Lavorare da apprendisti |
di Nardi, Adriano |
Nel linguaggio massonico le pietre per realizzare l’Opera sono la metafora delle forme pensiero. Ogni massone dovrebbe essere libero e di buoni costumi, per collaborare all’Opera. Il singolo costruttore è la pietra cubica su cui fondarLa. Perché sia cubica egli deve esprimere una forma pensiero giusta e perfetta. Per giungere ad una tale fattura, deve essere lavorata a regola d’arte (incarnando progressivamente le regole dell’Arte Muratoria e i principi della Scienza iniziatica). Deve cominciare col tendere a quella libertà, abbandonando i metalli, gli asservimenti materiali, prodotti dal proprio tolemaico punto d’osservazione.
Questi lo portano a concepire, che le proprie opinioni, generate nella sua realtà plumbea, siano significative al fine della realizzazione dell’Opera. Spostare quel punto di vista è il primo grande lavoro che ogni Apprendista deve compiere per orientare se stesso. Ma orientare cosa, verso cosa? Egli, identificato con il piombo, la personalità impulsiva ed emotiva, conosce solo in parte il piano orizzontale, il campo delle sue oscillazioni. Deve allora, gradualmente ridurre sino a fermare quelle oscillazioni, affinché il filo, la coscienza, che lo lega alla propria controparte spirituale, possa aggiungere, alla funzione di ancoraggio che dà la vita, quella di canale di comunicazione, meglio noto come ponte coscienziale. Colui che realizza tale stato di coscienza è maestro, ovvero si è fatto canale tra i propri cielo e terra interiori, una forma pensiero giusta e perfetta per la realizzazione dell’Opera.
Analizziamo allora cosa porta in dote un valido Apprendista al suo ingresso in una Loggia. L’unica cosa di cui dispone all’inizio è il desiderio d’apprendere. La pratica è indispensabile, ed è la fase propedeutica inevitabile, perché ogni neofita faccia sua l’Arte. La sua apparente inerzia è dovuta alla sua ignoranza.
Questa spinta emotiva, dovrebbe essere il requisito minimo ed un fatto scontato in una Scuola iniziatica, che ha come scopo quello di educare, ovvero iniziare, i suoi allievi. È questa spinta che nel tempo porta l’Apprendista introdotto alla conoscenza, ad iniziare un processo trasmutativo con un atto di volontà. Quest’aspetto psicologico primario, R. Assagioli, il padre della Psicosintesi, così lo definisce:
«Funzione psicologica, la più vicina all’io, sua diretta espressione. Sorgente di tutte le scelte, le decisioni, gl’impegni. Attraverso la sua scoperta dentro di noi percepiamo di essere un soggetto vivente dotato del potere di operare cambiamenti nella nostra personalità, negli altri, nelle circostanze. Ha la funzione direttiva e regolatrice simile a quella del timoniere di una nave.»
Se questa definizione ci trova concordi nel suo complesso, non chiarisce completamente i differenti aspetti, che poi egli esamina, in cui la volontà può essere interpretata e vissuta. Uno di essi, utile al nostro ragionamento, è la definizione di buona Volontà.
«La buona Volontà è la volontà individuale che affronta il compito di disciplinarsi e scegliere le mete coerenti con il benessere degli altri e il bene dell’umanità. Non va confusa con i desideri, le velleità, le aspirazioni idealistiche di tante brave persone; è un proposito fermo, è potenza e ardore; unione di forza e di bontà, forza che vuole essere buona.»
La buona volontà rappresenta, allora, ciò a cui dovrebbe tendere con il proprio lavoro ogni Apprendista. Per ottenere questo primo traguardo, egli deve rendersi consapevole che disciplinarsi è un compito e rappresenta una prova. Ha un valore molto più alto di quanto si pensi. La tendenza a sottovalutare questa qualità della volontà, sta nel fatto che generalmente si è attratti dall’obiettivo a discapito degli strumenti per raggiungerlo. «Controllo e disciplina sono necessari in ogni tipo di allenamento, sia che si tratti di imparare delle tecniche e acquisire delle capacità, che di realizzare l’infinito potenziale umano. Grazie alla disciplina interna un individuo non coordinato può divenire gradualmente una personalità coordinata, dove i differenti livelli delle proprie capacità psichiche, rispondono ad un ordine interiore.»
L’atteggiamento comune non tende alla disciplina, né al sacrificio, inteso nella sua corretta interpretazione. «Quella che prevede, non un doloroso ascetismo autoimposto, né la rinuncia forzata e dura, ma una consacrazione che implica l’eliminazione graduale di tante cose, abitudini e attività, che sono nocive e inutili, o meno importanti (i metalli), per far posto e dedicare il nostro tempo a ciò che più vale.»
Il Catechismo massonico indica nel silenzio, la Regola aurea dell’Apprendista, come metodo per disciplinarsi, e nei buoni costumi, l’abnegazione, come primo passo verso la consacrazione di sé all’ideale.
Abbiamo, allora, un esercizio pratico da mettere subito in atto. Osserviamoci e constatiamo quanto non vogliamo vedere, poniamo tutto sotto l’impietosa lente del: «A cosa serve ciò? È utile?». Non servono anni di vita monastica o trentatre gradi massonici per fare quest’operazione. È un abito mentale che possiamo adottare fin d’ora. Un’opportunità per apprendere ad usare il maglietto della propria volontà, con lo scalpello del proprio acume, per smussare la propria pietra.
Ma non è il riconoscimento delle cose inutili ed improduttive a costituire un ostacolo, quanto gli alibi che sappiamo erigere a loro favore, la vera copertura delle nostre vie di fuga alle responsabilità.
Emerge allora, uno stridente contrasto. I nostri pensieri, seguiti da parole, volano ad ambiziosi obiettivi, ma quel sonoro non corrisponde alle immagini del “film” che stiamo interpretando. Usiamo riferirci a grandi modelli spirituali, ma dell’esempio fornito da anime così avanzate, non veniamo influenzati. Ciò non sarebbe un problema, come non lo è per miliardi di uomini e donne su questo pianeta, disinteressati ad una propria consapevolezza spirituale. Diventa un paradosso patetico per chi a parole, si dedica a certi temi, adottando una bandiera, come se questa bastasse a trasferire per magia le doti, proprie di chi realmente incarna i principi che quella bandiera sintetizza.
Nessuno è più persuasivo di chi spiega o descrive elementi e fatti di una realtà nella quale opera direttamente. Le descrizioni sono vive, perché trasmettono dinamiche, situazioni, problematiche e modi per evitarle, i segni di un giusto procedere o i sintomi di un potenziale fallimento. Per una persona che vive da uditore, non è possibile essere altrettanto credibile. Questo spiega la differenza tra l’operatore, che non esprime delle opinioni su ciò che vive, perché descrive le cose per ciò che sono, e l’uditore, che non avendo elementi diretti, si avventura in descrizioni, più o meno verosimili, con l’aiuto dell’immaginazione. Se poi consideriamo che nella realtà metafisica, tranne rare eccezioni siamo tutti uditori, si spiega come tutti ci si senta in diritto di esprimere la propria opinione. Ciò alimenta l’illusione che ogni via sia buona per accedere a quella realtà, e per conseguenza il “fai da te” diventa paradossalmente la regola di un comportamento senza regole, al fine di acquisire quella conoscenza iniziatica che fonda la propria scienza su precisi princìpi.
Appare, allora, in tutta la sua macroscopica evidenza la mancanza di disciplina e controllo che, come abbiamo visto, sono essenziali perché un Apprendista possa essere preso sul serio, come tale.
Spesso si confonde la regolarizzazione all’Ordine con l’essere accettati nello stesso. Però mi chiedo: se tutto è la rappresentazione simbolica di una realtà velata, perché avere un brevetto d’appartenenza dovrebbe sfuggire a questa regola? Allora, essere Apprendisti implica qualcosa che ancora non abbiamo sperimentato.
Oggi la Massoneria è frequentata da molti uomini e donne “da salotto”, che al meglio discutono dell’Opera di trasmutazione interiore, ma parlandone senza praticare, non riescono a far vivere nei cuori e nelle menti di chi ascolta, la magia di una metamorfosi.
Si dice che la Massoneria non abbia bisogno di maestri. Quand’anche fosse vera questa ipotesi, che non corrisponde all’attuale “luce” dei suoi rappresentanti, credo che sia più drammaticamente vera la carenza di Apprendisti, disciplinati e pieni dell’entusiasmo e dell’ardore di conoscere e sapere, per imparare a poter fare. Non bastasse, vi è poi un grande equivoco che aleggia attorno al poter fare e consiste nella proiezione all’esterno dell’azione. Fuorviati dall’espressione rituale “a benefizio dell’umanità”, sugl’altri ci concentriamo, invece di indirizzare inizialmente quel poter fare alla taratura dello strumento, che siamo noi, per renderci idonei al fine che abbiamo riconosciuto come “giusto e perfetto”.
Proporsi all’esterno da incompetenti, realizza nella pratica la parabola dei ciechi che guidano altri ciechi e ciò che li attende non è il destino avverso, ma la naturale conseguenza delle cose. Perché per poter fare, bisogna prima voler (voler fare) imparare (saper fare) a fare (poter fare).
Bisogna allora iniziare ad operare da veri Apprendisti, nella intelligente modestia, riconoscendo il grande potere rivelatore del silenzio.
Un triplice fraterno abbraccio