TOSCANA E TOSCANITA’–SE SI DISPERDE UN’ANIMA

Se si disperde un’anima

Il commento di Marcello Mancini (La Nazione 02agosto 2011)

Firenze, 2 agosto 2011 – IN UN MONDO che tutto appiattisce, omologando stili di vita e modelli culturali, ci si comincia a chiedere se la toscanità, cioè l’identità della nostra gente, esista ancora e se abbia un senso coltivarla. Tanto più nell’anno in cui si celebra l’unità d’Italia, icona apparentemente antitetica ai localismi. E’ pur vero che siamo un popolo capace di unirsi più intorno all’urlo di Tardelli che alla stampella di Enrico Toti, quindi l’idea nazionale ha una sua singolare declinazione che discende dal rigore calcistico, meno da quello storico.

Ciò che rappresenta la Toscana, con i suoi campanili, le molteplici anime,  le sue sanguinose rivalità, comprese ovviamente le “maledizioni” malapartiane, non si cancella con una mano superficiale di vernice revisionista, meno che mai facendosi inghiottire dalla grande bocca della normalizzazione che tutto fagocita. E del resto ci sembra sbagliato dimenticare gli impeti unitari risorgimentali del popolo toscano, che anche attraverso questo giornale contribuì a fare la nazione. 

Abbiamo ereditato un patrimonio di invidiabili difetti, che magari mezza Italia disprezza ma che ci conviene tenere stretti e difendere dalla globalizzazione, che potrà mettere nel frullatore comune i mercati e le abitudini ma non la pasta di cui siamo fatti.
Nel 1865, quando la capitale stava per essere trasferita da Torino a Firenze, gli algidi piemontesi misero in guardia i sudditi di Vittorio Emanuele in procinto di partire – impiegati, negozianti e madri di famiglia – dotandoli di un manuale nel quale si scolpiva il carattere del fiorentino, “tanto sicuro della propria supremazia che talora non si fa scrupolo di sorridervi malignamente sul muso se voi vi mostrate o ignari od incuranti delle sue glorie storiche e artistiche”. Precauzione indispensabile, essendo il toscano ben noto per “um-mandalla a di’ dreo”, come, appunto, usa esprimersi. Siamo rimasti così, scontrosi e un po’ beceri, ma anche coraggiosi e generosi. Con la nostra indole “arrogante e piazzaiola”, che caratterizza in modo particolare i livornesi, secondo l’implacabile giudizio del poeta Giuseppe Giusti, che era nato a Monsummano e morì a Firenze. Per essere insolenti, lo siamo. I più incalliti sono anche bestemmiatori; adoriamo fare il bastian contrario e non sopportiamo i salamelecchi; ci piacciono più i rivoluzionari dei baciapile.

Se toscanità è appartenenza e orgoglio, ebbene, difendiamola. Perfino nelle quotidianità linguistiche, benché l’Arno oggi sia un po’ meno limpido e i panni del Manzoni passati di moda. Convinti come siamo che è sempre meglio dire spengere invece di spegnere, pigliare e non prendere, chetati e non “stai zitto”, pigiare e non premere, chiamare céncio lo straccio per pulire e balocchi i giocattoli. Se Manzoni non fa più tendenza ci pensa il lucchese Giacomo Puccini a rendere universale il “babbino caro” in Madama Butterfly – babbo e non papà – dove la toscanità resta scolpita nell’eternità della musica. Il successo del moderno Dante nel teatro del pratese Benigni è un altro esempio di attualità del genio toscano nel mondo. Perché – come si direbbe da queste parti, con uno scatto di presunzione – “ un si frigge mha coll’acqua”. 

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