CONOSCERE SE STESSI (I)
Vi propongo una serata un poco particolare come metodo di lavoro. Il M.’. V.’. mi ha posto un tema da trattare che, come ricorderete, riguarda la conoscenza di se stessi, del proprio io, Non tratterò il tema in chiave storica, né filosofica, quindi non aspettatevi dotte citazioni di autori passati: cercherò invece di spogliarmi da qualunque tentazione intellettualistica per essere solo me stesso a proporvi del materiale sperimentale. A questo sforzo personale, chiedo corrisponda il vostro: prego anche di dimenticare per un momento cultura, letture, apprendimento intellettuale; di lasciare che le parole che dirò evochino sensazioni, ricordi, echi, esperienze vissute, che varrà poi la pena di mettere in comune dopo, durante la comunicazione che vorrei meglio chiamare “lavoro di gruppo”. Come vedete, con il permesso del M.’. V.’., è un esperimento di metodo di lavoro che vi propongo: chiedo di provare e poi, eventualmente, di giudicare dopo le tre tornate, di cui questa è la prima. Ciò detto sul metodo, ancora due parole sulla terminologia. Dal punto di vista iniziatico “conoscere” non significa “pensare”, ma “essere” l’oggetto conosciuto. Non si conosce qualcosa senza averlo realizzato: conoscenza ed esperienza fanno un tutt’uno e per questo tante volte ho qui affermato che il metodo iniziatico è metodo sperimentale puro. Però, per il profano, l’unica forma di esperienza possibile è quella sensibile, mentre l’insegnamento tradizionale sostiene la possibilità di più forme di esperienza, delle quali quella sensibile non è che una particolare. Queste forme corrispondono ciascuna a un modo di percepire e descrivere il mondo e possiamo pensarle in evoluzione l’una nell’altra, senza salti di continuità dal fenomenico all’assoluto. In realtà la tendenza intellettuale a risolvere questo o quel problema filosofico, creando teorie e sistemi, è vano e non conduce a nulla. Al mistero ci si avvicina per apprendere una esperienza del sacro, non per apprendere: il problema è come ottenere la trasformazione della esperienza superando quella puramente sensibile, quali sono i mezzi. Non a caso la via iniziatica occidentale utilizza una simbologia di Arte regia, di Grande Opera, di Costruzione del Tempio e quella orientale parla del Tao, della vita da percorrere: queste sono sistemi operativi, non di apprendimento. Il primo passo da compiere sulla strada della conoscenza di se stessi è proprio questo: divenire consapevoli che la realtà sperimentale che percepiamo con i nostri sensi non è la realtà, ma una “descrizione del mondo” che ci è stata presentata fin da quando eravamo bambini, da chi ci circondava: la famiglia, gli amici, la scuola, la visione comune. La “descrizione del mondo”, di cui parlo, non è un concetto filosofico, ma è la somma di quelle interpretazioni che tutti o momenti, anche ora, diamo delle percezioni che abbiamo attraverso i sensi, è quel sistema di interpretazioni che usiamo per percepire, dedurre, prevedere, relativamente alla nostra attività quotidiana. Esso è del tutto arbitrario e non corrisponde affatto alla realtà. La scienza profana ci aiuta dal punto di vista intellettuale: con gli occhi noi riusciamo a percepire solo una gamma molto piccola delle radiazioni luminose, essendoci precluse tutte quelle lunghezze d’onda che noi chiamiamo infrarosso e ultravioletto; con l’orecchio, in modo analogo, non percepiamo tutta una gamma di oscillazioni di pressione, molto più ampia di quelle che noi chiamiamo suoni; il tatto grossolano ci fa apparire solido e compatto ciò che è costituito di atomi e molecole ben distanziati ed in continua oscillazione, mentre il nostro cane è in grado continuamente di darci lezioni sulla effettiva utilizzazione dell’odorato. Sarebbe, pertanto, stupido pensare che la realtà sia ciò che noi percepiamo. Come se ciò non bastasse, ogni uomo è normalmente così sciocco da pensare di essere la cosa più importante del mondo: si sente in diritto di irritarsi di le tutto e di andarsene sbattendo la porta, se cose non vanno nel modo a lui congeniale, pensando magari di dare così prova di carattere. Così facendo si comporta, in realtà, da debole presuntuoso e distorce la percezione del mondo tanto da non poterlo più nemmeno percepire: come un cavallo con il paraocchi vede solo se stesso distinto da tutto il resto. La descrizione del mondo, già oggettivamente effimera e parziale, diventa ancora meno corrispondente alla realtà perché ulteriormente viziata dalla soggettività esasperata. Se non si ha paura di rompere con la propria descrizione del mondo, non in modo teorico e intellettuale, – ripeto ancora – ma utilizzando tutti i mezzi concreti per viverne l’arbitrarietà, consapevoli del senso di angoscia, di ansia e si incertezza al quale si va incontro, lo si faccia, senza perdere tempo, con decisione e consapevolezza, ricordando che, mal grado l’orrore delle situazione nella quale ci si viene a trovare, questo non è che il primo passo, anzi il primo viaggio, la prima prova, quella attraverso la terra. La seconda prova deve ancora venire. Abbandonato lo spettacolo-illusione dei fenomeni materiali ci si incontra con una realtà molto diversa da quella di prima, con la Forza primordiale che regge la vita di tutti gli esseri. La chiamavano Acque corrosive, Drago, Mostro che uccide; la sua natura è brama, appetito insaziabile, necessità irresistibile, furia cieca anelante alla propria soddisfazione. Non è attrazione mitologica, né favola, né modello costituito dai teorici: ciascuno di noi ha avuto occasione di toccare inavvertitamente un oggetto incandescente o un filo elettrico scoperto; ciascuno di noi ha provato l’attimo di paura mortale: la reazione pronta, velocissima non è stata provocata né dall’“io”, né dalla “volontà”, ma da qualche cosa di più violento, profondo e veloce che ha agito. Tanti episodi di cronaca, la cui motivazione pare essere “improvviso impeto di ira cieca”, “colto da raptus”, “in preda al panico”, sono fenomeni in cui essa appare allo scoperto, violenta e tenebrosa. Ma anche escludendo questi attimi di esplosione, è possibile percepirne il sordo brontolio, quale sottofondo della nostra vita: le convinzioni radicate e irrazionali, gli atavismi, i moti istintivi, la componente animale biologica, cieco istinto e desiderio allo stato puro, che covano Sotto la crosta superficiale di noi “uomini civili” ne sono l’eco. Pur di soddisfare la sua brama, essa assume gli aspetti e le forme intellettuali più diverse, al fine di placare la “ragione” che le si oppone: più si “vuole” contro di essa, più essa si alimenta, più si cerca di dominare la propria paura, più questa cresce, più si cerca di riposare, più il sonno sfugge, più la coscienza cerca di soffocare la “passione”, più questa diventa violenta e morbosa, Abbiamo il coraggio di spiarla e di divenire consapevoli di alcune verità: voglio io la mia forma corporale, il mio respiro, le funzioni del cuore o del fegato? Ma peggio ancora, La “mia coscienza”, il mio “io”, la mia “volontà”, li voglio o li sono solamente? Sono io che possiedo loro o sono loro che possiedono me? Posso ancora parlare di qualche cosa di “mio”? i Ma continuo a scendere per distogliermi da me, nelle oscure profondità dell’abisso, negli inferi, laddove la forza perde ogni identificazione per diventare me e non me, natura pura e indifferenziata contenente, ad un tempo, idea e sostanza, morte e vita, vuoto e tempo sostanziato, indifferente al bene e al male, al giusto e all’ingiusto, al bianco e al nero, pura fluidità disponibile ad assumere qualunque forma: così facendo, nel momento in cui la ragione vacilla e lo spavento tocca il limite del sopportabile, si raggiunge la CONOSCENZA DELLE ACQUE, dell’Umido radicale della Tradizione, del Samsara dei Buddisti, cella Cakti degli indù, del serpente alato di Maya, simboleggiate dal triangolo con la punta verso il basso, segno di cieca precipitazione. Contemporaneamente scopro che il mio destino di uomo è quello di cercare qualche cosa di fermo e di impassibile che soggioghi quella potenza; ho visto lo sbuffare infuriato del toro di Lidia e ne ho inteso lo spaventevole galoppo, so che il mio dovere-compito è quello di afferrarlo per le corna e immobilizzarlo come fece quell’Ercole che qui accanto a noi è rappresentato. Pura follia? Orgoglio smisurato? Vaneggiamento di superbia? Nessuno chiede di credere per fede anzi è obbligatorio non credere, ma provare: la pietra grezza da squadrare, domandola, è qui nella tua volontà profonda. nei più segreti desideri, in quelli che talvolta non si osa confessare nemmeno a se stessi. Coraggio: facciamola uscire, destiamola e creiamole resistenza e ne sentiremo l’impeto selvaggio, quello stesso che dobbiamo domare, facendo violenza all’umido radicale discendente, con il fuoco ascendente dello spirito, simboleggiato dal triangolo verso l’alto: l’unione dei due è il simbolo della vittoria equilibratrice, il sigillo di Salomone. Scegli fratello apprendista: da un lato vi sono gli uomini dormienti, schiavi, senza conoscenza; dall’altro vi sono i Vincitori del Drago. i San Giorgio, gli Ercole domatori del toro, i Camminanti sulle Acque; in mezzo è la corrente mostruosa che questi ultimi hanno attraversato, trasformando il cerchio senza centro, scatenata forza lunare, nel simbolo del sole trionfante, cerchio con il centro. Però ricordati, fratello apprendista, che hai osato entrare nel tempio e salire una scala di tre gradini, perché eri uomo libero e di buoni costumi, che qui si tratta di una lotta atroce nella quale giochi il tuo equilibrio mentale e la tua vita, nella quale avere paura e fermarsi sono cause di sicuro disastro. La via è senza ritorno; ciò che sai lo sai per sempre e non puoi più cancellarlo; via via che ti opponi alle acque, arresti una quantità sempre più elevata di energia: se cedi un attimo, essa ti travolgerà miseramente e senza possibilità di riprovare. D’altra parte, sii convinto che non c’è nulla al mondo che in iniziato non possa affrontare: un iniziato si considera già morto, per cui non ha nulla da perdere; egli va alla conoscenza come un antico guerriero andava in battaglia; vigile, con timore, con rispetto e con assoluta sicurezza; se soddisfa a questi requisiti, non ci sono errori da spiegare e se patisce una sconfitta, avrà solo perso una battaglia, e per questa non ci possono essere rimpianti. Impara a volere senza desiderare, senza paura, senza pentimenti. Uccidi la necessità; usa tutto e contemporaneamente non diventare un ricco di cui si è detto che “sarà più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che uh ricco entri nel regno dei cieli”. Se non desidererai nulla e non avrai paura di nulla, ben poche sono le cose di cui non diverrai padrone, ma non utilizzarne nessuna se prima non l’hai vinta in te stesso.
CONOSCERE SE STESSI (II)
Nella tavola incisa in camera di apprendista, ho provato ad esaminare quali realtà, anche fisiche, si nascondessero sotto il velo del viaggio attraverso la terra e della prova dell’acqua. Ricordate il vero viaggio attraverso le nostre esperienze sensibili, con il solo scopo di contestarne l’oggettività per riportarle al loro vero ruolo di “descrizione del mondo”. E poi lo scontro con le “acque corrosive” e la vocazione dell’iniziato a vincerne il Corso? Incidentalmente, osservo che se qualcuno di voi volesse una conferma di quanto dissi la volta scorsa, da parte dell’Istituzione, potrebbe fare riferimento al rituale di iniziazione del secondo grado: “Carissimo fratello, questo primo viaggio rappresenta il primo grado di realizzazione del neofita ….. omissis ….. I sensi sono strumenti che uniscono il mondo esterno al nostro “io” più intimo: imparate dunque a distinguere quanto, nei loro messaggi, sia verità e quanto sia illusione”. quale invito più chiaro ad accettare l’esperienza sensibile come una delle forme possibili di esperienza, come “una descrizione del mondo”, appunto, ricca di utilità pratica, ma incompleta e comunque arbitraria? : Oggi vorrei provare ad esprimere, per quanto le parole lo possano permettere, l’esperienza del terzo viaggio, della prova dell’aria, che mi pare quella più propria alla camera nella quale stiamo lavorando. In questo caso prendo le mosse direttamente dal terzo viaggio rituale: “Le Arti Liberali, di cui avete letto i nomi, suggeriscono che la mente deve indagare liberamente in qualunque campo della conoscenza, evitando qualunque dogmatismo limitatore”. Il rituale, senza mezzi termini, attira l’attenzione sullo strumento che noi possediamo per conoscere: la mete, ma, più esplicitamente ancora mette in ordine le Arti Liberali, nelle quali la mente deve indagare, spiegando al contempo che cosa si debba qui intendere per mente.
GRAMMATICA GEOMETRIA FILOSOFIA POESIA MUSICA
che parafraserei
APPRENDIMENTO RAGIONAMENTO SPECULAZIONE CREAZIONE VIBRAZIONE
APPRENDIMENTO APPRENDIMENTO RIFLESSIONE RIFLESSIONE VIBRAZIONE
Lo strument o non è solo la “mente”, nel senso ristretto che gli attribuiamo quotidianamente, bensì il mentale, quella somma di facoltà, delle quali una è quella raziocinante, altre sono l’intuito, la percezione, ed altre ancora non hanno nome. Si tratta certamente della componente meno densa, meno spessa di noi stessi, un componente fluida, per la conoscenza della quale a buon diritto possiamo parlare di “prova dell’aria”. Il mentale è il nostro protettore, che di solito diventa il nostro guardiano. Tutto ciò che noi facciamo, in quanto esseri umani, è opera del mentale, il quale è quella parte di noi che organizza il mondo; anche in questo momento è il vostro mentale che ricava un senso compiuto da queste mie parole: senza la sua attività, esse sarebbero una serie di smorfie e suoni senza alcun senso, né collegamento. Il mentale è colui che protegge il nostro vero essere: è a Iui che dobbiamo la possibilità di arrestare le acque, è utilizzando lui che possiamo utilizzare la corrente, Quindi egli è fondamentalmente geloso delle proprie azioni; e poiché le sue azioni costituiscono la stragrande maggioranza del tempo che ci è dato da vivere, egli tende a trasformarsi da protettore in guardiano, da strumento operativo in soggetto operante. La differenza fondamentale è che un protettore è comprensivo e di larghe vedute, mentre un guardiano è rigido e dispotico: al guardiano è difficile accettare più possibili “descrizioni del mondo” , poiché egli è geloso della sua, che reputa l’unica corretta. Nella vita quotidiana al dominio del mentale appartiene ogni cosa cui possiamo dare un nome e ogni concetto, non esclusi quelli “più alti”. L’idea di G.’. A.’. D.’. U.’. stessa, comunque essa sia presente in ognuno di noi, appartiene al mentale: anzi, proprio il fatto che essa assuma forme differenti in ciascuno di noi ci conferma che essa appartiene al mentale. Il mentale nasce con noi, al momento della nostra nascita, e morirà con noi, al momento della nostra morte fisica; con noi si sviluppa e via via crea il mondo – direbbe un filosofo idealista – nel senso che percepisce il mondo, ne crea le leggi, lo organizza a nostro beneficio. La prima volta che ho bevuto da una tazza di latte bollente, mi sono scottato la bocca e un attimo dopo ho creato una delle moltissime leggi che mi creo tutti i giorni: il latte, posato sul fuoco, si scalda fino a potermi fare del male e occorre un certo intervallo di tempo perché io lo possa bere. Osservate come non si possa confondere il mentale con l’intelligenza o la facoltà raziocinante: esso entra in gioco anche quando siamo sottoposti a uno stimolo che non è tale da attirare l’attenzione cosciente, come per esempio quando sussultiamo per un, rumore improvviso; in questo caso avviene una percezione, ma la reazione non è a livello cosciente. Così pure al mentale appartengono quelle sensazioni strane e indefinite che noi chiamiamo istinto di orientamento, sensibilità ai cambiamenti di tempo, percezione biologica dell’ambiente che ci circonda ed anche quei processi di reazione inconsci. O meglio subconsci, nel senso che non arrivano ad un livello tale di stimolazione per cui noi si sia coscienti della loro origine: tali i processi di associazione di idea apparentemente automatici, il presentarsi di ricordi o di immagini particolarmente vive, ma apparentemente senza nesso con la realtà del momento. Lo stato di coscienza comune, di veglia, come siamo soliti chiamarlo, è propriamente caratterizzato da percezioni di stimoli, che possono essere esterni o interni e che originano un processo di rappresentazione della realtà istantanea e di conseguente reazione, la quale può limitarsi anche alla sola formulazione di un concetto. Ma, come già avveniva per le percezioni sensoriali, limitate in una gamma molto più vasta di vibrazioni (luce, suoni) o di sensibilità possibili (tatto, odorato), lo stato di coscienza comune è soltanto un. un piccolo scaffale di un magazzino enormemente più vasto, nel quale giacciono anche moltissimi elementi ove vi sono giunti attraverso processi totalmente differenti, quali quelli prima indicati. In circostanze particolari e sotto la sollecitazione della ricerca specifica,. il materiale subcosciente può manifestarsi sotto le forme più svariate (scrittura automatica, visione nella sfera di cristallo), tali da dare origine a fenomeni apparentemente inesplicabili. Ora forse è più chiaro il discorso fatto la volta scorsa sui “nemici” lungo la via iniziatica, Se ricordate, vi dicevo, in quella sede, che il primo nemico à la paura: se essa vince, non c’è più possibilità di avanzamento sulla via.
Qui ci troviamo di fronte al secondo potente nemico: il potere.
Se esso vince, ci si ferma e si diventa un uomo dotato di poteri apparentemente inesplicabili, molto sovente a livello di far spettacolo, suscitando l’ammirato stupore degli astanti. Il mentale è un guardiano che cerca di difendere con ogni mezzo le posizioni acquisite: il primo mezzo, il più banale, se volete, è quello di suscitare la paura, l’orrore e il secondo, già più raffinato, è quello di spingere l’uomo ad accontentarsi dei poteri raggiunti, magari con diversi livelli di sofisticazione, da quelli più grossolani, come i giochi di prestigio, a quelli più sottili di sensazione intima di “forza”, di “illuminazione”, di “pace”. Non a caso allora si può parlare di “prova” dell’aria. Ci chiedevamo “voglio io la mia coscienza, il mio io, la mia volontà o li sono soltanto?” Cari compagni, occorre diventare volontariamente la propria coscienza, il proprio io, la propria volontà, senza lasciare tuttavia che essi prendano il sopravvento: un iniziato sceglie deliberatamente l’argomento del proprio pensiero, trattandolo quasi fosse un oggetto, ma soprattutto è capace di arrivare a suo piacimento al silenzio, facendo tacere il dialogo con se stesso, che ciascuno di noi costantemente svolge. Se, come apprendisti, abbiamo usato il martello e lo scalpello e abbiamo lavorato sotto il segno della perpendicolare, che nel linguaggio allegorico (non simbolico, ancora) sono trasparenti immagini di una rottura di una superficie esterna, la descrizione del mondo, appunto, per scavare e penetrare in profondità, raggiungendo la conoscenza delle acque, ora il segno distintivo non può che essere la livella: per coloro che hanno superato la prova dell’aria, intelligenza, coscienza e volontà sono state pacificate, domate e hanno assunto il loro ruolo di docili, quanto potenti strumenti.
CONOSCERE SE STESSI (III)
Questa sera proverò ad affrontare, sia pure di lontano, con forze tanto inadeguate, il segreto dei segreti, l’arcano degli arcani, voglio, insomma, provare a parlare della totalità dell’io. Nella prima tavola abbiamo disegnato l’obiettivo del conoscere se stessi, “arrestare le acque”, che passa attraverso alcuni obiettivi precedenti, quali “rompere con la propria descrizione del mondo” e crearsi l’atteggiamento dell’iniziato “vigile con timore, con rispetto e con assoluta sicurezza”. Nella seconda tavola abbiamo sollecitato lo strumento a parlare di se stesso: nel momento in cui si parlava del mentale, del suo modo di operare, dei nemici che egli pone sulla via, della paura e del potere, chi era a parlare di tutto ciò e chi impegnato ad ascoltarlo e a dare alle parole un senso coerente, se non i nostri mentali? Nessuna illusione, rispettabili Maestri: quello che è terrorizzato dalle acque e che ne può essere travolto e ucciso è il nostro mentale, così come colui che è vinto dalla paura e dal potere è ancora il nostro mentale, che, in una folle esasperazione della difesa della propria posizione di guardiano, è disposto ad annientare se stesso pur di non essere ricondotto alla sua reale posizione di strumento; oppure ad ampliare un poco le sue facoltà ordinarie, fino ad un recupero di “poteri” assolutamente naturali, quanto dimenticati dall’uomo della strada, purché tali poteri rimangano sotto il suo controllo. Ecco perché chi cede al potere ha perso la battaglia: fondamentalmente perché non ha saputo superare il proprio mentale, facendolo docile strumento in luogo di padrone. Ben conosce la folle disponibilità del mentale ad annientare se stesso, colui che ha provato senza il sufficiente “timore” e “rispetto” qualche tecnica di meditazione profonda: fortunato lui se può ancora parlarne con qualcuno. Fino a questo punto, dunque, abbiamo curato e rafforzato lo strumento, ma non si è ancora manifestato il padrone dello strumento, colui per il quale – concludevamo la volta scorsa – “intelligenza, coscienza e volontà sono state pacificate, domate ed hanno assunto il loro ruolo di docili, quanto potenti strumenti”. In altre parole domandiamoci: “Strumenti per chi? Chi li potrà e dovrà usare se non io stesso? Ma allora chi sono “io stesso” distinto da intelligenza, coscienza e volontà? Nel provare a dare la risposta avviene la tragedia: la risposta non è possibile, perché qualunque essa sia, essa viene ovviamente costruita dal mentale stesso. L’anima, risponde il cattolico integralista. Lo spirito, terzo componente dell’uomo, con il corpo e l’anima, risponde il cultore della tradizione. Dio, potrebbe rispondere il panteista. In realtà anima, spirito, Dio non sono altro che creazioni del mentale, sottoposto a stimoli di carattere a volte molto diverso, da quello religioso puro a quello della necessità a quello intellettuale filosofico. La conclusione “logica” sarebbe che non può esistere questa parte dell’io della quale non si può parlare, perché solo parlame sarebbe automatica contraddizione e che, pertanto, non si manifesterà mai; o, al limite, se esiste, ma non può manifestarsi, non ha alcun senso ricercarla. Con queste “logiche” conclusioni il mentale ha definitivamente vinto la sua battaglia a difesa di se stesso. A meno che ……. A meno che non esista un linguaggio, una forma di manifestazione che non appartiene alla logica, attraverso la quale la “altra metà dell’io” – provo per ora a chiamarla così – abbia la possibilità di emergere e, addirittura, di prendere il sopravvento, raggiungendo il ruolo che naturalmente le compete. Se questa forma di manifestazione esiste, essa deve per forza avere la caratteristica di essere molto potente, là dove il mentale è debole, e comunque deve utilizzare vie non appartenenti al mentale stesso, ma sufficientemente vicine a lui, per poter penetrarvi fino ad impadronirsene.
Per esemplificare, possiamo dire che queste forme di manifestazione ” –non possono appartenere alle strutture logiche normalmente utilizzate,
–non possono esercitare un’azione di apprendimento, ma debbono operare un’azione di modifica essenziale,
malgrado ciò il ‘linguaggio”, il modo di comunicare, deve essere tale per cui la conoscenza acquisita diventa parte sempre più dominante del mentale, fino a permettere (ma stiamo parlando dell’adepto completo) il dominio totale del mentale stesso, senza ucciderlo, né menomarlo.
Abbiamo cosi necessità di pensare che esistano dei “ponti”, dei collegamenti tra le due componenti dell’io, attraverso i quali esse possano entrare in relazione, attraverso i quali chi ha già percorso la Via, possa indicarla agli altri. Credo che troppe volte ci siamo sentiti dire che il SIMBOLO agisce su colui che lo studia e non deve e non può essere appreso razionalmente; che il simbolo agisce attraverso via di intuizione e di illuminazione che non fanno parte delle logica tradizionale; che il simbolo deriva da una parola greca, che significava propriamente “congiungimento”. Non riconosciamo allora nel linguaggio simbolico, e nei simboli appunto, quella forma di manifestazione e di linguaggio che cercavamo? Il nostro guardiano geloso non e forse costretto a confessarsi vinto da un linguaggio che non gli appartiene, ma che può dominarlo, proprio perché penetra in lui attraverso vie misteriose che nulla hanno a che fare con “la comprensione” e “l’apprendimento tradizionale”? Al massimo il mentale può fare tutto il possibile per tenerci lontani dall’azione del simbolo, nei modi più vari e a diverso livello di sofisticazione, come al solito, dalla stupida arroganza irridente per tutto ciò che odora di tradizionale, alla paura per il linguaggio simbolico – due gradi di grossolanità diversi -. Vogliamo sfiorare, per un attimo, l’importanza dell’attività del sogno, durante il sonno, per il linguaggio simbolico: attraverso il sogno, il simbolo lavora in tutta la sua potenza, approfittando appunto del fatto che la mente è in stato di quiete. Ebbene, il mentale si difende, in primo luogo, facendo sì che il sonno sia sufficientemente “pesante”, perché il discorso simbolico non possa mai essere ricordato, cioè affiorare a livello cosciente; per fare ciò il mentale crea di sana pianta situazioni complicatissime, che possono giungere allo stato di nevrosi, per spingere l’uomo ad assumere cibi sufficientemente pesanti alla sera. A questo proposito, mi pare valga la pena di ricordare che in quasi tutte le tradizioni esiste, in misura maggiore o minore, il concetto di “mortificazione fisica” per percorrere la Via, anche se si sono persi il significato reale, la reale motivazione. Mi pare che, per tutte valga la pena di ricordare la regola dei frati trappisti, che vengono svegliati ogni quattro ore, durante la notte: è noto che lo stato di dormiveglia è il più propizio al ricordo del sogno. In realtà il sogno e una delle vie fondamentali di manifestazione comunicazione della “altra metà dell’io” e un iniziato dovrebbe, ad un certo punto, essere in grado di imporsi l’argomento del sogno, permettendo alla “altra metà dell’io” di manifestarsi non casualmente e in modo disordinato, ma secondo la progressione adatta allo stato di coscienza, raggiunto via via dall’iniziato stesso. Molto più interessante, perché estremamente sofisticata, mi pare poi la difesa più “moderna” del mentale, giusto adatta a questo uomo un poco mentecatto del XX secolo. La moderna psicanalisi utilizza il sogno come manifestazione del cosiddetto inconscio, il quale – razionalmente, dopo la interpretazione dello psicanalista – manda dei segnali alla coscienza, relativi a sue turbe dimenticate o rimosse: il prendere coscienza contribuisce potentemente a guarire situazioni di nevrosi. Quale elegantissimo metodo per accettare, da parte del mentale, il potente stimolo dei sogni, per poi “razionalizzarlo”, riportarlo cioè sotto il suo stretto controllo, magari servendosi dell’autorità difficilmente confutabile di un professionista appositamente pagato allo scopo! Un’ultima segnalazione mi pare meriti poi la difesa sofisticata tradizionale, che consiste nel creare una grande confusione tra simbolo, allegoria, segno, distintivo indicatore, parabola, il tutto nel tentativo – ahimè riuscito – di spingere l’uomo a “capire” il simbolo, interpretandolo razionalmente e magari pretendendo di “spiegarlo” ai neofiti in chiave più o meno allegorica: abbiamo valanghe di volumi, purtroppo scritti in questo nefasto tentativo. Ma i vecchi maestri sapevano tutto ciò per avere provato su se stessi le infinite tentazioni e lusinghe del mentale ed hanno avuto la bontà di lasciare dietro di sé, sotto forma di scritti, di monumenti architettonici, di sculture o di semplici oggetti come quelli che si trovano in questo Tempio,il filo di Arianna per indicare la Via. Il linguaggio oscuro e misterioso, la complicazione del monumento, la poca chiarezza dell’indicazione non potevano essere diversi: sui simboli noi dobbiamo lavorare con fatica, affinché essi operino, si attivino: se il linguaggio fosse chiaro, il tutto diventerebbe fatto di cultura, di apprendimento mentale e la via sarebbe chiusa per sempre. Ci troviamo, Venerabili Maestri, di fronte alla prova del fuoco, l’ultima. Gli antichi ci dicono che i fuochi in realtà sono tre, quello volgare del fornello, quello di natura e quello celeste, così come appunto sono tre luci, tre fuochi, quelli che fanno risorgere Hiram dalla bara. In quale stato avvenga la resurrezione del maestro, come il regolo abbia colpito la gola-passione, come la squadra-materia abbia colpito il cuore e il maglietto abbia dato il colpo di grazia alla mente, queste sono altrettante esperienze da vivere, ben coscienti che si va incontro alla morte, nella certezza della resurrezione. Allora nel segno del Mercurio dei filosofi, gli elementi riprenderanno il loro posto naturale e il sole comanderà alla luna, e attraverso questa al corpo; ci sentiremo dire: “Abi, adeptus es”, come nell’ultima tavola del Liber Mutus. Ma queste sono parole per me ancora senza alcun significato, che ripeto, copiando pedissequamente da chi le disse prima di me, nella speranza che esse si rivelino altrettanto vere e sperimentalmente verificabili di altre parole che mi furono dette prima e che ho cercato, nei modi di cui ero capace, di ritrasmettere nel corso di queste tre serate.
TAVOLE SCOLPITE DAL FR.’. FABRIZIO VOLONNA