CONSIDERAZIONI SUL CONCETTO DI FELICITA’.
Possibili ragioni della non felicità nel pensiero dell’”uomo massone”
<<Forse s’avess ’io l’ ale da volar su le nubi,
e noverar le stelle ad una ad una …,
più felice sarei,… candida luna>>
( G. Leopardi -1830 )
In questa tavola cercherò di motivare, a partire da una articolata riflessione sulla felicità, una mia personale idea: che nel pensiero dell’uomo massone è assente la felicità. Lasciamo agli altri, i profani, di essere felici, ma noi dobbiamo continuare ad essere inquieti. Io credo che non dobbiamo ricercare nella massoneria, in modo ossessivo ed acritico la felicità, perché non la troveremmo, altrimenti potremmo rimanere delusi, scontenti e conseguentemente pian piano allontanarsi dall’Ordine.
Prima di ogni altra cosa è necessario comprendere che cosa diciamo quando pronunciamo la parola “felicità”. Questo concetto nel suo senso più puro ed antico, decostruendo la parola e facendo un’indagine etimologica, offre non poche sorprese (1). La parola proviene dalla radice “thele”. “Thelos”: capezzolo in greco ed esprime la mutua felicità della madre e del figlio nel rituale dell’allattamento. Nel dizionario della lingua italiana il termine “felicità” viene descritto come una condizione di letizia, di gioia, di soddisfazione, di beatitudine e di contentezza.
Felice è il momento di passaggio da una sensazione di “ mancanza” ad una sensazione di “riempimento”.
Credo che sia utile, al fine di dimostrare ciò che ho ipotizzato, classificare ulteriormente il significato della felicità; esistono infatti modi diversi di felicità. Dobbiamo distinguere innanzitutto una “felicità personale” ed una “felicità universale o pubblica”; la felicità personale a sua volta può essere suddivisa in rapporto al tempo, in una forma di “felicità breve” ed in una forma di “felicità duratura”.
A.Felicità universale o pubblica o sociale o bene comune. Tutte le grandi ideologie o le rivoluzioni, che hanno mosso la storia universale, avevano come scopo l’eliminazione della infelicità sociale. Tutti gli uomini aspirano alla felicità; tutti sono d’accordo nel voler essere felici.
L’uomo tende, grazie alla sua “etica naturale” ad amare il buono, il bello, il giusto; a volere la pace, il rispetto dei diritti umani. Anche se non dobbiamo dimenticare che la “volontà” umana è libera (libero arbitrio); libera anche di perseguire il proprio o l’altrui svantaggio e la propria o l’altrui distruzione. Non c’è bisogno di essere dei politici, dei teologi, dei filosofi o dei massoni, per comprendere questo naturale “impegno morale” nei confronti “ del prossimo. Anche se la nostra psiche è in grado di reagire solo al nostro ambiente e al mondo circostante. Ma non è in grado di interiorizzare veramente i fenomeni mondiali. Essa percepisce il vicino ma non il lontano.
I tedeschi hanno infatti due espressioni quando parlano del mondo ,”welt” che vuol dire mondo e “unwelt” che vuol dire mondo circostante. A noi Liberi Muratori una delle prime cose che ci viene insegnato, è che siamo al mondo per migliorare non solo le nostre coscienze ma anche quelle dei nostri simili. Credo che la massoneria continui ad avere un ruolo rilevante in questa società “moderna”, proprio per il suo nobile fine, rivolto non solo verso la ricerca di una perfezione individuale ma anche verso una perfezione o felicità sociale. Non dobbiamo dimenticare che alla base dei nostri Regolamenti del 1762 e delle Grandi Costituzioni del 1786 , viene riportato tra gli scopi la ricerca della felicità per il singolo uomo e dell’umanità intera. Questi concetti sono stati ripresi successivamente da Thomas Jefferson nel 1776, per stilare il testo della Dichiarazione d’Indipendenza .
Nella società contemporanea, la naturale tendenza dell’uomo alla ricerca della felicità sembra addirittura in forte espansione. Siamo ossessionati dalla ricerca a tutti i costi della felicità; domina la “cultura della felicità o della perfezione”, che induce a non accettare tutto ciò che non sia bello, splendente, positivo, felice. L’uomo oggi non sembra più capace di emozionarsi, di vivere il dolore, la sofferenza, la morte. Siamo di fronte ad una crescente “indifferenza” ed “ intolleranza”. La nostra Scuola Iniziatica ci educa alle emozioni; nei nostri lavori c’è una continua riflessione nei confronti degli aspetti sia positivi che negativi della vita, come il dolore, la malattia, la morte. Tutto questo ci aiuta a capire il prossimo, a interiorizzare i sentimenti, a dominare le paure, a sviluppare il senso di “Pietas umana” e di ”Agape”.
B. La “ Felicità personale” può essere divisa in rapporto al tempo “cronos” in due tipi: la “ felicità breve “ e lo stato di “ felicità duratura”. La felicità breve, momentanea, passeggera è espressione del suo significato più arcaico, identificabile con la gioia, il piacere, il godimento; destinati a durare il tempo di un baleno. Nell’attimo stesso in cui incomincia , inizia già ad esaurirsi. In contrapposizione alla felicità breve esiste uno “stato di felicità duratura”. Questo è un concetto più difficile da spiegare; esso si identifica più con il concetto di “serenità” che con quello di felicità.
Rappresenta il nostro “ stato d’animo” o meglio il “rumore di fondo del nostro pensiero”, che può essere “ melanconico o sereno”. L’aggettivo “sereno” ci riporta rapidamente in mente: il cielo sereno-chiaro -distinto, privo di nuvole e di foschia. Un cielo che lascia passare lo sguardo fino all’orizzonte, all’infinito. Quindi è “sereno” colui che si lascia attraversare dai pensieri, dagli eventi, dalle emozioni , dalle passioni, dagli imprevisti della vita senza lasciarsi turbare, senza offuscare il suo orizzonte, senza temere che tutto ciò alteri la sua esistenza. Credo che raggiungere questa capacità sia davvero impossibile. Chiunque, se interrogato su quale sia il dono che più desidererebbe dalla vita , risponderebbe “ Un po’ di serenità” (2).
Tutti la desiderano; ma le “passioni” ed i “desideri” che animano la nostra esistenza, ci condannano a forme più o meno tragiche di fallimento esistenziale. Forse è questo il motivo per cui non conosco nessuna persona con uno stato d’animo completamente felice; come non conosco nessuna persona completamente sana; conosco solo persone più o meno affette da malattie, più o meno gravi.
I filosofi si sono interrogati da sempre intorno al problema della felicità, allo scopo di migliorare il modo di vivere degli uomini: la filosofia come terapia dei mali dell’anima. Nella grecità , la condizione di perfetta serenità veniva raggiunta seguendo i principi di Epicuro (3) che ammoniva di astenersi o liberarsi dall’incessante sfera del “desiderio”. Lo Stoicismo ed il suo massimo interprete Socrate miravano a raggiungere la serenità tramite un adeguato dominio delle “passioni”. La tradizione ebraico- cristiana invece ha introdotto il concetto di trasgressione, ossia del peccato.
La felicità in questa vita è raggiungibile solamente se, nella lotta tra passioni razionali e passioni irrazionali, che avviene all’interno della nostra anima “desiderante”, vince la prima, quella rivolta alla verità ed al bene. Domina nel cristiano il sentimento di “privazione”; capace di per sé anche di rigenerare il desiderio e da qui la tentazione ed il peccato. Non a caso, anche il cosiddetto “peccato originale” nasce nel testo biblico proprio in virtù di un divieto. Ad Adamo ed Eva venne fatto divieto di cibarsi dei frutti dell’albero della “conoscenza” del bene e del male; altrimenti se lo avessero fatto sarebbero diventati mortali. In questo atto risiede la vera origine del male e quindi della tentazione e del peccato.
L’uomo diventa quindi mortale per aver infranto un divieto. L’uomo con questa azione ha scelto liberamente di trasgredire, di conoscere sia il bene che il suo opposto, il male. Pertanto nasce proprio con la tradizione giudaica, l’idea secondo cui “conoscere” significa morire. L’uomo è peccatore perché conosce, perché è capace di distinguere e di scegliere tra il bene ed il male.
Il Cristianesimo infatti invita l’uomo non alla conoscenza ma alla “fede”; non “gnosi”, non “sophia”, ma agape: amore e carità. Questa Dottrina si fonda inoltre sulla “speranza”; vera e propria forza vitale, sufficiente a far sopportare il male del vivere. In tal modo la vera felicità può essere solamente sperata. Pertanto la Speranza, la Fede e la Carità ( le tre virtù teologali- disposizioni al bene che l’uomo ha ricevuto direttamente – infuse- da Dio attraverso i sacramenti) rappresentano le vere e proprie condizioni di salvezza o di felicità dell’uomo sia durante la vita che dopo. Anche la dottrina Buddista invita a smettere di desiderare, di liberarci dal troppo, a far vuoto, ad escludere il desiderio dall’orizzonte della tormentata esistenza; ossia ad imparare ad accettare beatamente la “mancanza”; e dunque in sostanza a “non volere”.
Comunque sembra evidente che tutte le strategie, messe in atto dalle religioni, dalla filosofia o dalle utopie politiche, non sarebbero, almeno apparentemente, riuscite a soddisfare il bisogno di felicità o meglio di serenità dell’uomo. F.W.J. Shelling (4) filosofo tedesco , citato ampiamente da George Steiner (5), figura di primo piano nella cultura internazionale, sul suo affascinante libro sulle possibili ragioni della tristezza del pensiero, annette all’esistenza umana una tristezza inevitabile.
Questa tristezza fornisce il fondo oscuro in cui si radicano la consapevolezza e la conoscenza. Il pensiero è rigorosamente inseparabile da una « melanconia profonda ». In questa nozione c’è quasi certamente, il “rumore di fondo” della Bibbia, ed in particolare l’acquisizione illecita della conoscenza. Il pensiero e la conoscenza portano con sé un inevitabile velo di malinconia. Con la conquista da parte dell’uomo della facoltà di pensare, grazie all’evoluzione dei processi cerebrali, e quindi nel passaggio dall’uomo “non pensante” all’uomo “pensante” (sapiens), è iniziata l’infelicità della specie umana. I processi del pensiero purtroppo sono continui anche durante il sonno. L’uomo cessa di pensare solo con la morte. Ma perché il pensiero umano e la conoscenza non dovrebbero essere gioia? Heidegger ( 6) diceva che il compito essenziale del pensiero è quello di pensare all’”Essere”.
L’uomo quindi, al contrario degli animali, grazie all’illimitatezza del suo pensiero riflette inevitabilmente sulla sua esistenza, medita, si pone le domande “ultime”. Come è nato l’Universo? Quale è l’origine della specie? Esiste un Essere Supremo? Pensa al destino, al futuro: al male fisico, alla malattia che può sopraggiungere in modo inaspettato; alla morte, che coincide con “non Essere”. Si chiede se esiste il “dopo”, se esiste una vita personale dopo la morte (7,8).
L’assenza di risposte – sia personali che collettive- soddisfacenti o conclusive, genera solamente dubbio e frustrazione. Questo è un primo motivo di non felicità dell’animo. Inoltre i pensieri sono il nostro unico possedimento sicuro; ma non possiamo permetterci di decifrare i pensieri di un altro. L’abilità di mentire, di nascondere e di mettere in atto finzioni è caratteristica dell’uomo. Solamente le dinamiche della paura o dell’odio sono difficili da falsare. La perfetta trasparenza del pensiero sembra appartenere solo al mondo animale. La consapevolezza della potenziale “non veridicità del pensiero”, della mancanza di una possibile verifica della sincerità o falsità del pensiero soggettivo ma anche del pensiero pubblico, è un ulteriore motivo di tristezza d’animo. Per questo motivo di fronte ad una annunciata asserzione di “verità”, persino ad una verità scientifica, storica, dottrinale o filosofica, l’uomo tende ad essere scettico ed a relativizzare tutto . Solamente il simbolismo oltre alla matematica pura, può essere affrontata senza scetticismo; questo avvalora l’importanza del nostro Ordine, basato fondamentalmente su “verità simboliche”. Un’altra fonte di tristezza dell’animo umano è rappresentata dalla consapevolezza che non esiste una correlazione sicura tra pensiero ed atto. Siamo consci delle nostre costanti “disillusioni”, delle nostre speranze tradite, del fallimento tra ciò che avevamo concepito, con il pensiero, e ciò che abbiamo realizzato; tra l’immagine fantasticata e la realtà .
Giacomo Leopardi (9) aveva ben capito che lo stato di felicità non fa parte dell’uomo. Sapeva benissimo che proprio nell’attività del pensiero e nella conoscenza, caratteristica della nostra specie, andava individuata l’infelicità di ogni esistenza umana. Meglio ridursi a “zoè”- cioè ad un animale che rimanere” bìos” ( essere pensante) . Ecco che l’Autore per raggiungere la felicità sogna nel “Canto notturno di un pastore errante dell’Asia” (come riportato sopra), di diventare un uccello, che non può conoscere nulla, indifferente al suo stesso esistere.
Credo che sia necessario adesso focalizzare il significato di “felicità per un uomo massone” .
Io non credo che un Libero Muratore, possa raggiungere uno stato di felicità ( personale – duratura).
L’uomo massone è un “essere pensante e libero”, “ansioso di conoscenza”, rivolto alla ricerca della “verità”, alla individuazione dell’ essenza più intima del “senso” di vivere e di morire.
La sua riflessione è rivolta fondamentalmente all’ “essererci” .
La nostra Scuola di pensiero (Ordine Iniziatico) , essendo al tempo stesso razionale e spirituale, basata sul riconoscimento di una Potenza Superiore, ci esorta a lottare e a proteggere noi stessi ed il prossimo dal “male”; ci educa a riconoscere i principi morali e ad applicarli coerentemente nella vita pratica; ci incoraggia a passare da “uomini in potenza” a “uomini in atto” (10). Credo che le peculiari caratteristiche dell’ “essere” uomo massone, di cui ho tracciato il profilo in questa tavola, siano sufficienti, se confrontate con le considerazioni fatte sopra, per rilevare che Egli non può avere uno stato d’animo felice, ma addirittura “inquieto”.
Al contrario, penso che sia possibile una correlazione tra felicità o meglio “serenità” e “saggezza iniziatica”; acquisita lentamente con il passare degli anni, nel silenzio del tempio. Saggezza intesa come “saggezza pratica”, buon senso, virtù dell’azione; una saggezza che aiuta a trovare i mezzi per raggiungere un fine. Una sorta di “calcolo pratico”. Saggio è colui che è capace di affrontare le situazioni della vita secondo il criterio della “ragione”, con equilibrio e prudenza; colui che riesce a sopportare con forza e dignità, per esempio l’assoluta imprevedibilità del destino. Memorabile è l’immagine della metafora socratica del saggio, il quale viene paragonato ad uno scoglio battuto dai flutti del mare in tempesta, che lo flagellano da ogni parte senza riuscire a smuoverlo ed a logorarlo; come memorabili sono le parole della poesia di R.Kipling «.. sei saggio se incontrando trionfi o rovina, riesci a trattarli nello stesso modo » o le parole di Alberto Bevilacqua, nel suo libro “Lettera alla madre sulla felicità”, « ….E’ stata lei ad insegnarmi come la felicità si possa conoscere e vivere anche quando il mondo ti ringhia addosso».
Mi piace chiudere questo lavoro con una citazione ripresa dai “ Fratelli Karamazov” di Fedor Dostoevskij (1880) (11), che mi sembra riassumere il pensiero espresso nella tavola « …Allora noi gli daremo una quieta, umile felicità, una felicità da esseri deboli, quali costituzionalmente essi sono….dimostreremo loro che son deboli, che non sono altro che dei poveri bambini, ma che in compenso la felicità bambinesca, è la più soave di tutte…Solo noi , noi che dovremo custodire il segreto, noi e nessun altro saremo infelici….».
* Scrittura notturna : Ernesto Sàbato, scrittore argentino, scrive che la letteratura è un continuo viaggio fra la scrittura diurna, in cui un autore si batte per i propri valori e i propri dei ed una notturna, in cui uno scrittore ascolta e ripete ciò che dicono i suoi demoni, i sosia che abitano nel fondo del suo cuore, anche quando dicono cose che smentiscono i suoi valori.
TAVOLA SCOLPITA DAL FR.’. C. S.