TOTO’ IL PRICIPE FRATELLO
di Marco Maria TOSOLINI
«A.’.G.’.D.’.G.’.A.’.D.’.U.’. – MASSONERIA UNIVERSALE SER:. GR:. LOGGIA NAZIONALE ITALIANA DEGLI ANTICHI LIBERI ACCETTATI MASSONI – L.’.U.ì.F.’. – Nella Sede storica di Piazza del Gesù, 47, – All’alba del 15 Marzo 1967, è passato all’Or.’.Et.’., l’illustre – Fr.’. ANTONIO DE CURTIS 30.’. – Venerabile della R.’.L.’. “Fulgor Artis” dell’Or.’.di Roma – Il titolo distintivo che Egli scelse per la Sua bella Officina significò per Lui incitamento e passione per quell’arte incomparabile di cui attinse, con indeclinabile fede, le più incantevoli cime. La Massoneria abbruna isuoi labari con infinita tristezza, ma con il massimo orgoglio iscrive il Suo nome sul Gr.’. Libro d’oro degli innumeri Fratelli che con la loro arte e il loro ingegno onorarono l’intera umanità
Questo necrologio, apparso su “Il Tempo” il 21 Aprile 1967 notificò a non pochi l’appartenenza del Principe de Curtis, universalmente noto (e amato) come Totò, alla Libera Muratoria Universale. Era iscritto alla Comunione di Piazza del Gesù, che all’epoca della Sua iniziazione – pare, secondo letteratura, avvenuta nel 1944 presso la Loggia “Palingenesi” dell’Oriente di Napoli – si nomava “Federazione Massonica Universale del Rito Scozzese Antico ed Accettato” Rapidamente divenuto Maestro lo troviamo, nell’estate 1945, ad operare, con il 18° del Rito Scozzese Antico ed Accettato, nella Loggia “Fulgor”, dove presenta un profano – di mestiere attore – che viene colà iniziato il 7 Luglio: Carlo Rizzo, nato a Trieste nel 1907. Nell’Ottobre successivo è Maestro Venerabile della “Fulgor Artis” di Roma che, come la sua “gemella” napoletana, annovera, seduti fra le colonne, attori, registi, uomini di spettacolo. Come Maestro Venerabile “inizia” un neofita destinato a diventare assai noto al grande pubblico: l’attore Carlo Campanini. Gli ultimi documenti qualificano il Fratello Maestro de Curtis con il 30° del Rito Scozzese Antico ed Accettato. L’esperienza iniziatica di Totò fu intensa e magistrale. Intensa per l’attività di proselitismo diffuso e qualificato ad un tempo, magistrale per aver esercitato il Venerabilato con tutto ciò che ne consegue. Antonio/Totò nacque da Anna Clemente e Giuseppe de Curtis, progenie del marchese de Curtis che, finché fu in vita, si oppose al matrimonio del rampollo con una donna della piccola borghesia napoletana, economicamente male in arnese. La madre e il padre si sposarono nel 1921, dopo la scomparsa dell’arcigno marchese de Curtis. Fin dagli albori della sua attività teatrale Totò visse un rapporto obbligato con la fisicità innanzitutto del disagio. Non solo per l’essere nato con il nome di Antonio Vincenzo Stefano Clemente il 15 Febbraio 1898 a Napoli, in via Santa Maria Antesaecula, civico n. 109, del celebre rione Sanità, ispiratore di altrettante celebri opere teatrali (Eduardo De Filippo), luogo di vita sottoproletaria, nei dintorni della Stazione ferroviaria, Ma anche per aver ricevuto, allora undicenne in Collegio – si trattava del Collegio “Cimino”, locato nel vecchio palazzo dei Principi di Santobuono – un pugno da un precettore che voleva tirare scherzosamente di boxe con gli allievi. Il colpo gli deviò definitivamente il setto nasale contribuendo non poco alla progressiva definizione della sua celebre maschera negli anni a venire. Non secondario fatto, la particolare conformazione contribuì senz’altro anche alla formazione di quel così “tipico” timbro vocale, assettato fra un nasale cavernoso non immediatamente percepibile ma significativo e la sua successiva “copertura” dalla sgranatura tipica del fumatore accanito. Quel “segno” traumatico, anche se non voluto, del naso rotto è l’incipit per una sorta di inconsapevole coscienza – se si passa il paradosso – della sua atipica e sempre più sorprendente corporalità. Significativo è l’episodio con il quale riesce a evitare la prima linea, nel corso della Prima Guerra mondiale, pur essendosi arruolato volontario. Nel 1915, dopo un passaggio dal 22° Reggimento a Pisa, viene trasferito al 182° battaglione in partenza per il fronte francese. La linea Maginot non la vedrà mai: alla stazione di Alessandria simula così efficacemente un attacco epilettico che viene ricoverato in Ospedale militare. Evita îl fronte ma non numerose punizioni che gli porranno in odio soprattutto i caporali, al punto che la celebre battuta “Siamo uomini o caporali?’ – titolo anche del film di Mastrocinque del 1955 – sarà la griffe della sua filosofia empirica sulla divisione degli umani in queste due grandi categorie etiche. Finita la Grande Guerra il ventenne de Curtis si lancia nel grande Carro di Tespi del Teatro popolareggiante napoletano:
i miei volevano che andassi in marina, io, invece, cominciai a frequentare il teatro. Eravamo una “chiorma” di amici, cioè un gruppo compatto, tutti principianti pieni di speranza, tutti uomini che poi si sono piazzati: io, Eduardo e Peppino De Filippo, Armando Fragna e Cesarino Bixio, l’autore di “Come piange Pierrot” (…). Facevamo le recite “staccate” nei teatrini di Aversa, Torre del Greco, Castellammare. La recita staccata era una specie di week end teatrale: due rappresentazioni, Sabato e Domenica; chi faceva la prosa, chi il varietà, chi suonava in orchestra: eravamo una “chiorma”
Lì nella compagnia di Eduardo D’Acierno comincia ad animare le “macchiette” alla De Marco, personalizzandole sempre di più fino a configurare in pochi anni una fisionomia del tutto autonoma, strutturata su una gestualità “macchinica” se equivocata con la nascente tecnologia del Novecento, marionettistica se vista con l’occhio di chi è consapevole che gli archetipi sono dentro di noi e basta poco perché riemergano. E il passaggio di Totò al “suo” personalissimo personaggio non poteva avvenire senza il filtro della “masca” che incarna – se così si può dire – una antichissima, inquietante “larva”: Pulcinella. Nel 1922 il trasferimento dei genitori a Roma fa sì che Totò entri in contatto con la compagnia comica di Umberto Capece che lo scrittura senza compenso: Pulcinella e, più spesso, il “mamo” sono i personaggi che interpreta.Nasce in questo periodo lo stralunato burattino umano, eppure precisissimo nel rigore gestuale, mirato alla disarticolazione programmatica degli atti, del collo in rapporto al busto. Una specie di depersonalizzazione attivata attraverso un rigore totale dell’assetto di Movimento. Geometrie corporee che Muovevano al riso ma che, se rivediamo în slow motion, ci lasciano stupefatti e sorpresi dalla millimetrica dalla precisione, tensione destrutturante, tanto che, a velocità naturale ciò che colpisce sommamente è la tecnica di corporale disumanizzazione a cui Totò accenna. Burattino più di burattino un vero, l’effetto alienante è potenziato dalla mimica facciale, dagli effetti di sincrono orchestrale e, talvolta, dall’intervento della parola che, invece di rassicurare, enfatizza semmai, anche se in modo esilarante, l’effetto robotico. Fra straniante € pre tutte le gags forse la più nota è quella della filastrocca – antesignana di ben più modeste tecniche italiote di pseudorap – del personaggio di Ciccioformaggio. Ma, tornando al sotterraneo rapporto fra Pulcinella e Totò dopo le – esperienze giovanili non vi saranno incontri espliciti significativi fra i due – l’occhio profondo di Fellini notò cose ineccepibili:
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Questo commento è illuminante da diversi punti di vista. Innanzitutto, e nel modo più “esterno” era stato formulato per rispondere a quanti avevano Spesso stigmatizzato l’uso dell’attor comico in film di bassa € bassissima la qualità. Spesso critica più arcigna e moralista – erano gli anni in cui si stavano formando veri e propri “battaglioni” di critici iperideologizzati, affetti da patologie ora scemate, ma non del tutto scomparse – si esprimeva cercando di estrapolare Totò dal contesto di “beceraggine” di film girati e montati in sei settimane con sceneggiature raffazzonate e storie improbabili che talvolta insistevano sulla Séquenza continua di In gags. questa sua Sapienza errabonda, quasi calderone delle memorie di mille anime di mimi antichi e moderni che lo hanno preceduto, vi fu un lavoro centripeto e centrifugo per quanto riguarda un elemento che, dalla maschera antica in avanti, è destinato ad assumere importanza il Sempre maggiore: costume. Totò, in merito alla “centralità” della sua “divisa” fu esplicito con una dichiarazione:
Il mio corredo era composto da un solo abito per la scena che andava sempre più logorandosi, senza una sia pur remota possibilità di sostituzione. Ebbi, da qui, l’idea di creare un “costume” che accentuasse la mia reale situazione vestiaria. Una logora bombetta, un tight troppo largo, una camicia lisa con il colletto basso, una stringa di scarpe per cravatta, un paio di pantaloni a “saltafossi” comuni scarpe basse nere, un paio di calze colorate. Così nacque l’abito di Totò.
L’assonanza di questo costume, nato da un escamotage pauperistico, non è con predecessori di epoche “medie” – si pensi alle maschere carnascialesche, soprattutto di Arlecchino, Zanni e Pulcinella, soggetti eminenti e principali – ma con il senso essenziale del comico antico da un lato (l’abito che ridicolizza il soggetto perché “in crescita” la parte superiore e “ristretta” quella inferiore, come nelle raffigurazioni dei Pappus e Maccus altolatini coperti di ampie e cascanti clamidi e strette e corte bracae) e con la registrazione di avvenuta decadenza economico-sociale dall’altro (il tight è cifra esplicita di passato aristocratico, che Totò recuperò con le note vicende di ricostruzione del suo titolo di principe di Bisanzio, cui tenne moltissimo). Il burattino Totò, dunque, già negli ‘30, ha teso un ponte fra archetipi e soggetti antichi della tradizione comica occidentale e la rapida trasformazione del mondo dello spettacolo del Novecento, con l’attivazione di uno strano caleidoscopio espressivo, nel fondo del quale, per un imprevisto destino della sorte, sarà involontario protagonista di innovazioni tecnologiche del cinema. Il film Totò a colori – che è sostanzialmente sequenza di gags celebri spesso dilatate a dismisura e in modo sapiente come il tormentone del “ritocco” all’Onorevole Trombetta, interpretato dalla vera spalla storica di Totò, Mario Castellani – fu realizzato nel 1952, per la regia di Steno, sulle gesta dell’implacabile M° Scannagatti e inaugurò la stagione della pellicola a colori in Italia. Invece I! più comico spettacolo del mondo, del 1953, per la regia di Mattoli, iniziò in Italia l’esperimento del cinema in 3D con brevetto americano, realizzato dal tecnico Karl Struss, occultando un po; in ragione della novità mediatica, la profonda bellezza della figura di Tottons, clown che non si strucca mai, custode di un triste segreto, autore di una “preghiera del Clown” che è forse il “cuore” del significato cosmico-religioso stesso della figura del comico, in cui della faccia di Tottons, diventata maschera tragica ride solo il disegno del trucco. La forza espressiva straordinaria di Totò, dunque, trova nutrimento in un meccanismo archetipico ed immutabile, saldo e rigenerato continuamente nella Tradizione occidentale. In questa forza primigenia sta anche la risoluzione dell’annosa querelle sul sotto uso di Totò in film di bassa lega, fatto che, analizzando aspetti espressivi propri della maschera comica e delle sue innumerevoli e profonde implicazioni appare un falso problema e, sostanzialmente, fuorviante.
«Coloro che rappresentano, nelle pubbliche piazze, commedie all’improvviso, storpiando i soggetti, parlando a sproposito, gestendo da matti e, quel chè peggio, facendo mille oscenità e sporchezze» con queste parole il pudibondo Toschi – nel suo celebre e ancora utile testo del 1955 {in prima edizione) – riporta parole esecrande di Andrea Perrucci, trattatista della Commedia dell’Arte, che proprio della vita teatrale napoletana traccia le cronache. Ma non è meno clemente Silvio D’Amico sempre riportato da Toschi: «per noi… non sempre riesce agevole l’intendere come la valentia dei comici dell’Arte potesse sopperire da sola all’evidente vacuità, assurdità e sconcezza di cui le loro commedie erano così spesso tramate». Il Toschi addirittura sostanzialmente si scusa del dover trattare, pur a fini documentali e scientifici, tali argomenti: «E avremmo fatto volentieri a meno anche di questi pochi esempi, che si riferiscono a diversi tempi e luoghi: ma non potevamo esimerci dall’offrire una solida base di fatti e documenti alla tesi che sosteniamo: e cioè che la nostra commedia, specialmente quella dell’Arte deriva in maniera diretta la licenziosità, la sguaiataggine, l’oscenità che troppe volte la caratterizzano, dal Camevale». Si abbandona poi ad una sorta di giustificazione non richiesta che, con tutta probabilità, i chiamati in causa non avrebbero nemmeno capito: «La colpa non è degli autori o degli attori-improvvisatori: è del clima in cui sorge la commedia». Tuttavia la corporalità trivia, viscerale, e/o comunque totalizzante è uno dei pochi punti di. contatto metalinguistico del pianeta. Proprio con lo studio della paleolinguistica si è potuto dimostrare che non solo aspetti prossemici e gestuali rendono comprensibile la comunicazione fra Inuit della Groenlandia e consiglieri d’amministrazione olandesi, Boscimani centroafricani e Circassi (Totò amava le “Circasse”!} ma anche fragmenta protoverbali ancora in uso come il termine alt, ad esempio. E, pur coscienti del pericolo di slittare nell’aneddottica della facile battuta, in molti film il gesto atavico (Zanni e Pulcinella soprattutto) del rimescolio di stomaco per comparsa (mai scomparsa) di fame altrettanto atavica è proprio del parco espressivo di Totò (Miseria e Nobiltà da E. Scarpetta, regia di Mario Mattoli, 1954, Totò, Eva e il pennello proibito, regia di Steno, 1959, citando in modo esemplare solo due fra tanti). Proprio l’operazione “macchinica” del burattino che si muove, oltre la naturale, ed autoeducata ad un tempo, grazia gestuale di stampo marcatamente aristocratico – sulla quale peraltro esercitava una finissima e catartica autoironia – permette a Totò di metabolizzare e rigenerare la corporalità stemperandone la trivialità in eccesso, senza rendere, però e per questo, inautentico il sollecitamento dei cosiddetti “bassi istinti” con relativa caduta nell’ipocrisia perbenista. Giochi sottili che riuscivano a pochi giocolieri come lui. La condizione di mimesi espressiva e palese veniva realizzata in modi diversi. Uno dei più significativi appare nella sequenza iniziale di Totò sceicco (regia di Mattoli, 1950) nella quale Totò appare comodamente seduto, in elegante vestaglia da camera, con monocolo, mentre legge pigramente il giornale del mattino. Si intravedono collo diplomatico, rigido e ascott bianco, fermato da spilla. Entra un cameriere con un vassoio ‘carico di una ricca prima colazione. Totò ripiega il giornale e assaggia il caffè; annuisce in segno di approvazione, si alza, si toglie la vestaglia, indossa un tight (questa volta non logoro) e dice al cameriere: “andiamo”. Si scopre così che è il maggiordomo a capo della servità della magione della corpulenta marchesa (Ada Dondini), Passa in rassegna la servitù e, davanti alla nuova procace addetta al guardaroba che gli viene presentata, reinserisce una mini gag di antica data, attivando un movimento macchinico dal basso in alto ed esclamando, dopo aver visionato seno generoso e serico mapillario: «Addetta al guardaroba? Guarda che roba!» e, serissimo, prosegue nel suo severo lavoro ispettivo. l’isolamento dell’espressione allusiva e ovviamente trivia ha l’effetto, pur divertendo,di cristallizzare quel momento, impedendo alla presunta “scivolata” – secondo le fobie trattatistiche precedentemente citate – di trascinare semanticamente la dimensione narrativa in un unicum espressivo. Anzi, il gioco di contrasto fra la battuta improvvisa – che pare fermare il tempo nella zona aliena e remota del Pappus atellano – e la serietà aristocratica di un maggiordomo più aristocratico dei suoi padroni, enfatizza l’effetto comico e annulla la tracimazione puramente istintuale (comunque da noi non stigmatizzata). Questo gioco sottile di tasselli di mosaici dell’espressività, non necessariamente destinati a realizzare una forma completa, è il perno operativo dell’arte e della mimesidi Antonio de Curtis. l’assemblaggio per frammentazione è la caratteristica formante dell’avanspettacolo, un po’ più strutturato e qualificato nel Varietà, comunque composto di numeri, È il vero mondo che genera Totò e nel quale si muove come il pesce nell’acqua. Il cinema gli offrì un nuovo strumento d’espressione. Che pose alcune nuove necessità e ridusse, ovviamente, alcune componenti spettacolari della attività di palcoscenico, anche se la Maestria di Totò, in alcuni casi, seppe reintrodurle e adattarle. Per questo si veda Totò a colori regia di Steno, 1952 e, in specie, la sequenza della “banda danzante” e la riproduzione della “corsa dei bersaglieri” con cui spesso, negli spettacoli chiudeva la “passerella”, scena con cui termina anche il corto per la RAI Il grande Maestro (regia Bruno Corbucci, 1967). Nel lungimirante e acuto saggio dal titolo Cinema e Poesia con cui Pasolini introduce la sceneggiatura del suo film che ebbe protagonista Totò, con Ninetto Davoli, il poeta-regista sviluppa una interessante riflessione sul particolare sistema semantico del cinema, che contiene dei paradossi. Insiste sul fatto visivo capace di alterare il significato stesso delle parole. Tale fatto, poi viene potenziato sul piano evocativo-simbolico, data la “oggettiva” – altro paradosso – fantasmaticità del cinema, rispetto al Teatro che è, certo in senso fortemente trasfigurante, luogo di corpi presenti. D’altro canto, il grande massmediologo Marshall McLuhan, pioniere e profeta, bene ebbe a precisare la natura diversa, in senso espressivo e comunicativo dei vari media con la celebre distinzione – certo ora perfettibile ma valida nella sostanza – di media caldi e freddi. | primi destinati a consentire allo spettatore, in ragione di una potente quantità informativa e particolare strutturazione del segno, poca possibilità integrativointerpretativa (all’epoca McLuhan individuava così la televisione) e i secondi a fornire invece ampie possibilità di tale tipo (in primis la fantasmaticità della radio). Il cinema non solo si pone in un territorio ambivalente – in ragione della dimensione squisitamente narratologica del film – ma si presta a enfatizzare, ingigantendo di fatto, aspetti di dettaglio e dunque prossemici. La sua “fantasticità” – un volto “grande” anche 9 metri per 4! – gioca a favore di una sorta di dilatazione mitica del visibile e del piccolo, che diventa enorme. | È evidente che,in tal senso, la maschera conosce nuova stagione e nuova propulsione. Se poi la maschera assume funzione oracolare allora è facile capire come la straordinarietà dei mezzi espressivi di Totò divenne foriera di una potenza comunicativa mai esperita prima. Sul linguaggio Totò compi un’operazione che va ben al di là della celia sulla sua capacità di equivocare e/o deformare lo stereoti po, mirando a colpire spesso un lessico perbenista e fortemente piccolo-borghese, specchio di una “italietta” ricca di tic comportamentali. L’operazione di sordida fuorvianza ha almeno due caratteristiche base: una è di tipo iconico e tende cioè a cristallizzare forme idiomatiche in modo improprio dove lo slittamento nell’assurdo, nel surreale è più spesso metasignificato quale “E parli come badi!” e “Signori si nasce e io, modestamente, lo nacqui!” per tutte; l’altra ha invece carattere interlocutorio, mirato a portare nella confusione l’alter ego utilizzando i suoi stessi mezzi, sorta di arte marziale passiva fatta con il Logos: si fa cadere l’avversario sfruttando la sua carica aggressiva e il suo peso reale (la gag con l’onorevole TrombettaMario Castellani in Totò a colori, che viene portato a dire cose assurde “trasformando” sue affermazioni o la scena con l’ispettore delle dogane Mastrillo-Nino Taranto cui “rilancia l’accento barese generando equivoci in Totò contro i quattro, regia di Steno, 1963).Naturalmente velocità, spirito d’improvvisazione, inclemente senso del ritmo sono alcuni strumenti che organizzano sequenze di questo tipo.C’è però una terza fase, dove la strutturazione di un breve monologo ha carattere esemplare e falsamente esemplificativo, dove interiezioni indebite e rapide generano nell’interlocutore, all’interno di un apparente senso compiuto, l’inquietante Sensazione che il meccanismo appercettivo e discernitivo subisca delle trappole:
In primis et antimonio una Scarpa fine si fa di capretto e di vitellino dilatte, questa è la madre del vitello .chiamata volgarmente vacchetta, Secondis, questa tinta è fatta col vitruolo e difatti Un signore appena sopra vi poggia il dito del pipistrello della Mano se lo sporca, se lo a-ni-li-fi-ca. Terzis, questa suola non è battuta a dovere e difatti dopo un giorno o due di marcia 0 di camminamento a piedi mette fuori la lingua come un cane da caccia. Ancora due parole, non ho finito verbo. Gli ela- stici Sono di cotone e non diseta, e perciò ceglono, vedi che cedono. La tramezza è usata, fraudolente. | punti di questo guardione sono dati con la zappa e con la lesina, dico le-si-na! Fd infine, mio caro amico, le solette interne, guarda, sono di cartone e non di pelle, Perciò, Mio carissimo signor ciabattino, queste scarpe sono da fiera. Sei e cinquanta. E se non sapete fare il calzolaio, andate a fare il farmacista che è meglio. Rimembris om- nibus, cioè ricordati uomo, che calzolaio si nasce e non si diventa, ostregheta.
Così Totò/Mastr’Agostino Miciacio in San Giovanni decollato da Martoglio per la regia di Amleto Palermi, del 1940. Fu il terzo film della iniziale carriera cinematografica di Totò, ma il primo che colpì l’immaginario del pubblico ed ebbe effettivamente successo nonostante le critiche da subito negative. Già in quel momento, nel suo sentenzioso discorso tecnico-analitico da . ciabattino provetto ad un annichilito “collega” Totò la concentra sua micidiale attenzione sulla prosopopea di un latinorum improbabile, superato solo forse dalle giaculatorie all’inizio de I due marescialli (regia di Sergio Corbucci, 1961) in cui con “linoleum, autobus, tua nonnam in carriolam”” Totò/il ladruncolo Capurro cerca di depistare l’attenzione di De Sica/maresciallo dell’Arma Vittorio Cotone che lo sta riconoscendo anche se vestito da prelato. Altro segnale del suo incuriosirsi per forme dialettali “aliene” e da lui straniate ulteriormente, è con l’allocuzione “ostregheta” che compare in più di un film, fra cui nel colloquio degenerato in litigio con il bravissimo Achille Majeroni(il nonno istriano) in Arrangiatevi! per la regia di Mauro Bolognini, del 1959, Dove Totò il nonno illuminato, accusa il suo “coevo”di essere uno dî quelli che ha fatto impiccare Nazario Sauro, facendo imbestialire il povero nonno, probabilmente irredentista (e filomassone anche lui, vista l’adesione di massa degli irredentisti alla Massoneria). Questo lavorare di “scalpello” su finezze che intrecciano absurdum linguistico e distorta citazione storica segnala, oltretutto, una padronanza argomentale di de Curtis che è stata sempre sottovalutata, anche in senso storico. Con questo non Si vuol affermare una presunta dimensione intellettuale del Nostro – sarebbe stato il primo ad esclamare «ma mi faccia il piacere» ridendo poi di gusto – quanto invitare a considerare con maggiore attenzione il repertorio di volutamente improprie ma significanti citazioni utilizzate spesso nell’ambito di una amabile satira politica lungimirante ed equamente distribuita (Gli Onorevoli, Letto a tre piazze, Totò, Vittorio e la dottoressa, destinazione Piovarolo, I due marescialli, Il coraggio), pur essendo Totò sempre stato disponibile a, dichiarare il suo favore alla monarchia costituzionale Dunque, i cristallizzazione idiomatica di parziali assurdità, loquela apparentemente distratta, in realtà insidiosa – lo storpiare di continuo il cognome al perennemente vessato Peppino De Filippo in la Banda degli onesti (Camillo Mastrocinque, 1956) da Lo Turco in Lo Struzzo, Lo Turcio, Lo Tirchio, etc. etc… – ripetizione ossessiva e “persuasiva” di frasi brevi e brevissime fino a “musicalizzarle” (il tormentoso «Vota Antonio» de Gli Onorevoli, regia di Sergio Corbucci, 1963), decontestualizzazione, come si scriveva, di idiomi dialettali (soprattutto veneti e pugliesi) sono tutti “arnesi” di una tecnica complessa e vividissima che, però, riesce nel suo formidabile compito in ragione soprattutto della grana vocale particolare di questo burattino che sì fa oracolo. Una verifica immediata di ciò la si ha in Totò a Parigi (Camillo Mastrocinque, 1958) doveil sosia Conte de Chermantel è doppiato da un noto attore con bellissima voce impostata ed è veramente straniante “vedere” Totò con altra voce, Tale “disagio” percettivo non è solo per abitudine e normale identificazione del rapporto figurafonte lalica. Nel mondo antico la voce è molto più relata alla germinazione animica di quanto non sia l’immagine corporea. Si pensi alla funzione secolare degli oracola – fra tutti il celebre ompbhalos delfico con il suo motto inciso ben noto agli iniziati (“conosci te stesso”) – dove la voce era la substantia animae del vaticinio ma, soprattutto, della riflessione. Si pensi alla narrata pratica Pitagorica di parlare, talvolta, da dietro una tenda, per conferire forza oracolare alle sue parole. Il Teatro, nato come fatto rigorosamente religioso-rituale ha approfondito e potenziato il rapporto complesso e raffinato fra immagine, sembianza e suono emanato. E sulla forza evocativa e simbolica dell’immagine il mondo antico ha espresso straordinari livelli di riflessione.
Totò ha – non troppo paradossalmente – potuto sperimentare inconsapevolmente nell’attività di palcoscenico, non esplicito ma reale “Carro di Tespi” che si materializzava nei mille teatri e teatrini da lui vivificati, da Palermo a Zurigo, quella capacità di farsi burattino metafisico in ragione di quella che Vernant chiama “derealizzazione”, aiutato da una grana vocale che il cinema ha amplificato nella sua riproduzione. Idologicamente (non ideologicamente!) se si osserva il materiale costumistico degli spettacoli di varietà si è colpiti da una specie di Pinocchiopulcinellesco che appare anche in Vo/lumineide (debutto, su testo di Galdieri della Compagnia Magnani-Totò, Ferrara, Teatro “G. Verdi”, 20 Novembre 1942). Il burattino del massone Collodi non è un caso che attragga la surreale é ligneomacchinica verve interpretativa del Principe» de Curtis. Inevitabile è, nella gestualità documentata fotograficamente, l’assonanza con alcuni passi del Pulcinella tipico (e ritratto in molte incisioni e dipinti con tale articolazione “goniometrica” della gamba destra) quasi a tessere una trama invisibile che collega il meccanismo della maschera arcaica con quello – di origine settecentesca – che regola l’ambivalente burattino di origine toscana. Dai fantastici Kolòssoi dell’antichità agli automi meravigliosi del settecentesco de Vaucanson? Non ci è dato sapere, ma la “depersonalizzazione” del burattino metafisico, magnificata da una voce unica, con uno spettro che va dal cavernoso al beffardo fa di Totò un vero e imprendibile daimon, specie di astuto Papageno- Hermes Mercurio che vola nel mondo onirico della rappresentazione, nutrendosi di, per contro, acute realtà: i ruoli che meglio magnificano il suo “sospendersi” nella vita dell’uomo sono quelli dell’affamato {Miseria e Nobiltà, Totò e Peppino divisi a Berlino), del ladruncolo (Guardie e ladri, Sua eccellenza si fermò a mangiare, I tre ladri, La legge è legge, I due marescialli), del nobile squattrinato (Signori si nasce, Totò lascia o raddoppia), del Maestro di musica fallito (Totò a colori, Il grande Maestro, Totò sexy n. 1), dello iettatore di professione (un “corto” televisivo), del pensionato malinconico (Il comandante), del professore frustrato (L’uomo, la bestia, la virtù da Pirandello), del pittore di falsi artisticamente senza identità (Totò, Eva e il pennello proibito), dell’impiegato impromuovibile (Totò e i sette Re di Roma, Chi si ferma è perduto), dell’usciere vituperato (La banda degli onesti), persino del detective fallimentare (Totò, Vittorio e la dottoressa), del posteggiatore abusivo (Totò, Peppino e la dolce vita), del maggiordomo fedelissimo (Totò sceicco), dell’ex-carcerato (Dov’è la libertà), della comparsa senza ingaggio (Risate di gioia). Sono tutti ruoli “bassi” o “caduti”, dove la sua grazia utilizza la non aderenza alla realizzazione sociale e alla certezza di identità come motore aereo, per mantenere sottile quel corpodi rappresentazione che si fa fantasma terapeutico attraverso un ridere emotivamente completo, dove sotto la gag riposa l’anima dell’Uomo della Tradizione, quale lui, poi, fece in modo di essere soprattutto nella vita privata e in quella iniziatica di Libero Muratore. Non stupisce, dunque, rilevare, nella messe di biografie estese e frammentarie, testimonianze e documenti vari che ormai costituiscono una sorta di agiografia di questo santo laico (affermazione che nulla vuole avere di provocatorio e tanto meno di blasfemo) la descrizione della serietà, quando non anche severità, con cui trascorreva la sua vita privata. Né è, per chi lo conosceva intimamente e, probabilmente, per i suoi Fratelli, novità il fatto che praticasse, con grandissima discrezione, diffuse formedi filantropia (affitti pagati per mesi ad attori in difficoltà, istituzione di una clinica per cani randagi, distribuzione “notturna”, “segreta” e rigorosamente anonima di denaro nei bassi di Napoli, etc, etc.). Oltre a ciò, è fin troppo nota, nella cultura simbolica massonica, la limpida funzione didascalica della celeberrima poesia A’ livella dove il principio non acritico dell’Uguaglianza viene reso in modo mirabile, poetico e simbolico ad un tempo. Un uso esemplare, quello del poeta Totò, dello strumento di esplicita funzione massonica, la livella, appunto, come metafora perfettamente inserita nella cultura simbolica di questo particolare ambito culturale. Tuttavia, ciò che colpisce – nella espressione mimetica del Principe – è ciò che è “sottile” e non ciò (ed è poco) che si propone in modo quasi manifesto. Scendendo dietro le quinte, dunque, scopriamo un atipico Clown sacro, dunque, capace di metabolizzare assieme, di armonizzare ciò che appare distantissimo quale esercizio della comicità e esperienza della sacralità sovra-confessionale, archetipica, universalistica, meta-culturale propria della Libera Muratoria, intesa nella più ampia accezione possibile.