
Dice Luca “il regno è in mezzo a noi”. Così essendo, l’invocazione potrebbe sembrare pleonastica. Ci troviamo qui nuovamente tra un modo di azione (venga) ed uno ontologica (è). | Il valore di azione del termine venga può essere probabilmente legato ad una valutazione che il manifestato fa nella sua immanenza. L’iniziato potrà forse vedere, se iniziato è, che il regno è in mezzo a noi, il cieco e il monocolo nella propria totale o parziale non consapevolezza non hanno la capacità di guardarsi attorno e di vedere ed allora il “venga il tuo regno” si tramuta in “fa che io veda”. Il tema può aprire a questo punto la mai risolta tematica relativa al bene e al male. Se il regno “deve” venire, può significare che la luce dovrà vincere sul buio. Significa che esiste il bene e il male, significa che esiste la luce e il buio, che esiste il bianco e il nero. Le antinomie sono il risultato dell’azione, del movimento, del pendolo, cioè della vita. La posizione centrale, neutra, non dinamica, priva di quello che noi intendiamo per vita, è quella che non prevede azione, è esclusivamente ontologica, è, 1à dove non esiste né bene né male, né luce né buio, né bianco né nero. E probabilmente lo “Jod”. La sua contrapposizione genera “Hè” il suo opposto, da cui ne consegue il “Vau” lo spirito, la vita. Il secondo “Hè”, l’antinomia al ternario, potrebbe rappresentare noi che ci rivolgiamo al Padre chiedendo che venga il Suo regno, che il secondo “Hè”rientri nel ternario, che il ternario rientri nello “Jod”. E il ritorno al Padre celeste.
Dacci ogni giorno il nostro pane quotidiano
Ci troviamo di fronte ad una richiesta in cui può sembrare che l’immanenza faccia premio sulla trascendenza.
Nelle due versioni del PATER, quella di Matteo è legata al “dacci oggi” anche alla luce del «non affannatevi dunque per il domani, perché il domani avrà già le sue inquietudini” (Matteo 6, 34a), oppure “a ciascun giorno basta la sua pena” (Matteo 6, 34b). _ Nel tradito di Luca il “ogni giorno” prevede un dare, sempre rinnovato, nella consapevolezza dell’insicurezza del manifestato. Questo per quanto attiene ad “oggi”. Parliamo ora di “pane”. È il nutrimento fisico. Cambiamo ottica e osserviamo la tradizione cristiana. Nel rituale magico della transustanziazione il pezzo di pane si trasmuta alchemicamente in Corpo di Cristo. È un altro modo di nutrirsi. “Perdonaci i nostri peccati perché anche noi perdoniamo ad ogni nostro debitore”. È questo senza dubbio uno dei brani più complessi e coinvolgenti del PATER. Secondo la tradizione con questa invocazione il discepolo e la comunità orante entrano nel cuore del problema: Dio è colui che perdona, non solo nell’ora del giudizio finale (secondo la tradizione cristiana cattolica) ma già nell’adesso quotidiano. Di primo acchito, nell’ottica di una prima lettura superficiale, non è escluso che l’invocazione suddetta possa essere interpretata quasi come un “do ut des”. Per uscire da questo impasse dobbiamo intenderla piuttosto come un modo di imparare. Potrebbe essere un insegnamento: insegnaci a perdonare prendendo come esempio il fatto che Tu ci perdoni. A questo punto il tema si complica per alcuni problemi fondamentali di difficile approccio.
- Quali sono i nostri peccati? Esistono davvero i nostri peccati? In che cosa consistono i nostri peccati? Se il peccato può essere inteso come uno scostamento dalla legge, quale è questa legge? E anche se noi pensiamo che una o la legge universale abbia in noi creato una matrice di carattere legislativo comune, siamo noi sicuri di saperla riconoscere? Non è forse forma di orgoglio il credere di conoscerla dimenticando la nostra limitatezza legata alla nostra cecità? Forse il peccato è solo negazione dell’amore di Dio.
Ma può essere negato l’amore di Dio?
2)Come si manifesta il perdono di Dio? Noi consideriamo come un assioma il fatto che Dioci perdoni su nostra richiesta: è una dichiarazione di fede. Ma se è ineluttabile che Dio ci perdoni, questo perdono cessa di essere meritorio e resta soltanto necessario: ma solo su nostra richiesta. E allora?
3) Chi sono i nostri debitori? Sono sicuro che un debitore sia realmente un debitore o sono soltanto io che lo penso? Il debito e il credito sono legati in maniera indissolubile all’azione del possedere. E il possesso non è forse un furto? E il debitore e il creditore non sono forse entrambi dei ladri? Quesiti con difficili risposte e forse solo quando riuscirò a salire il primogradino che mi stacca dall’immanente capirò il valore di una banale battuta sostitutiva: “amatevi gli uni gli altri come io ho amato voi”.
C’est plus facile! O no?
E non ci indurre in tentazione.
Nell’originale il verbo è al congiuntivo proibitivo e non all’imperativo come nella Vulgata. È una invocazione e non un ordine. Cosa significa tentare? Nell’antico testamento “tentare” ha il significato di mettere alla prova.
Dice la Scrittura: “Il Signore Dio nostro ci mette alla prova come lo ha già fatto con i nostri padri. Ricordatevi quanto ha fatto con Abramo, quali prove ha fatto passare a Giacobbe. Certo il Signore ha passato al crogiolo costoro non altrimenti che per saggiarne il loro cuore”. La sua funzione non è il castigo ma la purificazione, la catarsi. “Scrutami, Signore, e mettimi alla prova: raffinami al fuoco il cuore e la mente”. Cosa c’è, in potenza, di molto diverso nelle prove di iniziazione che sono la base per il processo della conoscenza? Secondo la tradizione cristiana nel Cristo è presente il Dio Incarnato e come tale spogliato delle sue qualità divine ed identificato con le limitazioni umane. Per tale ragione “pur essendo figlio imparò l’obbedienza delle cose che patì” (Eb 5.8). Per questo possiamo pensare che questa invocazione non sia legata alla tentazione – prova quanto piuttosto ad un altro tipo di tentazione, la tentazione – astuzia che tende a suscitare il sentimento del potere. La richiesta “non ci indurre in tentazione” diventa quindi autentica quando è consapevole della logicità della tentazione, del suo fascino seduttivo, della sua perenne contemporaneità. E’ la richiesta che ci vengano concesse le qualità del sermone delle beatitudini; che possiamo rimanere poveri in spirito, puri di cuore, afflitti, miti, pacificatori, perseguitati per causa della giustizia. Al momento in cui avrò preso atto di questa consapevolezza, avrò superato un altro piccolo gradino sulla lunga e difficile via iniziatica. Sarà il momento in cui con coscienza e con serenità potrò senza né timore né orgoglio superare il “non ci indurre in tentazione” per chiedere umilmente: “Dio , tu ci hai messo alla prova, ci hai passato al crogiolo come l’argento”. Sarà il momento in cui sarò consapevole della validità della citazione: “Non chiamate nessuno sulla terra padre vostro, perché uno solo è il vostro Padre, quello che è nei cieli”. E se ognuno fosse figlio di Se stesso? Amen.
A.‘.G.’,D.’.G.’.A.’.D.’.U.’.
TAVOLA SCOLPITA DAL FR.’. EMILIO SCIOLDO
19 giugno 1987 dell’e.’.v.’.