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“Italia: come era, come è, come sarà; a 150 anni dall’Unità d’Italia”
Un secolo e mezzo ci appare come un tempo lunghissimo: il 1861 sembra appartenere soltanto ai libri di scuola, eppure 150 anni altro non sono che sei generazioni.
Se guardo alla data di nascita di mio nonno sono già nel 1900 – alla vigilia della Prima guerra mondiale -, e se lui si voltava indietro a ricordare il suo di nonno allora era subito il tempo di Cavour.
Questa storia ci appartiene, dovrebbe rassicurarci, eppure oggi prevale un senso di smarrimento e molti si chiedono cosa ci sia da festeggiare: dobbiamo forse fare i fuochi d’artificio per la speranza e i desideri che abbiamo perduto?
Forse c’è da essere contenti per un Paese che anno dopo anno rallenta il suo slancio e si mangia i suoi risparmi? Un’Italia affaticata per quale motivo deve fermarsi a celebrare, perché dovrebbe mettere la bandiera alla finestra?
Dovrebbe metterla per ritrovare se stessa, dovrebbe fermarsi perché potrebbe ricordare che i desideri, la realizzazione personale e gli slanci individuali sono capaci di fare la storia se navigano insieme a quelli di milioni d’altri, se fanno parte di un progetto collettivo, se sentono di appartenere ad un’idea forte capace di far dimenticare le paure, di dare coraggio davanti alle difficoltà. Un’idea che parli di futuro, di impegno, di merito, di valore.
L’esempio è lì nelle nostre memorie familiari: ci siamo tirati fuori dall’arretratezza, dalla povertà, dall’analfabetismo, abbiamo costruito quel miracolo economico che ancora oggi ci permette di stare in piedi in tempi di crisi di tutto l’Occidente.
Molto di ciò che siamo oggi è frutto del risparmio dei nostri genitori e dei nostri nonni, di quelle generazioni che hanno saputo archiviare il fascismo, le macerie della guerra, che hanno avuto l’energia per rimettersi in piedi, così come i loro nonni alla fine dell’Ottocento erano stati in grado di far fare il primo grande salto all’Italia.
Se io metto insieme la storia di ciascuno di noi, normale e «borghese», con quella di tutti quelli che ci hanno fatto sentire orgogliosi di essere italiani: gli eroi silenziosi e caparbi come Giorgio Ambrosoli; i magistrati e i poliziotti che hanno combattuto la mafia, il terrorismo e la corruzione; i volontari che hanno scavato tra le macerie del terremoto del Friuli e dell’Irpinia o che hanno spalato il fango a Firenze dopo l’alluvione del 1966; i maestri e le maestre che ci hanno insegnato a leggere e scrivere senza guardare al portafoglio; i condannati a morte della Resistenza che ci hanno lasciato le loro lettere; gli emigranti che dopo aver attraversato il Paese e gli oceani con le valigie piene di legumi e coperte hanno costruito il boom economico; gli inventori del Made in Italy che hanno portato lo stile italiano in ogni angolo del mondo; i geni che hanno regalato al mondo il radar, il telefono, la radio, la Vespa, la Lettera 22 e la Nutella.
Se metto tutto questo insieme allora non ho dubbi: facciamo bene a ricordarli, a festeggiare, a mettere il tricolore alla finestra e a usarli come modello.
Questo siamo chiamati a ricordare oggi, quello che hanno costruito i nostri nonni, le loro conquiste, i loro sacrifici, i loro errori e i sogni che hanno coltivato in un tempo in cui si era convinti che fosse indispensabile guardare sempre avanti e lasciare il Paese un po’ meglio di come lo si era trovato. Ma dobbiamo soprattutto imparare di nuovo a desiderare il futuro.
Attribuire allo Stato nato il 17 marzo 1861, con una popolazione di 22 milioni di abitanti, in massima parte contadini poveri, 40 anni di vita media e l’80 per cento di analfabeti, la responsabilità dei mali dell’Italia del 2011, con 60 milioni di abitanti, una durata media della vita di 80 anni, il 99 per cento di alfabetizzati e il 5 per cento di addetti all’agricoltura, è un’interpretazione che scaturisce da una credenza di fede piuttosto che da una spiegazione razionale.
Allora, in materia di fede, è forse preferibile credere che il 17 marzo 2011 avverrà il «miracolo dello Stellone», e che tutti gli italiani festeggeranno concordi l’Unità d’Italia. Almeno, questa credenza pare condivisa dalla grande maggioranza degli italiani. E solo essi potrebbero compiere un simile miracolo.
Mi piace ora, per completezza, riportare un articolo di Giovanni Sabbatucci apparso su “Il Messaggero” del 14 Giugno 2010:
“Una rivoluzione borghese tra la politica di Mazzini e le scelte sabaude”.
I temi centrali, i momenti salienti, i profili dei protagonisti del processo unitario non possono essere assenti dal quadro di nozioni essenziali su cui dovrebbe fondarsi la formazione storica di un cittadino italiano. Un tempo questi temi e queste figure avevano un larghissimo spazio nei programmi di storia fin dalle elementari, ma quello spazio conteneva molta retorica e spesso si riduceva a una galleria di icone patriottiche.
Quali sono, oggi, le questioni nodali su cui gli insegnanti potrebbero insistere e a cui gli studenti dovrebbero saper rispondere?
Proviamo qui ad indicare le dieci che ci sembrano decisive.
1.)L’Italia esiste da sempre o è una “invenzione” degli ultimi due o tre secoli?
Italia come luogo geografico esisteva dall’antichità, anche se i suoi confini non erano ben definiti. Una lingua letteraria italiana si afferma dai tempi di Dante. E in tutta la letteratura nazionale, da Dante in poi, un’idea di Italia è ben presente. Ma questa idea diventa qualcosa di politicamente significativo solo dalla fine del Settecento, per gli influssi della rivoluzione francese e della conquista napoleonica: è allora che l’idea di nazione, in quanto comunità di popolo unita da vincoli di sangue e da comunanza di intenti, diventa un concetto – chiave della politica.
2).Quali gruppi sociali e quali correnti intellettuali contribuirono maggiormente a diffondere le nuove idee patriottiche?
I primi a muoversi furono i militari, che militavano in società segrete come la Carboneria e che furono i protagonisti dei moti costituzionali del ’20-21. Ma a diffondere il nuovo “discorso nazionale” furono soprattutto gli intellettuali – scrittori e filosofi, poeti, pittori e musicisti – influenzati dalle idee romantiche: il Foscolo dei Sepolcri e delle Ultime lettere di Jacopo Ortis, il giovane Leopardi della Canzone all’Italia, il Manzoni di Marzo 1821, il Berchet del Giuramento di Pontida, il D’Azeglio dei romanzi storici e tanti altri. Ma uno su tutti: Giuseppe Mazzini.
3).Quale fu il ruolo di Mazzini nel Risorgimento?
Fondando la Giovine Italia nel 1831, Mazzini fece uscire il movimento dalla logica cospirativa e iniziatica delle società segrete. Ma soprattutto, con i suoi scritti e più ancora con i suoi numerosi e sfortunati tentativi insurrezionali, tenne fermo quello che per lui era il punto irrinunciabile: l’Italia non doveva essere solo indipendente, ma anche unita tutta in un unico Stato che lui immaginava repubblicano. L’Italia unita fu molto diversa da come Mazzini l’avrebbe voluta, ma fu appunto un’Italia unita: difficilmente lo sarebbe stata senza di lui.
4).Perché fallirono i progetti federalisti?
L’idea accarezzata, soprattutto negli anni Quaranta, da molti patrioti sia di parte democratica (Cattaneo, Ferrari), sia di orientamento moderato (Gioberti, Balbo), era che l’indipendenza italiana si sarebbe potuta raggiungere più facilmente attraverso una confederazione fra gli Stati esistenti: l’importante era liberarsi dell’egemonia dell’Impero asburgico, che dominava direttamente nel Lombardo – Veneto e controllava di fatto gli altri Stati della penisola. Secondo Gioberti, questa confederazione doveva essere presieduta dal papa, secondo altri il ruolo dominante doveva spettare al Piemonte. Per Cattaneo il modello da seguire era quello della Svizzera repubblicana. Dopo il fallimento delle rivoluzioni del ’48 e della prima guerra di indipendenza, questi progetti si rivelarono però inattuabili, per l’indisponibilità dei soggetti interessati, a cominciare da papa Pio IX.
5).Quale fu il ruolo della monarchia sabauda nella realizzazione dell’unità?
Fu un ruolo decisivo. Senza di essa l’unità nazionale sarebbe rimasta un’utopia. Il Regno sabaudo era l’unico Stato italiano che disponesse di un esercito efficiente e che fosse concretamente interessato ad espandersi nel resto della penisola, contrastando l’egemonia austriaca. Ma soprattutto era l’unico in cui, per merito di Vittorio Emanuele II, fu mantenuto, dopo il ’48, un regime costituzionale, quello disegnato dallo Statuto albertino del ’48. Il Piemonte divenne così il rifugio per molti esuli e il principale punto di riferimento politico dell’opinione patriottica italiana. Un ruolo reso più credibile dalla politica di riforme e di sviluppo economico messo in atto da Cavour negli anni ’50.
6).Quale fu il ruolo di Cavour?
Cavour fu l’artefice principale del modello – Piemonte (costituzione e libertà più sviluppo economico) e il protagonista di una diplomazia audace e fortunata. Ma soprattutto Cavour, che pure, fino al ’60 rimase scettico sulla possibilità di un Regno unitario, allargato anche al centro – Sud, quando l’occasione unitaria si presentò con la spedizione garibaldina in Sicilia, seppe coglierla e darle attuazione, facendo accettare il fatto compiuto alle potenze europee.
7).Si può dire che il Risorgimento fu una “rivoluzione borghese” e che rispose agli interessi di una classe in ascesa?
Questo elemento fu certo presente. Così come fu importante il bisogno, da molti sentito, di un mercato nazionale come presupposto per lo sviluppo economico. Ma le motivazioni fondamentali furono soprattutto di natura politica e ideale.
8).Quale fu il ruolo di Garibaldi e della spedizione dei Mille?
Senza l’impresa garibaldina non ci sarebbe stata un’Italia unita dalle Alpi alla Sicilia. Ma non è tutto: Garibaldi regalò all’Italia non solo la sua unità integrale, ma anche un’epopea vittoriosa che affascinò mezzo mondo e diede un contributo decisivo alla causa, anche in termini di immagine: grazie a Garibaldi e alla sua figura carismatica, il Risorgimento mantenne il carattere di una rivoluzione democratica e non solo di una “conquista regia”.
9).Che cosa si intende con l’espressione “conquista regia”?
Questa espressione rifletteva la delusione dei democratici, per gli esiti del movimento unitario e per le modalità con cui si era compiuto, di fatto, l’assorbimento dei vecchi Stati nel Regno sabaudo, con la sua costituzione, i suoi ordinamenti accentrati ed il suo re (che non si diede neanche la pena di cambiare il suo numero d’ordine da “secondo” in “primo”), insomma senza un processo costituente come quello che Mazzini aveva avviato con la Repubblica romana del ’49. La delusione è comprensibile. Ma una soluzione diversa, non era probabilmente realizzabile e, nell’Europa delle grandi potenze, difficilmente sarebbe stata tollerata.
10).In conclusione, l’unità fu un successo?
Si, se si pensa alle condizioni di partenza, che, a metà Ottocento, vedevano l’Italia agli ultimi posti in Europa nelle classifiche dello sviluppo economico e civile. E, soprattutto, se si pensa alle alternativa: divisa in tanti piccoli Stati arretrati e subalterni l’Italia non sarebbe andata molto lontano.
Da una parte si tratta di rivendicare – con legittimo orgoglio, ma senza mai perdere il senso della misura – il valore storico e morale del Risorgimento, nonché il cammino compiuto dal nostro Paese dopo l’unificazione. Rispetto alla condizione in cui si trovava la penisola dopo il 1815, divisa in tanti staterelli assolutistici, in prevalenza sottomessi all’egemonia straniera degli Asburgo, va sottolineato che la nascita di un unico Stato indipendente, dotato di un Parlamento rappresentativo (per il quale il diritto di voto si sarebbe via via ampliato) e di una Costituzione che garantiva le principali libertà, fu comunque un enorme passo avanti. E infatti l’Italia unita conobbe, dopo le iniziali difficoltà, un notevole sviluppo e riuscì ad affermarsi tra le potenze europee, anche se il suo percorso novecentesco, con la dittatura fascista e il trauma della Seconda guerra mondiale, sarebbe stato difficile e accidentato. Ma senza l’eredità del Risorgimento, la Repubblica democratica in cui viviamo non sarebbe stata neppure pensabile. Il secondo elemento è che da quell’eredità occorre trarre spunto per affrontare le difficoltà presenti. Il Presidente della Repubblica ha espresso giustamente fiducia nel futuro dell’Italia, ha detto che reggeremo «alle prove che ci attendono, come abbiamo fatto in momenti cruciali del passato», purché «operi nuovamente un forte cemento nazionale unitario», capace di trasmettere a tutti i cittadini lo spirito di solidarietà necessario. Qui si gioca il nostro destino.
Tornata di Venerdì 11 Novembre 2011 FR.’. G. T.