CONOSCERE SE STESSI III°

Conoscere se stessi (III)
Questa sera proverò ad affrontare, sia pure di lontano, con forze tanto inadeguate, il segreto dei segreti, l’arcano degli arcani, voglio, insomma, provare a parlare della totalità dell’io. Nella prima tavola abbiamo disegnato l’obiettivo del conoscere se stessi, “arrestare le acque”, che passa attraverso alcuni obiettivi precedenti, quali “rompere con la propria descrizione del mondo” e crearsi l’atteggiamento dell’iniziato “vigile con timore, con rispetto e con assoluta sicurezza”. Nella seconda tavola abbiamo sollecitato lo strumento a parlare di se stesso: nel momento in cui si parlava del mentale, del suo modo di operare, dei nemici che egli pone sulla via, della paura e del potere, chi era a parlare di tutto ciò e chi impegnato ad ascoltarlo e a dare alle parole un senso coerente, se non i nostri mentali? Nessuna illusione, rispettabili Maestri: quello che è terrorizzato dalle acque e che ne può essere travolto e ucciso è il nostro mentale, così come colui che è vinto dalla paura e dal potere è ancora il nostro mentale, che, in una folle esasperazione della difesa della propria posizione di guardiano, è disposto ad annientare se stesso pur di non essere ricondotto alla sua reale posizione di strumento; oppure ad ampliare un poco le sue facoltà ordinarie, fino ad un recupero di “poteri” assolutamente naturali, quanto dimenticati dall’uomo della strada, purché tali poteri rimangano sotto il suo controllo. Ecco perché chi cede al potere ha perso la battaglia: fondamentalmente perché non ha saputo superare il proprio mentale, facendolo docile strumento in luogo di padrone. Ben conosce la folle disponibilità del mentale ad annientare se stesso, colui che ha provato senza il sufficiente “timore” e “rispetto” qualche tecnica di meditazione profonda: fortunato lui se può ancora parlarne con qualcuno. Fino a questo punto, dunque, abbiamo curato e rafforzato lo strumento, ma non si è ancora manifestato il padrone dello strumento, colui per il quale – concludevamo la volta scorsa “intelligenza, coscienza e volontà sono state pacificate, domate ed hanno assunto il loro ruolo di docili, quanto potenti strumenti”. In altre parole domandiamoci: “Strumenti per chi? Chi li potrà e dovrà usare se non io stesso? Ma allora chi sono “io stesso” distinto da intelligenza, coscienza e volontà? Nel provare a dare la risposta avviene la tragedia: la risposta non è possibile, perché qualunque essa sia, essa viene ovviamente costruita dal mentale stesso. L’anima, risponde il cattolico integralista. Lo spirito, terzo componente dell’uomo, con il corpo e l’anima, risponde il cultore della tradizione. Dio, potrebbe rispondere il panteista. In realtà anima, spirito, Dio non sono altro che creazioni del mentale, sottoposto a stimoli di carattere a volte molto diverso, da quello religioso puro a quello della necessità a quello intellettuale filosofico. La conclusione “logica” sarebbe che non può esistere questa parte dell’io della quale non si può parlare, perché solo parlarne sarebbe automatica contraddizione e che, pertanto, non si manifesterà mai; o, al limite, se esiste, ma non può manifestarsi, non ha alcun senso ricercarla. Con queste “logiche” conclusioni il mentale ha definitivamente vinto la sua battaglia a difesa di se stesso. A meno che ……. A meno che non esista un linguaggio, una forma di manifestazione che non appartiene alla logica, attraverso la quale la “altra metà dell’io” – provo per ora a chiamarla così – abbia la possibilità di emergere e, addirittura, di prendere il sopravvento, raggiungendo il ruolo che naturalmente le compete. Se questa forma di manifestazione esiste, essa deve per forza avere la caratteristica di essere molto potente, là dove il mentale è debole, e comunque deve utilizzare vie non appartenenti al mentale stesso, ma sufficientemente vicine a lui, per poter penetrarvi fino ad impadronirsene. Per esemplificare, possiamo dire che queste forme di manifestazione ” non possono appartenere alle strutture logiche normalmente utilizzate, ” non possono esercitare un’azione di apprendimento, ma debbono operare un’azione di modifica essenziale, |malgrado ciò il ‘linguaggio”, il modo di comunicare, deve essere tale per cui la conoscenza acquisita diventa parte sempre più dominante del mentale, fino a permettere (ma stiamo parlando dell’adepto completo) il dominio totale del mentale stesso, senza ucciderlo, né menomarlo. Abbiamo cosi necessità di pensare che esistano dei “ponti”, dei collegamenti tra le due componenti dell’io, attraverso i quali esse possano entrare in relazione, attraverso i quali chi ha già percorso la Via, possa indicarla agli altri. Credo che troppe volte ci siamo sentiti dire che il SIMBOLO agisce su colui che lo studia e non deve e non può essere appreso razionalmente; che il simbolo agisce attraverso via di intuizione e di illuminazione che non fanno parte delle logica tradizionale; che il simbolo deriva da una parola greca, che significava propriamente “congiungimento”. Non riconosciamo allora nel linguaggio simbolico, e nei simboli appunto, quella forma di manifestazione e di linguaggio che cercavamo? Il nostro guardiano geloso non e forse costretto a confessarsi vinto da un linguaggio che non gli appartiene, ma che può dominarlo, proprio perché penetra in lui attraverso vie misteriose che nulla hanno a che fare con “la comprensione” e “l’apprendimento tradizionale”? Al massimo il mentale può fare tutto il possibile per tenerci lontani dall’azione del simbolo, nei modi più vari e a diverso livello di sofisticazione, come al solito, dalla stupida arroganza irridente per tutto ciò che odora di tradizionale, alla paura per il linguaggio simbolico – due gradi di grossolanità diversi -. Vogliamo sfiorare, per un attimo, l’importanza dell’attività del sogno, durante il sonno, per il linguaggio simbolico: attraverso il sogno, il simbolo lavora in tutta la sua potenza, approfittando appunto del fatto che la mente è in stato di quiete. Ebbene, il mentale si difende, in primo luogo, facendo sì che il sonno sia sufficientemente “pesante”, perché il discorso simbolico non possa mai essere ricordato, cioè affiorare a livello cosciente; per fare ciò il mentale crea di sana pianta situazioni complicatissime, che possono giungere allo stato di nevrosi, per spingere l’uomo ad assumere cibi sufficientemente pesanti alla sera. A questo proposito, mi pare valga la pena di ricordare che in quasi tutte le tradizioni esiste, in misura maggiore o minore, il concetto di “mortificazione fisica” per percorrere la Via, anche se si sono persi il significato reale, la reale motivazione. Mi pare che, per tutte valga la pena di ricordare la regola dei frati trappisti, che vengono svegliati ogni quattro ore, durante la notte: è noto che lo stato di dormiveglia è il più propizio al ricordo del sogno. In realtà il sogno e una delle vie fondamentali di manifestazione comunicazione della “altra metà dell’io” e un iniziato dovrebbe, ad un certo punto, essere in grado di imporsi l’argomento del sogno, permettendo alla “altra metà dell’io” di manifestarsi non casualmente e in modo disordinato, ma secondo la progressione adatta allo stato di coscienza, raggiunto via via dall’iniziato stesso. Molto più interessante, perché estremamente sofisticata, mi pare poi la difesa più “moderna” del mentale, giusto adatta a questo uomo un poco mentecatto del XxX secolo. La moderna psicanalisi utilizza il sogno come manifestazione del cosiddetto inconscio, il quale – razionalmente, dopo la interpretazione dello psicanalista – manda dei segnali alla coscienza, relativi a sue turbe dimenticate o rimosse: il prendere coscienza contribuisce potentemente a guarire situazioni di nevrosi. Quale elegantissimo metodo per accettare, da parte del mentale, il potente stimolo dei sogni, per poi “razionalizzarlo”, riportarlo cioè sotto il suo stretto controllo, magari servendosi dell’autorità difficilmente confutabile di un professionista appositamente pagato allo scopo! Un’ultima segnalazione mi pare meriti poi la difesa sofisticata tradizionale, che consiste nel creare una grande confusione tra simbolo, allegoria, segno, distintivo indicatore, parabola, il tutto nel tentativo – ahimè riuscito – di spingere l’uomo a “capire” il simbolo, interpretandolo razionalmente e magari pretendendo di “spiegarlo” ai neofiti in chiave più o meno allegorica: abbiamo valanghe di volumi, purtroppo scritti in questo nefasto tentativo. Ma i vecchi maestri sapevano tutto ciò per avere provato su se stessi le infinite tentazioni e lusinghe del mentale ed hanno avuto la bontà di lasciare dietro di sé, sotto forma di scritti, di monumenti architettonici, di sculture o di semplici oggetti come quelli che si trovano in questo Tempio,il filo di Arianna per indicare la Via. Il linguaggio oscuro e misterioso, la complicazione del monumento, la poca chiarezza dell’indicazione non potevano essere diversi: sui simboli noi dobbiamo lavorare con fatica, affinché essi operino, si attivino: se il linguaggio fosse chiaro, il tutto diventerebbe fatto di cultura, di apprendimento mentale e la via sarebbe chiusa per sempre. Ci troviamo, Venerabili Maestri, di fronte alla prova del fuoco, l’ultima. Gli antichi ci dicono che i fuochi in realtà sono tre, quello volgare del fornello, quello di natura e quello celeste, così come appunto sono tre luci, tre fuochi, quelli che fanno risorgere Hiram dalla bara. In quale stato avvenga la resurrezione del maestro, come il regolo abbia colpito la gola-passione, come la squadra-materia abbia colpito il cuore e il maglietto abbia dato il colpo di grazia alla mente, queste sono altrettante esperienze da vivere, ben coscienti che si va incontro alla morte, nella certezza della resurrezione. Allora nel segno del Mercurio dei filosofi, gli elementi riprenderanno il loro posto naturale e il sole comanderà alla luna, e attraverso questa al corpo; ci sentiremo dire: “Abi, adeptus es”, come nell’ultima tavola del Liber Mutus. Ma queste sono parole per me ancora senza alcun significato, che ripeto, copiando pedissequamente da chi le disse prima di me, nella speranza che esse si rivelino altrettanto vere e sperimentalmente verificabili di altre parole che mi furono dette prima e che ho cercato, nei modi di cui ero capace, di ritrasmettere nel corso di queste tre serate.
3 febbraio 1983 dell’e.’.v.’.

TAVOLA SCOLPITA DAL FR.’. FABRIZIO COLONNA

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