di STEFANO BUSCHERINI (Università di Bologna)
A noi moderni che impieghiamo i numeri quotidianamente non appare ormai così importante il ruolo dello zero all’interno del nostro sistema numerico. Il segno circolare ha una molteplicità di funzioni; rappresenta: – il numero soggetto alle operazioni e alle regole matematiche; – l’assenza di una registrazione nella cella di una tabella; – il punto di partenza per il conteggio o per la graduazione di uno strumento o per la divisione di una scala in una parte negativa e in una positiva; – la mancanza di una cifra all’inizio, all’interno o alla fine di un numero Anche la lingua italiana però se ne è appropriata nelle espressioni tecniche e nelle frasi idiomatiche: “mettere a zero uno strumento” (negli apparecchi di misurazione), “il grado zero” (in linguistica il grado apofonico in cui la vocale scompare), “sparare a zero” (in balistica), “tagliare i capelli a zero”, “radere a zero”, “zero spaccato” (il segno tagliato per evitare che possa essere trasformato in 6). Il termine e la sua forma sono tanto entrati nel lessico che quasi mai ci ricordiamo del lungo viaggio che questo concetto ha compiuto dall’antico Oriente fino alla cultura occidentale. La stessa etimologia ricorda il tragitto finale compiuto: gli Indiani indicavano lo zero con sunya (“vuoto”), che fu tradotto dagli Arabi con sifr, che a sua volta fu reso in latino da Fibonacci con zephirum. Nei secoli successivi la parola T latina divenne cifra o zeron da cui il termine moderno ha origine.
Ancora prima della civiltà indiana, tuttavia, i Babilonesi crearono un segno da impiegare per segnalare l’assenza di una cifra in una sequenza numerica all’interno dei testi matematici e astronomici. Lo zero apparve quindi nel loro sistema numerico posizionale e sessagesima, denominato da Thureau-Dangin (1932) “savant” per l’ambito in cui era usato, che era stato sviluppato verso il XIX secolo a.C. In tale sistema un cuneo verticale rappresentava l’unità mentre quello orizzontale la decina, Seguendo un principio additivo e decimale era possibile scrivere i numeri fino al 59, mentre la valenza posizionale permetteva di rappresentare i numeri superiori. Come nel sistema moderno, i cunei assumevano valori differenti a seconda della posizione occupata: mantenere il proprio valore se scritti in prima posizione, lo moltiplicavano per la prima potenza di 60 nella seconda e così via. Gli stessi concetti erano poi applicati nella scrittura delle frazioni, dove però l’esponente della base era negativo. Il sistema era perciò posizionale e sessagesimale, ma all’interno di ogni ordine di grandezza seguiva un principio additivo e decimale. Tale aspetto portava ad un’ambiguità di lettura: ad esempio, due cunei orizzontali e un gruppo di cinque verticali potevano essere letti come 25 oppure 10,15 o anche 20,5. Consci di tale problema, gli scribi babilonesi per indicare la mancanza di un valore ed il passaggio da un ordine ad un altro incominciarono ad impiegare uno spazio vuoto, oppure due cunei obliqui, già usati in ambito letterario.
Il primo metodo non risolveva però completamente il problema: rimaneva il caso a dell’assenza di due ordini di grandezza successivi (da rappresentare con due spazi vuoti consecutivi) e la difficoltà di lettura di un solo numero, da cui non era possibile conoscere l’ordine di grandezza. La soluzione a simili problemi di lettura fu trovata nel periodo seleucide (III sec. a.C.) con l’introduzione dello “zero”, rappresentato da una variante grafica del precedente segno di separazione. A noi moderni può apparire strano il lungo periodo intercorso tra lo sviluppo del sistema posizionale e l’introduzione di tale segno. Eppure Ifrah (1994, I: 357-359) ha dimostrato grazie a due antichi testi matematici che nel 1700 e nel 1200 a.C. gli scribi non si preoccupavano della questione:
– il primo esempio è tratto dalla tavoletta VAT8528, relat
iva all’interesse di un capitale;
– il secondo dalla tavoletta AO17624, proveniente da Uruk.
Il testo di quest’ultima espone il problema della suddivisione di un trapezio. Nella zona di taglio è presente l’elevamento al quadrato di 2,27, il cui risultato è indicato in 6,9. Dato che il valore doveva essere in notazione sessagesimale 6,0,9, è chiaro che l’autore non conosceva ancora l’uso del segno di separazione. Una possibile spiegazione della tarda introduzione dei due cunei può essere ricercata nel fatto che in base 60, a differenza del nostro sistema,i numeri che – necessitavano dello zero per essere trascritti erano pochi. Ad esempio, nel caso sessagesimale lo zero serviva solo per scrivere il 60, mentre in quello decimale era necessario per scrivere le sei decine. Ampliando l’intervallo, si nota che solo 59 numeri prima del 3.600 richiedevano il segno nel sistema babilonese, ovvero tutte le potenze del 60 (1,0 e 2,0 e 3,0 e così via), mentre in quello moderno già nella scrittura di vari numeri del primo centinaio è indispensabile (101, 110, 102, 120, ad esempio). Il ritrovamento delle tavolette matematiche ed astronomiche del periodo seleucide ha permesso di capire come i matematici e gli astronomi impiegassero il segno. Gli studi (Neugebauer 1945, 1955; Ifrah 1994, I: 363) hanno dimostrato che i Babilonesi usavano lo zero nella scrittura dei numeri come noi moderni: in posizione mediale, finale ed iniziale. In quest’ultimo caso lo zero appariva nelle tavolette in cui gli scribi dovevano rappresentare solo le frazioni sessagesimali ed era perciò necessario indicare l’assenza di una parte intera.
I testi astronomici babilonesi furono il canale, tramite cui la notazione sessagesimale e lo zero raggiunsero il mondo ellenico. I Greci possedevano un sistema numerico composto dalle 27 lettere dell’alfabeto con cui scrivevano i numeri fino al 999; le prime 9 lettere servivano per indicare le altrettante unità, le successive 9 le decine e le restanti le centinaia. In questa notazione, ad esempio, il numero 11 era scritto ia. Nonostante il sistema fosse decimale, la base 60 fu introdotta per scrivere le frazioni nei testi astronomici: esse furono espresse seguendo il sistema sessagesimale, ma i numeri che le componevano furono rappresentati con le lettere greche, secondo la notazione ionica. Nelle tavole di questi testi l’assenza di una parte frazionaria nelle sequenze numeriche era indicata con il segno sche, secondo Gupta (1995:51), fu il risultato dell’abbellimento di un piccolo cerchio. Per alcuni studiosi il segno altro non sarebbe che una omicron, iniziale i ’20 della parola oudev ovvero “nulla”. Poiché la stessa lettera rappresentava anche il numero 70 nel sistema ionico, la linea posta sopra sarebbe servita ad eliminare gli inevitabili problemi di lettura dei due possibili valori e sarebbe scomparsa nel periodo bizantino.
Neugebauer (1969: 13-14) non concorda con tale spiegazione: i papiri astronomici del periodo tolemaico non supportano questa spiegazione, ma suggeriscono l’invenzione di un nuovo segno come indicatore di un posto vuoto. L’argomento è stato approfondito dall’opera di Jones (1999) sui papiri astronomici di Ossirinco del periodo tolemaico, in cui lo studioso : scrive che gli astronomi usavano due metodi per evitare di ripetere più volte i termini tecnici: – il troncamento della parola; – l’uso di un segno. Il secondo sistema era impiegato proprio nel caso della rappresentazione di un posto vuoto in una frazione sessagesimale o davanti a questa nel caso dell’assenza della parte intera. il segno era comune” mente il cerchio con sopra la linea orizzontale, ma esistevano alcune varianti grafiche, che andavano da semplici spostamenti della linea, che poteva essere scritta sopra o sotto il cerchio, a nuove forme in cui alla fine si erano collegati in un solo tratto la linea ed il tondo. secondo Pingree (2003: 138-139) fu questa l’origine dello zero indiano, visto che le tavole astronomiche sanscrite furono molto probabilmente il risultato della traduzione delle corrispettive greche. La prova di tale trasmissione sarebbe contenuta nei versi IV, 6-15 dell’opera tramandata con il titolo di Paricasiddhantika (i 5 trattati astronomici) di Varahamihira (505) d.C.), che espongono li tavola dei seni: per gli angoli che vanno da 0° a 90° sono dati i corrispondenti valori del seno (jya) con le frazioni espresse in base sessagesimale. La mancanza della parte‘frazionaria è indicata con sunya. Nel testo il termine non indica solo l’assenza di un valore, ma è considerato un numero, come dimostra il suo ripetuto uso nelle operazioni di addizione e sottrazione. Visto che le parti in cui lo zero interviene in un’operazione trattano argomenti provenienti dal precedente Paulisasiddhanta (Il trattato di Paulisa), è molto probabile che il concetto dî zero come numero fosse già stato introdotto al tempo in cui era avvenuta la stesura di tale opera, ossia nel 400 d.C. (Datta 1926; Datta e Singh 1962: 78-79). Lo stesso periodo è stato individuato da Pingree (2003), che rintraccia lo zero nel Paitamasiddhanta (Il trattato del dio Brahman) del Visnudharmottapurdna, rappresentato dalle parole sunya, kha (“il cielo vuoto”), piùrna (“luna piena”) e puskara (“il loto”) tutti termini che richiamano la forma rotonda.
Tali opere formerebbero, l’ultima fase delle sei in cui lo studioso suddivide l’introduzione dello zero in India: – la scrittura dei numeri in base 10; – il sistema decimale posizionale all’inizio dell’era cristiana; – l’uso di sinya per segnalare la mancanza di termini in una sequenza numerica; _ l’arrivo in India delle tavole astronomiche greche contenenti il segno circolare; _ la resa del cerchio greco nel piùrna nel bindu (punto) sanscrito; – la scrittura verso il 400 d.C. dei numeri con il segno del numero e non più con la parola. Non tutto il mondo scientifico concarda con questa ricostruzione: alcuni studiosi, soprattutto indiani, propendono per u’introduzione indipendente dello zero da parte della civiltà indiana. La loro ricerca del primo uso del simbolo e della parola è partita dai testi vedici e si è spinta fino all’inizio dell’era cristiana. Lo studio non si è poi ristretto solo al campo matematico, ma ha abbracciato ‘anche la filosofia, le riflessioni mistico-religiose e la grammatica indiana, tutti campi che sembrano abbiano partecipato all’evoluzione del concetto e del simbolo dello zero. In un insieme così vasto di testimonianze è comunque possibile definire un periodo preciso in cui anche per lo zero furono fissate delle regole matematiche: nel 628 Brahmagupta presentò nei versi 18.30- 35 del XII capitolo del Brahmasphutasiddhanta (Il trattato corretto di Brahman) l’aritmetica dello zero. – Nei secoli successivi le operazioni che interessavano lo zero furono prese in considerazione ariche da altri matematici indiani (Mahavira, metà del IX sec., Sripati, metà dell’XI sec) fino ad arrivare a Bhaskara (X11 sec. d.C.) che nel suo trattato Bijaganita (Algebra) introdusse l’infinito! come risultato di una divisione per zero. Loria (1982: 174-176) a proposito dell’algebra indiana, in cui 10 zero “funzionando come denominatore di una frazione, dava luogo ad un’entità di nuovo genere» dotata della curiosa proprietà di non mutare per l’aggiunta la diminuzione di un numero qualsivoglia” scrive che “è lecito asserire che con Brahmagupta facciano il loro ingresso nell’aritmetica razionale i numeri 0 e x”, Più cauti sono stati Boyer (1943) e più recentemente Plofker (2009: 191-196) nel commentare il passo: il primo ha sottolineato la poca chiarezza dovuta ad una successiva affermazione dello scrittore indiano che a/0 x 0 = a; la seconda, considerando l’opera in cui è presente tale regola, si domanda se la divisione abbia come risultato l’infinito nell’algebra e una sorta di stato indeterminato nell’aritmetica oppure se il concetto di infinito sia collegato ad una fase più avanzata dell’insegnamento. Se quindi non ci sono certezze riguardo a chi spetti l’onore di aver sviluppato per primo il concetto e il segno zero, le testimonianze permettono di affermare che furono gli Indiani ad introdurre lo zero nella “classe” dei numeri (sanscrito sankhya), ampliando anche le regole aritmetiche per prendere in considerazione la nuova cifra.
dei numeri come noi moderni: in posizione mediale, finale ed iniziale. In quest’ultimo caso lo zero appariva nelle tavolette in cui gli scribi dovevano rappresentare solo le frazioni sessagesimali ed era perciò necessario indicare l’assenza di una parte intera. 1] testi astronomici babilonesi furono il canale, tramite cui la notazione © ’ sessagesimale elo è Tabella 1- Sistem: zero raggiunsero il mondo ellenico. 1 Greci ossedevano un A de Distema nume- Aleladb rico composto lì 2 3 4 9 6 7 8 9 ’ | EvBEOY dalle 27 lettere dell’alfabeto con 2 0:31,25 cui scrivevano i | 1;2,50 numeri fino al 1a 1:34,13 9996; le prime 9 Tabella 2 – Tavola di « lettere servivano per indicare le altrettante unità, le successive 9 le decine e le restanti le centinaia. In questa notazione, ad esempio, il numero 11 era scritto 1a. Nonostante il sistema fosse decimale, la base 60 fu introdotta per scrivere le frazioni nei testi astronomici: esse furono
espresse seguendo il sistema sessagesimale, ma i numeri che le componevano furono rappresentati con le lettere IT 10 greche, secondo la notai zione ionica. Nelle tavole di questi testi l’assenza di una parte frazionaria nelle sequenze ’ numeriche era indicata con il segno Sche, secondo —Gupta (1995:51), fu il risul1 NUMErIcCO 10n1CA tato dell’abbellii mento di un piccolo cerchio. Per alcuni studiosi il segno altro non sarebbe che una W KOOTWV Sessantesimi omicron, iniziale i ’20 della parola Ò iEò ovdEv, ovvero 3 ada “nulla”. Poiché la orde dell’Almagesto” stessa lettera rappresentava anche il numero 70 nel sistema ionico, la linea posta sopra sarebbe servita ad eliminare gli inevitabili problemi di lettura dei due possibili valori e sarebbe scomparsa nel periodo bizantino. Neugebauer (1969: 13-14) non concorda con tale spiegazione: i papiri astronomici
NOTE
1 La base 60 traeva origine dal più antico sistema sumero, che in una sua fase avanzata aveva impiegato lo stesso cuneo verticale per rappresentare l’unità e la sessantina. Il segno per lo zero mancava in quanto era indispensabile solo nei sistemi numerici posizionali, mentre non era necessario in quelli che non seguivano tale principio, come, oltre al sumero, quello egizio.
2 Per la trascrizione dei numeri cuneiformisi usa separare le cifre sessagesimali con il segno “;’ mentre il segno “;” divide la parte intera dalla parte frazionaria: ad esempio, 1,24;30 indica 1X601+24×60 0+ 30/60 = 84,5,
3 Simili problemi di lettura erano stati avvertiti anche riegli altri sistemi numerici mesopo- tamici: ad esempio in una tavoletta, datata al 31° anno di regno di Ammi-ditana di Babilonia (1683- 1647 a.C,), i cunei verticali delle sessantine e quelli delle unità sono separati dal termine accadico Susi, parola indicante il 60 (Ifrah 1994, 1: 316).
4 Scrive Labat (1976: 24-25, 175), riguardo alla frase nella scrittura cuneiforme, che i due cunei nei commentari separavano la parola dalla spiegazione o indicavano la fine di un’idea o di una trattazione. Per esempi concernenti l’uso dello spazio vuoto o del cuneo obliquo nelle tavolette, vedi Ifrah 1994, 1: 353-355,
5 A questi problemi va aggiunto il caso degli scribi “sbadati o poco coscienziosi” che omettevano lo spazio vuoto (Ifrah 1994, I: 358
6 Per la descrizione del sistema numerico greco, le sue origini e le principali operazioni, Buscherini 2009.
7 1 Greci non lavoravano con le moderne funzioni trigonometriche, ma utilizzavano la corda (eU8eîa), definita come il segmento sotteso dall’angolo al centro di una circonferenza
8 Neugebauer e Pingree 1970-71
9 Ifrah (1994, I: 793-977) ha descritto in maniera molto approfondita la numerazione indiana, esponendo le teorie “fantastiche” e scientifiche (affiancando all’ipotesi dello sviluppo indipendente, quella di un’influenza babilonese o cinese) relative alla sua origine.
10 Per un approfondimento di tali studi, Gupta 1995.
11 Due esempisi ricordano: il grammatico Panini (circa 500 a.C.) che sembra non solo aver contribuito al concetto di zero, ma anche averlo impiegato prima che i matematici indiani lo “accettassero” (Gupta 1995: 57 e relativa bibliografia); Pihgala (prima del 200 a.C.) e il suo uso del cerchio per indicare l’assenza di un valore nella ricerca di tutte le possibili disposizioni di due sillabe in un metro contenente n sillabe (Datta e Singh 1962: 75-77; Gupta 1995: 57). Per una presentazione dei forti legami tra grammatica e aritmetica nel mondo indiàno, vedi Ifrah 1994, I: 949-955,
12 Per il concetto di Sanya nel mondo indiano, Bag e Sarma 2003.
13 Con questo termine Brahmagupta intende una frazione che ha zero come numeratore.
14 Il termine impiegato è khahara, che gode della proprietà dirimanere invariato se gli si somma o gli si sottrae un numero finito. –
15 Nonostante lo zero sia presente nelle opere del periodo greco, non raggiunge però il pieno status di numero: scrive infatti Euclide negli Elementi (VII, 1-2) che “l’unità è ciò secondo cui ciascuno degli enti è detto uno e numero è una molteplicità composta di uno” (Acerbi 2007: 1091).
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