Ascese iniziatiche
Maestro Venerabile, Fratelli tutti,
Volevo introdurre un tema la cui ispirazione mi è venuta dopo la serata zoom, nella quale il Fratello M. L. ha enunciato il Suo lavoro sul mito di Eracle al quale sono seguiti i preziosi interventi dei Fratelli M. V. e C. S. che ringrazio per la consueta passione, profondità e ricchezza. Quest’ultimo, in particolare, nella Sua enunciazione, ha citato una figura metaforica che, spesso, ho udito dalle Sue letture o dai Suoi interventi: la nostra peculiarità di essere umani, in primis e di noi Massoni, del “tendere al Divino”. Questo concetto, unitamente alla serata dedicata alla figura mitologica di Eracle, mi ha ispirato un ricordo ben preciso. Eracle e quindi Zeus.
Otto anni fa, durante una vacanza settembrina alle Isole Cicladi, in particolare sull’isola di Naxos, siamo saliti sul monte Zas, la più alta cima dell’arcipelago, all’interno della quale, secondo la mitologia, la madre Rea, vi avrebbe nascosto uno Zeus fanciullo, per strapparlo al destino voluto dal padre Chrono, che divorava i suoi figli, per timore di essere da loro spodestato. Dal paese di Filoti, incamminatici lungo un sentiero segnalato, ci siamo immersi, o meglio dire elevati, all’interno di un paesaggio, molto somigliante al contesto Elbano. In quel momento vedevo quella salita come l’ascesa al nostro Monte Capanne, con cui il Monte Zas, condivide anche l’altitudine, poco superiore ai mille metri. In un paesaggio tipicamente mediterraneo, di arbusti, spinose piante endemiche, rocce degne degli zoccoli delle capre di montagna che vi brucavano in greggi abbondanti, mi immersi in quell’esperienza inebriante, seppur faticosa. Forse fu proprio la fatica a renderla tale. In quel momento non era tanto l’aspetto mitologico, che dava soltanto un tocco pittoresco all’evento, quanto la salita in sé, come percorso, come cammino, fino a giungere alla vetta che mi offrì una suggestiva visione a perdita d’occhio dell’arcipelago Cicladico. Questo ricordo ha fatto da innesco ad altre ancora precedenti memorie, recenti e più datate. Ed il pensiero è corso a questo ultimo settembre quando, dalla valle di Anterselva, sono salito al rifugio Vedrette di Ries, a poco meno di 3000 metri, per poi raggiungere la Croda Nera. In questo caso il contesto fu profondamente diverso: paesaggio di alta montagna, boschi di larici e abeti, rocce granitiche – già quelle non sono più Dolomiti – ed una notevole escursione; mi ritengo un buon camminatore, ma fu comunque un’ascesa che mi mise a dura prova e che ha reso il raggiungimento della cima ancora più inebriante: il panorama a 360 gradi, spaziava da tutti i principali gruppo dolomitici a sud, fino alla cima del Grossglockner, in piena Austria, aiutato anche da una giornata tersa e luminosa. Riavvolgo ancora per tornare all’anno precedente per la salita al Piz Boè dal passo Pordoi, per un’altra ascesa impegnativa, dopo averla fallita l’anno precedente per il maltempo. Lì invece, al centro delle Dolomiti più canoniche, ero immerso nella nebbia ed in una grandinata che mi dette appena il tempo di entrare nel rifugio. La Montagna non si conquista, qualsiasi sia. La Montagna ti ospita, ti permette di approcciarla. In passato, quando abitavo a Prato, mi sono cimentato anche nella vera e propria arrampicata, frequentando il Cai locale, e quindi scalando pareti sulle Apuane, oppure falesie di roccia attrezzate, raggiunte le quali mi sono sentito, nel mio piccolo, investito da un’incontenibile gioia ed energia. Perché c’è una differenza tra raggiungere una cima con un impianto di risalita oppure raggiungerla con un sentiero. E non mi riferisco solo alla fatica.
Ma sono state queste le prime occasioni in cui mi sono cimentato nella salita in senso più generale, che sia stato il percorso di un sentiero più o meno impegnativo o di una parete di roccia verticale? O da prima ancora? In realtà molto tempo indietro, sempre in solitaria, in piena tempesta emotiva postadolescenziale, ricordo che salii sulla vetta del Monte Morello, che domina la piana tra Sesto Fiorentino e Firenze, lungo un comodo sentiero. Oppure da sempre attratto dall’immagine della Retaia, il monte, colle, anzi, alto poco meno di ottocento metri, che domina invece la piana di Prato, riuscii a salirne i ripidi pendii. Niente di trascendentale ma arrivai in cima alla montagna che dominava la mia città, in un paesaggio profondamente diverso da altri: una distesa di erbe e piante di ginestra, rocce carsiche affioranti, e la vista che spaziava dal Mugello, alla piana tra Prato Firenze e Pistoia, fino alla vera e propria dorsale Appenninica. Ricordo che fu un traguardo emozionante. Raggiunsi la cima di quel monte che, fin dall’infanzia, osservavo dal basso, nella sua forma conica, se visto da Prato o di un lungo e piatto crinale se visto da Pistoia o Firenze. Era la mia montagna, forse è stato il mio primo percorso iniziatico. Con i dovuti distinguo, mi sentivo un novello Rousseau che, nelle “Fantasticherie del passeggiatore solitario”, sua opera postuma ed incompiuta, guardava al Monte Bianco che spaventava Ginevra con la sua mole di leggende terrificanti. E adesso, avendo citato Rousseau, faccio un passo indietro, ai suoi tempi. Si, perché, allora, la montagna non era una meta turistica. Non c’era ragione utile di salire su una cima. Solamente pericoli per nessun “vantaggio”. La civiltà rurale dell’epoca prerivoluzionaria industriale, limitava “l’utilizzo” della montagna ai suoi soli piedi, dove i pastori si stabilivano per portare le mandrie agli alpeggi di alta quota, ma nulla più. Le montagne erano luoghi spaventosi, teatri di leggende terrificanti, ricoveri di tagliagole o mostri mitologici. Ma Rousseau, che era un principe dell’illuminismo, ne subì la fascinazione: vi leggeva un divino. Rousseau, anche se non sappiamo con certezza, a differenza di Voltaire, se sia stato anche un Fratello, regolarmente iniziato all’interno di una precisa Loggia, pur in presenza di numerosi documenti che lo farebbero supporre (cfr Sito Goi), in una simbiosi innegabile, ha contribuito alla diffusione di idee fondanti della nostra Istituzione e viceversa. Mi piace pensare che sia stato un pilastro di entrambe. Da lì a poco, Balmat e Paccard, un cercatore di cristalli ed un medico, spinti da De Sasseaure, uno scienziato Ginevrino, nel 1783, per motivi scientifici, compirono la prima ascensione al Monte Bianco. Quel giorno nacque l’alpinismo moderno, in un parallelismo tra la diffusione delle idee dell’illuminismo, ed il radicamento delle idee della nostra Istituzione, tutte accomunati dal cammino, dalla salita, dalla fatica, dagli ostacoli, e anche le rinunce, gli ulteriori tentativi, l’ascesa, infine, la meta, la scoperta, l’ascesi: Il percorso iniziatico. Ma questi nomi che vi ho citato, Rousseau compreso, sono stati preceduti molti secoli prima da un altro illustre nume della storia dell’Uomo: Petrarca, nell’”Ascesa al Monte Ventoso” raccontava di questa escursione in cima alla montagna vicina ad Avignone, dove si trovava per un incarico papale, escursione che lo avvicinava a Dio. Petrarca il primo alpinista della storia? Adesso la montagna, è protagonista del recupero di una tradizione rurale dimenticata a causa dell’urbanizzazione selvaggia e della discesa verso le città nell’immediato dopoguerra, da parte di intere popolazioni spinte dalle condizioni di vita proibitive e dal miraggio di una più facile esistenza.
E poi c’è tutta quella parte di narrazione che identifica la montagna come luogo di grandi imprese sportive. L’alpinismo professionistico, ha reso celebri luoghi e nomi, una volta riservati a una élite di pochi “addetti ai lavori”.
L’arrampicata sportiva e l’alpinismo estremo fanno parte di un mondo che fa del raggiungimento di un limite precedentemente inviolato, il punto nodale. Imprese eroiche, leggendarie, si sono succedute nel corso dei decenni, a partire dalla metà dell’ottocento quando le Alpi divennero meta dei più arditi alpinisti inglesi: con annessa tragedia in discesa – morirono 4 dei 7 componenti della cordata, Whimper fu il primo a scalare il Cervino, almeno per la sua via normale, considerata allora una vetta inviolabile. Solo negli anni ’30 del novecento fu conquistata la parete nord dell’Eiger, in Svizzera, considerata allora la più pericolosa e più difficile montagna e del mondo. Nel frattempo però, l’uomo aveva deciso di innalzare i propri limiti verso ciò che sembrava inconcepibile, e cominciarono le prime escursioni alla conquista degli 8000 Himalayani. Mallory, e Irvine negli anni ’20 del ‘900, fallirono o forse riuscirono – non ci sono prove: non fu mai trovata la loro macchina fotografica; scomparvero nella bufera poco sopra il loro ultimo campo a circa 8500 metri – a raggiungere la vetta dell’Everest. Solamente negli anni ’50 Sir Edmund Hillary, riuscì a portare il limite umano all’estremo, raggiungendo la vetta più alta della terra. Queste imprese, erano compiute da uomini che nutrivano un sacro rispetto per la montagna, una sana ambizione, un’aspirazione a superare i limiti e la consapevolezza che tutto ciò che avrebbero raggiunto sarebbe stato permesso loro, perché la montagna glielo aveva concesso. Quasi un inchino, mai una sfida. Una reverenza, non un affronto. Un percorso verso un livello superiore.
A Leggenda e Mito, si unì però anche un lato oscuro che perse di vista lo spirito con il quale si raggiungevano quelle vette. Gli anni dell’illuminismo erano lontani, la nostra Istituzione si era radicata nel mondo, ma l’alpinismo, durante la corsa alla conquista degli 8000, allontanandosi dai valori a noi così cari che invece lo avevano reso nobile, divenne un affare di Stato. Ancora sono vive – perché solamente nei primi anni 2000 sono stati riconosciuti i meriti di Walter Bonatti – le polemiche legate alla conquista del K2 nel 1954; la “montagna degli Italiani”. In quegli anni ogni nazione europea aveva scelto una propria montagna da conquistare per utilizzarla come retorica nazionalpopolare; e allora se l’Everest era la montagna degli Inglesi, il K2 quella degli Italiani, l’Annapurna, il primo Ottomila raggiunto, era quella dei Francesi, od il Nanga Parbat quella dei Tedeschi. In realtà, la montagna era di tutti, ma la retorica nazionalista, già negli anni trenta, trasformava gli ottomila Himalayani in veicoli di propaganda. E allora, raggiungere una di quelle vette non fu più solamente un percorso intimo, ascetico, e iniziatico. Non era più il raggiungimento di un obiettivo che, in una presunzione tipicamente umana, ci avvicinava al Divino. Qui siamo ben lontani dagli insegnamenti di Cicerone citati dal fratello Claudio che invitavano l’uomo a camminare all’interno di un equilibrio ed evitare gli eccessi cercando di non superare i propri limiti, sfidando le Colonne di Ercole.
Tutto questo invece rappresentava esattamente il contrario e, in quegli anni, la retorica ed il mercimonio, avevano sconvolto quello che tuttavia non era ancora neppure paragonabile a ciò che sarebbe successo dopo con le spedizioni commerciali: a partire dagli anni novanta, pagando decine di migliaia di dollari ci si affida a degli esperti per poter dire di essere saliti in cima a un 8000.
Ci sono tante pagine oscure, che offendono la memoria di grandi precedenti imprese, quando per raggiungere una vetta si è rifiutato l’aiuto a qualcuno che stava morendo: la vicenda della tragedia del 1997 sull’Everest che ha ispirato il bellissimo “Aria Sottile”. Ma senza raggiungere tali drammi, si sono consumate polemiche anche su risultati millantati ma non provati e poi in indagini successive, sconfessati: Cesare Maestri, da poco deceduto, negli anni sessanta, ha vantato l’ascesa al Cerro Torre in Patagonia ma non ha mostrato prove inappuntabili di esserci riuscito. E anche pagine in cui la giustizia ha poi trionfato: già citata la vicenda Bonatti, pensiamo a Messner che per trentacinque anni ha lottato contro l’accusa di aver abbandonato il fratello Gunther lungo l’ascesa al Nanga Parbat, salvo poi venir riabilitato, solo nel 2005, quando venne ritrovata la salma dove lui l’aveva cercato a lungo, inutilmente, riuscendo a dimostrare che il fratello morì lungo la discesa, già raggiunta la cima da entrambi. In quel feroce accanimento della stampa di allora, qualcuno si è domandato in quali abissi della mente, sia sprofondato lo scalatore Altoatesino, quando ha deciso di scegliere la vita, abbandonando il fratello ormai disperso dopo averlo cercato per un giorno e per una notte, e quale attaccamento alla sopravvivenza lo ha tenuto in vita mentre è sceso giù a valle più morto che vivo? Solamente – solamente si fa per dire – l’istinto di conservazione o la consapevolezza di dover ancora recitare un ruolo in questo mondo, all’interno del proprio cammino iniziatico? Non ha mai detto di odiare quella cima, anzi vi è tornato, perché conosce bene il rapporto tra un’alpinista e la montagna. La stessa, il Nanga Parbat, tornato alla ribalta della cronaca per la morte di Daniele Nardi, nel 2019. Oppure, sempre in tema di attaccamento alla vita, il bivacco notturno a 8500 metri di Bonatti sul K2 ma anche quello di Confortola nel 2008 che ha continuato poi, nonostante amputazioni anche serie, a scalare.
Ed oltre ai nomi già citati, il mito è legato ad altri importanti personaggi che hanno fatto dell’ascesa una nobile disciplina: citando alcuni Italiani: da Quintino Sella, Emilio Comici, Cassin, Carlo Mauri, Kammerlander, Agostino Da Polenza. E fra i tanti più attuali, Simone Moro, Silvio Mondinelli o la Nives Meroi, Non dimentichiamo gli stranieri, a cavallo tra i due secoli, solo per citarne alcuni: Innerkhofer, Herman Buhl, Herzogh, Grohmann. Quest’ultimo, che passò alla storia per la prima ascesa alla Cima Grande di Lavaredo, tramite l’alpinismo, a metà dell’ottocento, intendeva portare l’attenzione sulle montagne e sui popoli che la abitavano in un primoesperimento embrionale di business turistico che migliorasse la qualità della vita di quelle genti. Era stato un visionario, profeta. Infatti, oltre alla dimensione ascetica intima e individuale della disciplina, c’è tutto un movimento rivolto al miglioramento delle condizioni di vita dei popoli della montagna. La conservazione della memoria di chi ha combattuto, durante la grande guerra, sulleaspre vette alpine, e quindi musei, sentieri della memoria. Più di recente, quasi in un ringraziamento per il ruolo imprescindibile dei portatori Sherpa Nepalesi e Pakistani, alle loro popolazioni e famiglie, le organizzazioni alpinistiche, guidate da scalatori professionisti, hanno
rivolto la loro attenzione, impiantando scuole, ospedali di alta quota. Dove sono posizionati gli Eremi? A fondo valle? No, in cima a rupi o picchi difficilmente accessibili. Dov’è il santuario dell’Averna? O dove si trovava l’abbazia di Monte Cassino, solo per citarne due? Cosa accade alla nostra mente ed al nostro corpo, quando ci produciamo in un’ascesa? Solo una nostra sensazione? Una metafora? O veramente qualcosa di organico accade in noi? Non facciamo forse un viaggio verso il Divino non solo metaforicamente avvicinandoci al cielo, ma compiendo un vero e proprio percorso iniziatico, mediante un cammino impegnativo, faticoso che ci eleva ad un livello superiore? Qualsiasi religione, qualsiasi mito hanno guardato verso l’alto per soddisfare le varie divinità. Non era forse il Monte Olimpo la montagna degli Dei, visto che siamo partiti dalla cultura classica? Durante il nostro viaggio all’interno di gabinetto di riflessione, sotto l’acronimo V.I.T.R.I.O.L. non facciamo forse un viaggio, nel quale scendiamo, per raggiungere i nostri oscuri abissi, per trovare la linfa, nelle viscere della madre Terra dalla quale rinasciamo, ed in un percorso inverso, riemergendo ed elevandoci, dopo essere stati purificati con l’Acqua e con l’Aria e infine con il Fuoco? L’ascesa lungo un sentiero di montagna, o un’arrampicata appesi ad una parete di roccia, non è forse un viaggio di purificazione che ci eleva ad un livello superiore? A quali risorse si affida un alpinista quando si accinge a compiere un’impresa ardita, ben al di sopra dei nostri comuni limiti e quotidiani binari? A quale equilibrio interiore ha attinto Walter Bonatti quando nel ’65 esattamente un secolo dopo, quasi un omaggio, alla prima scalata del già citato Whimper, si è cimentato nella prima ascesa solitaria invernale all’emblematica, e considerata inviolabile, parete nord del Cervino? Di quali strumenti personali si è avvalso Messner quando ha compiuto le solitarie senza ossigeno sugli 8000, al di là dell’impresa sportiva, già di per sé di valore assoluto? Non sono a conoscenza che parte dei nomi che primo ho citato, abbiano fatto parte o facciamo parte della nostra Istituzione. Non ne ho idea, ma qui poco importa. Quello che conta, e che reputo degno di nota e di attenzione è l’aspetto iniziatico e simbolico che ci coinvolge ogni qualvolta ci dedichiamo a raggiungere a piedi una vetta, che sia il colle che si eleva sopra la città, o che sia un 8000. Il tutto, in proporzione alle proprie capacità fisiche, ma accomunati dallo sforzo di cercare di ergersi ad un livello superiore, tendente al Divino, all’interno di un viaggio che non sia solo fisico ma anche interiore, come quello compiuto durante il rito della nostra Iniziazione. Cosa sono la fatica, il dubbio, la stanchezza, gli imprevisti, anche i fallimenti, se non gli ostacoli che si pongono di fronte a noi quando, ancora privi della Luce, guidati dal Maestro Esperto, effettuiamo i nostri viaggi, prima di venir “compiuti come Liberi Muratori” dalla spada fiammeggiante del Maestro Venerabile? Non è forse anche quella un’ascesa al Divino che, dall’essere “profani”, “in prossimità del Fano”, il recinto sacro, ci trasformiamo infine attraverso una rinascita, in degli iniziati? In quel momento siamo sulla cima del nostro monte, osservando il mondo profano al di sotto di noi, ben lontani da una logica di superiorità o supremazia, quanto piuttosto, investiti di una responsabilità, e da sempre più numerose domande. Ma, lassù in alto, quando abbiamo guardato sotto di noi, per vedere il nostro percorso, la nostra strada, la nostra crescita, un po’ più vicini alla nostra Divinità, ci voltiamo verso l’alto e – utilizzando una fgura metaforica, suggeritami da un Fratello molto più esperto di me, che mi ha aiutato in questo lavoro – ci voltiamo verso l’alto, verso l’Universo, verso L’Essenza.
TAVOLA SCOLPITA DAL FR.’. A. F.