ESSERE APPRENDISTA LIBERO MURATORE …

ESSERE APPRENDISTA LIBERO MURATORE … NEL TERZO MILLENNIO

Il termine Apprendista

Il termine “apprendista” lo è – ancora oggi– utilizzato: seppur moderatamente. Il suo spazio linguistico più appropriato è quello – per altro, storico – delle “arti e dei mestieri”, dove designava e, teoricamente, designa tuttora un giovane (per lo più) che si accingeva e si accinge a apprendere determinate e precise competenze e capacità professionali. Questo, per altro, è il suo significato etimologico che fa derivare “apprendista” dalla voce verbale “apprendere”, che si rifà al latino “aprendere” che vuol dire “prendere”, “afferrare”, “impossessarsi”: sia fisicamente che mentalmente. L’apprendista è, quindi, colui che fa proprio –s’impossessa – qualcosa che gli è utile e/o indispensabile per poter migliorare le proprie conoscenze, in relazione a un progetto: per lo più lavorativo, ma non solo. In questo senso, l’apprendere specifico dell’apprendista implica una qualificazione che viene ottenuta tramite una azione che lo porta a conoscere e, quindi, a possedere competenze. Ma questo conoscere – in qualunque modo venga interpretato – non è mai una conoscenza puramente astratta, formale. È sempre una conoscenza che possiede un lato concreto: un aspetto operativo, anche se il suo apprendere è figurato. Anche se il suo apprendere non è rivolto ad un oggetto concreto (a una professione come quella del fabbro, del falegname o del muratore, ad esempio), ma a qualcosa che ha a che vedere con una dimensione diversa: ontologica e spirituale. Si fa dell’apprendistato anche in un campo prettamente spirituale e, sovente, il campo operativo e quello spirituale sono, strettamente, correlati. Così, l’apprendista che nei tempi antichi– e sino al Medioevo, ma non solo –si accingeva a apprendere i dettami di una professione (di una arte, come allora si chiamava), aveva l’esatta percezione di fare qualcosa che gli schiudeva le porte di un atto creativo che, in qualche modo, lo rendeva partecipe dell’analogo atto creativo compiuto da Dio nel dar vita al mondo. D’altronde, l’atto umano del creare qualcosa è, da sempre, considerato una imitatio Dei e la costruzione – di una città, di una casa, di un tempio o di un manufatto – è stato, simbolicamente, vissuto come la riproduzione terrena di qualcosa già fatto dal Dio o , comunque, in mente Dei. A questo atto ci si deve, dunque, accostare con timore reverenziale, perché, in tale atto, è racchiuso il significato ultimo dell’essere dell’uomo e la risposta ai problemi che lo tormentano. Infatti, il creare, il costruire e l’edificare rimandano, costantemente, a un disegno razionale e armonico che informa di sé tutto il creato e che si esprime nel volere divino: da sempre esistente, operante e creativo. Tale disegno implica un ordine e questo, a sua volta, dà significato al vivere, indirizzandolo e contestualizzandolo in qualcosa di imperituro, di non presente, anche se operante in temporalibus. Ne è derivata una potente valenza sacrale dell’atto creativo che infonde in ogni opera umana l’impronta mitica di un grandioso disegno che appaga chi a esso si conforma e di cui è l’agente attivo. Questo appagamento, ovviamente, non è fine a se stesso, ma implica l’assunzione di un ruolo attivo che dà luogo ad un mutamento di status: a una trasformazione radicale che si estende a macchia d’olio, sino coinvolgere l’intera realtà. Non a caso, Mircea Eliade ricorda che i grandi eroicivilizzatori e gli antenati mitici, molto spesso, sono costruttori e iniziatori di nuove competenze operative. Competenze che comportano un vero e proprio “salto ontologico” per i loro artefici e per l’umanità. Va da sé che questo “salto ontologico” avviene sotto l’insegna del Sacro, in quanto rende palese all’uomo qualcosa che, prima, gli era celato e che produce una nuova e più profonda conoscenza di sé e di ciò che lo circonda. Per questo, l’azione dell’apprendista, in qualunque modo avvenga, è sempre una impresa che lo avvicina al Sacro: che lo rende partecipe del Sacro. Ma il Sacro, a sua volta – come notava Otto – è un mysterium tremendum et fascinans, a cui ci si deve accostare con le dovute, necessarie, precauzioni e sotto la guida di qualcuno – più esperto – che faccia da guida: che, insomma, sia un Maestro come, per altro, avviene anche nell’apprendimento pratico di qualsiasi arte o mestiere. Infatti, il rischio di sbagliare è elevatissimo e, non sempre, è possibile rimediare agli errori in cui si può incorrere. Il che è valido oggi e altrettanto lo era in passato, quando i sistemi di controllo e le strumentazioni non erano sofisticate e quando bastava una banale distrazione per vanificare o inficiare una costruzione, una incisione o un qualsiasi manufatto. L’Apprendista e il sacro Tuttavia, il rischio è ancora più grave quando in gioco non è più soltanto l’esecuzione, ancorché difficile, di qualcosa di concreto e tangibile, ma quando cisi addentra nella vita dello spirito, dove il Sacro è sicuramente percepibile attraverso sentieri e meandri non facilmente percorribili. E dove è facile perdersi, senza poter più trovare la strada. E di questo l’apprendista deve tenerne debito conto, visto che con la dimensione del Sacro dovrà, obbligatoriamente, incontrarsi e/o scontrarsi. Ma, proprio per questo, è opportuno cercare di comprendere bene che cosa s’intende per Sacro, su cui massima è la confusione e l’ambiguità.. Innanzitutto, il Sacro non può essere ridotto – e neppure può, costitutivamente, esserlo – a una qualsiasi ideologia: ossia a un complesso di credenze, opinioni, rappresentazioni o sistemi di valore atti a influenzare o a governare una persona, una comunità o una società. Ciò ne farebbe una sorta di inganno, funzionale a un progetto, a una parte politica, a una lobby e non già paradigma esistenziale totalmente al di sopra delle parti. Questo fa sì che possiamo ritenere la dimensione del Sacro come l’espressione di un principio metafisico e trascendente che non ha lo scopo di accreditarsi– pur rivendicando una sua palpabile concretezza –come un volano di persuasione, di potere e di dominio, bensì come il riferimento per raggiungere una saggezza interiore e un alto ed illuminato modo di esistere: tanto individuale che collettivo. A questo proposito e in seconda battuta, è necessario introdurre una ulteriore specificazione. È quella tra il Sacro e il numinoso (dal latino numen che esprime la presenza, a un tempo, terrifica e fascinosa, di una potenza non visibile) che, spesso, vengono, tra loro, confusi o sovrapposti. Il Sacro non è il numinoso. Il numinoso rimanda alla presenza di un numen: di una forza o di forze inconsce – presenti nell’uomo – che gli hanno permesso di sperimentare quella che è stata definita la “partecipazione mistica” al tutto. Ossia, quella condizione ancestrale dove tutto è parte del tutto e dove l’uomo può scambiare se stesso con il mondo circostante. E viceversa. Il Sacro, invece, non è una “inflazione” psichica: una sorta di possessione dell’inconscio provocata dal numen. E neppure è riducibile all’ambito, angusto, di un lessico antropologico, teologico o, genericamente, religioso: come tanti studiosi contemporanei vorrebbero. Il Sacro è altro. Lo si può ritenere come l’unione armonica di inconscio e di conscio, di contingente e trascendente: una unione armonica di cui l’uomo non può fare a meno, se aspira alla completezza. Il Sacro, insomma, è quella complexio oppositorum in cui la forza della ragione si unisce con quella dell’intuizione, il cielo con la terra, il macrocosmo con il microcosmo, il positivo con il negativo: come insegnava nell’antichità la Tabula Smaragdina e, in tempi più recenti, Pascal quando, nei suoi Pensieri, indicava la specularità costitutiva tra l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo. E come, da tempo immemorabile, hanno insegnato i mistici, gli illuminati e i culturi del percorso esoterico: non certo ultimi i Liberi Muratori.. L’incontro con il Sacro, segna per l’apprendista la necessità di imparare a apprendere e praticare in sé e su di sé la ricerca della totalità e l’armonia universale. Tale apprendimento – operativo e trasformativo – coincide con una vera e propria “rivoluzione copernicana” che l’apprendista deve porre in essere per avvicinarsi, il più possibile, a essere l’icona vivente di un uomo totale. L’uomo che, nella immagine del mandala – il grande psicosmogramma della totalità e dell’armonia –siede al centro e muove la ruota del mondo, facendo del mondo il luogo della pace e della divina armonia. Con questa “rivoluzione copernicana”, l’apprendista concorre, come artifex, alla costruzione dell’uomo universale, dell’uomo sacer: l’uomo cui è affidato il compito di “lavorare per il bene e il progresso dell’umanità”, come recita il Rituale Muratorio. Ma concorre, altresì, a sacralizzare (o a risacralizzare) il mondo, facendolo migliore. In questo modo e grazie al Sacro, l’apprendista realizza lo scopo di cambiare l’uomo nel mondo e il mondo nell’uomo, azzerando le ingiustizie, le diversità, i soprusi, gli integralismi e le intolleranze. Ciò posto, non è facile, per l’apprendista –come per chiunque altro – avvicinarsi al Sacro, senza cadere nelle remore e nelle perplessità causate dalla Storia che, troppe volte, ha utilizzato il Sacro come giustificativo di fatti e avvenimenti che con esso nulla avevano a che fare. Ma è anche facile soggiacere alla diffidenza verso il Sacro. Diffidenza indotta dall’uso che la società moderna sempre più “liquida”, globalizzata e massificata ne ha fatto, rendendolo un “prodotto di largo consumo” e un mezzo di conformismo e di asservimento sociale. Tutto ciò banalizza il Sacro e lo rende un meccanismo produttore di consenso, di adesione o di denaro. Il Sacro, semmai, è simile a quella perla di cui parla un antico inno gnostico: una perla sepolta nel fondo di uno stagno fangoso e custodito da un serpente, ma non per questo irraggiungibile: se lo si vuole fermamente. Naturalmente, per impossessarsi della perla perduta, l’apprendista deve usufruire – unitamente a una saggia guida magistrale – di una adeguata strumentazione, per poter farsi strada sulla via del Sacro comprendendone la portata, senza perdersi o imboccare percorsi senza sbocco, sentieri interrotto o, ancora peggio, vere e proprie autostrade verso l’abisso. La strumentazione appropriata è, senza dubbio, quella simbolica in quanto è la sola che consente di addentrarsi nei territori del Sacro, avendo un rassicurante “filo di Arianna” cui fare riferimento. L’Apprendista e il simbolo La prima cosa di cui l’apprendista deve occuparsi e che deve far proprio è, fuori di dubbio, il simbolo: parola che deriva dal greco synballo, che significa “metto insieme”. È, infatti, tramite il simbolo che potrà adire al Sacro: e non altrimenti. Ovviamente, per poter fare questo deve comprenderne, appieno, il significato e la sua assoluta importanza, avendo sempre presente ciò che ricordava un grande philosophus naturalis, mago, scienziato e iniziato come Gerolamo Cardano che, in pieno Rinascimento, scriveva: «Vita humana symbolica est, qui hoc non intendit non est homo». Ma anche sul simbolo gravano la medesima confusione e ambiguità che si è già riscontrato per il Sacro e che occorrerà dissipare: affinché l’apprendista non prenda cantonate. Non farlo equivarrebbe a sottrargli la possibilità di procedere, con tranquilla perseveranza, nel suo percorso. A tal proposito, bisogna, subito, sottolineare che il concetto di “simbolo” è assai articolato e, di conseguenza, di non semplice comprensione. Il che può generare incertezze sul suo significato e – cosa ben più grave – sul suo utilizzo. Così, un simbolo può essere utilizzato come un segno e viceversa, anche se non sono, per nulla e in nulla, sovrapponibili. Farlo implica un grave errore interpretativo che può mettere in forse il raggiungimento dello scopo finale. Il simbolo, insomma, non è un segno e non ne ha lo stesso valore. Bisogna, però, chiarirlo con grande precisione onde non confondere l’apprendista che del simbolo deve servirsi con profonda consapevolezza. Così, ad esempio, un segnale stradale non è un simbolo: è un segno. Il suo carattere precipuo è la descrittività e la convenzionalità, in quanto riproduce, visivamente, una norma che deve essere seguita in quanto rispondente a un quadro stabilito per legge (nello specifico, il Codice della strada). Un simbolo, invece, non è mai descrittivo e tanto meno convenzionale. Un esempio, comunissimo, è dato da un semplice anello. È evidenti a tutti – ne abbiamo la percezione inconscia – che sia qualcosa di potente ed importante perché il suo possesso, quasi sempre, implica un rapporto, strettissimo, tra il donatore e la persona a cui viene donato. Nell’anello – indipendentemente dall’intrinseco – centrale è la sua forma circolare: forma che rimanda alla perfezione assoluta ma, pure, all’amore, al potere, alla bellezza. Donarlo o riceverlo è la manifestazione evidente di un sentimento di amore, di devozione, di impegno, di rispetto, di signoria o di sudditanza. In sintesi, l’anello che portiamo al dito o doniamo esprime una dimensione di totalità che va oltre gli aspetti materiali, contingenti e/o psicologici che in esso sono di certo presenti. Di questo abbiamo una chiara percezione, allorché vengono meno i motivi per i quali quell’anello è giunto sino a noi: è questa una esperienza comune a quasi tutti i viventi. In tal caso, abbiamo la sensazione, immediata, che quell’anello sia diventato pesante e ingombrante – come quello di Frodo ne Il Signore degli Anelli –sino ad avere la percezione che è qualcosa di estraneo e, perciò, non più portabile. Se ne può, allora, dedurre che, nell’anello, è presente una componente che ne trascende il significato monetario o anche semplicemente emotivo. È un misterioso valore aggiunto che lo rende qualcosa di assolutamente importante e di significativo: come insegnano tutte le tradizioni simboliche, secondo cui l’anello esprime un potere e/o una forza di cui è l’immagine simbolica. Un altro esempio di simbolo è quello offerto dalla rosa. Quando si regala una rosa rossa è evidente che non si regala un semplice prodotto della natura. Si regala una tensione dell’animo che si esprime attraverso la rosa, il cui contenuto materiale porta dentro di sé una serie di valori aggiunti che trascendono il contenuto materiale stesso. La rosa infatti, da tempo immemorabile, è simbolo di totalità: rappresenta, per la sua conformazione, la caverna dove si trovano le acque primordiali: fonte di trasformazione e di rinascita. Ma è anche il simbolo del femminile divino, fonte di vita, di pienezza e di amore: come insegna lo stretto apparentamento della rosa con il culto mariano. Per questo, è l’espressione di una dimensione di totalità in cui la persona può ritrovare i suoi valori più. profondi. Donare una rosa, di conseguenza, equivale a regalare un sentimento eterno d’amore, di affetto, di apertura, di rinascita, di trasformazione. Emerge da questi due esempi – tra i tanti possibili – il valore del simbolo che, come sostiene Mircea Eliade, rappresenta, indubbiamente «una modalità autonoma di conoscenza» . È qualcosa di fisico che rimanda al metafisico: in una unione inscindibile che ci permette di percepire qualcosa di più elevato e di assolutamente più profondo rispetto alla presenza materiale dell’oggetto simboleggiato. Mediante il simbolo – in quanto immagine visibile e sensibile che rimanda a qualcosa di invisibile – è possibile accostarsi a una dimensione del mondo che non è immediatamente evidente sul piano dell’esperienza consueta. Questa dimensione del mondo coincide con la sfera del Sacro. Non ci vuole molto a comprendere come entrarvi equivalga alla scoperta di un mondo parallelo di cui sfuggiva l’esistenza. Scoperta che produce una vera e propri nascita (o rinascita) spirituale: una seconda nascita. Come quella che attende l’apprendista che abbia (e lo dimostri a se stesso) il coraggio di vivere questa straordinaria esperienza: questa nuova nascita. L’Apprendista e il sacrificio Come già sottolineato, l’apprendista si avvia su di un cammino arduo e scomodo verso quella misteriosa esperienza rappresentata dall’incontro con il Sacro. Un incontro – si badi bene e onde evitare facili fraintendimenti – che non si manifesta con eventi miracolistici o con esperienze trompe l’oeil, ma con un lento lavoro di scavo nella propria interiorità. Come, d’altronde, vuole l’etimo del termine esoterico (dal greco esoterikos da esoterosche vuol dire interiore) che connota il viaggio dell’apprendista verso il Sacro. Non c’è ombra di dubbio che questa prospettiva implichi uno stacco netto rispetto all’esistenza comunemente agita e che non mostra, certo, sensibilità e interesse per tale meta. Il viaggio verso il Sacro richiede una cesura e una rinuncia radicale a codificate regole di comportamento, a consolidate abitudini, a una diffusa volontà prevaricatrice, all’ascolto delle ipertrofie del proprio Io, a una scala di valori in cui il successo, la potenza, il denaro occupano i primi posti. Tutto ciò –in una società quale è la nostra, improntata all’esteriorità, alla superficialità e al consumismo – assume il carattere di una vera propria rinuncia. Assume il carattere di un sacrificio. L’avvicinamento al Sacro, d’altronde, richiede sempre un sacrificio: come testimoniano l’antropologia, la mitologia e la storia delle religioni. Ma il sacrificio richiesto all’apprendista non si limita al rifiuto dell’effimero-sociale in cui vive. Vuole essere il sacrificio della parte più caduca dell’interiorità di ciascuno. Vuole il sacrificio di quella parte cui siamo particolarmente affezionati e che coincide con quel “nulla” abissale che sembra riempire l’esistenza della modernità. È quel “nulla” abissale che illude procura effimere soddisfazioni ma, poi, genera senso di privazione, ansia, angoscia e depressione. Sono i “mali oscuri” di un Occidente secolarizzato, deluso, privo di certezze e di progettualità e incapace di guardare, simbolicamente, nel proprio cuore per trovarvi quella complexio oppositorum di cui non può fare a meno, ma che gli risulta estranea e lontana. Il sacrificio richiesto all’apprendista coincide con il coraggio di gettarsi in una voragine (apparentemente) senza fondo sperando, poi, di risalire a respirare l’aria delle vette, diventando uomini nuovi. Il sacrificio che l’apprendista è chiamato a sopportare è quello della morte simbolica, senza di cui non può esserci rinascita. Senza di cui non ci sono le condizioni per iniziare il viaggio verso il Sacro. La morte simbolica che l’apprendista deve affrontare e superare è la negazione dell’effimero fuori e dentro il suo animo. Essa è il confronto con le tante ombre che allignano nel suo animo ma che non vengono mai affrontate: per avidità, paura o mancanza di punti di riferimento su cui far leva. Essa è la volontà di lasciarsi prendere, senza opporre resistenza alcuna, dal divenire della vita che trasporta gli uomini – normalmente schiavi dello spazio e del tempo – al di là dello spazio e del tempo: nei territori del Sacro. Nella morte simbolica – che l’apprendista deve affrontare, ritualmente e spiritualmente –si dispiega lo strappo con il nulla della storia odierna, personale e collettiva e la possibilità di scoprire che al di là della nebbia brilla il sol invictus dell’eterno sapere: della “philosophia perennis” in cui credevano gli umanisti e in cui credono ancora gli Illuminati e i cultori della Via Esoterica Tradizionale. Grazie alla morte simbolica si può superare la soglia del transeunte e scoprire quella pienezza che è indice di totalità: quella pienezza che dovrebbe essere l’anima (l’Anima Mundi) di ogni uomo degno di questo nome. Grazie alla morte simbolica, l’apprendista può superare le apparenti tenebre del mondo e essere rischiarato dalla vivificante luce dell’aurora iniziatica che fa intravedere, all’orizzonte, il misterioso regno del Sacro. L’Apprendista e il cammino Ma la meta non è ancora raggiunta. Il sacrificio realizzatosi con la morte simbolica non è che il primo passo di un lungo cammino: un cammino che, forse, non ha termine ma che, sicuramente, durerà tanto quanto dura l’esistenza terrena di chi vuole intraprenderlo. A questo cammino “periglioso”, l’apprendista deve prepararsi come ogni buon pellegrino deve fare, prima di iniziare il suo viaggio. Molto poco – anche se fondamentale – è ciò di cui necessita: ogni vero viaggiatore sa quanto il bagaglio superfluo intralci il passo, ma sa pure che l’essenziale non deve (e non può) mai mancare. Essenziale, in questa “impresa” simile alla “Queste du Graal”, è l’umiltà. È l’umiltà che deve far scoprire all’apprendista come l’Io e i suoi correlati – la superbia, il protagonismo, la saccenteria, la supponenza, l’invidia, il desiderio di potere, l’arroganza e altro ancora – devono essere abbandonati, subito, sul ciglio della nostra simbolica strada e mai più raccolti. L’umiltà deve insegnare a apprezzare la fatica del cammino senza lamentela alcuna e a accogliere la parola e l’esempio di tutti i compagni di strada: anche i più semplici. Non bisogna mai dimenticare che semplici e i puri di cuore sono molto più saggi dei dotti e che la saggezza è, in realtà, la meta ultima e non già la conoscenza intellettiva e cumulativa. La pratica dell’umiltà, infine, è sentirsi partecipi del mondo in cui persone, piante, animali, agenti atmosferici, esseri animati e inanimati possono offrire insperati tesori di saggezza. E possono essere guide discrete, ma altamente efficaci nel fare evitare le insidie del cammino: come insegnano i miti, le saghe, le grandi narrazione religiose, i sogni. Strettamente collegato all’umiltà – e altrettanto importante – è il silenzio: un silenzio attento, vigile e meditativo. Per questo motivo, più che la parola esteriore deve risuonare nell’animo dell’apprendista la parola interiore. Devono essere il cuore, l’istinto e la ragione gli interlocutori più accreditati. Solo quando l’apprendista avrà imparato a dialogare con loro, solo quando avrà imparato il silenzioso linguaggio dei simboli potrà parlare. Allora, il suo linguaggio sarà semplice, incisivo, moderato e dirà concise parole di saggezza: come gocce di rugiada su campi riarsi. Unitamente al silenzio, l’apprendista dovrà praticare lo studio. Sarà uno studio non convenzionale: non pensato per poi sfoggiarlo in dotte conversazioni o per–come si suole dire –“spaccare il capello in quattro”. Il suo studio dovrà indirizzarsi alla comprensione delle grandi leggi armoniche che reggono l’uomo e il cosmo, sperimentando che la vera scienza è sempre per l’uomo e mai contro di lui. Dovrà, insomma, sperimentare che si può trovare il cuore nell’infinito e l’infinito nel cuore. Insieme al sapere, l’apprendista dovrà sperimentare l’amore: l’amore per la vita e per coloro che, con lui, la vivono. Dovrà coltivare un amore ardente per tutto ciò che è bello esteriormente e interiormente, non fermandosi alle effimere apparenze ma alla sostanza più profonda. Dovrà imparare a donare, perché l’amore è un dono umile, silenzioso, disinteressato: come la perla rara e preziosa del già citato Inno gnostico, che non è mai una privazione ma una straordinaria condivisione. Senza dono non c’è amore: l’apprendista non lo deve mai dimenticare. Imparare a amare significa, altresì, imparare a ubbidire. Il proseguimento sulla via è legato al Maestro: a chi l’ha già percorsa e che, quindi, può indicarne gli ostacoli, le vie precluse, i vicoli ciechi, le zone paludose e i molteplici miraggi. Al Maestro bisogna ubbidire in quanto il vero sapere è gerarchico, non scioccamente democratico. Chi si illude di conoscere il cammino per autonoma conoscenza è destinato a fallire: miseramente. Si ben chiaro, però, che ubbidire non significa annullarsi così come comandare non equivale a imporsi e l’autorevolezza non coincide con l’autoritarismo. La vera gerarchia è severità nell’amore fraterno, nell’umiltà della parola e nella gioia del donare una parte dell’esperienza della propria vita. Parimenti l’ubbidienza è apertura all’altro e riconoscimento della sua maestria: almeno sino a quando la distanza tra apprendista e maestro, lentamente, verrà meno e apprendista e maestro procederanno, appaiati, sulla via maestra che li vedrà, senza distinzioni, compagni nel procedere verso il fine comune: la totalità, l’armonia, l’unione con il tutto. Perché questo e non altro è lo scopo del cammino di questa vita terrena gioiosa nel dolore e dolorosa nella gioia, finita nell’infinitezza e infinita nella sua finitezza, piena di ombre ma traboccante di luce, destinata a esaurirsi nella sua contingenza ma aperta all’eternità. Questo è il segreto della Tradizione, questa è l’essenza della Via esoterica praticata dalla Libera Muratoria Universale, questa è l’aurora che attende l’apprendista.

DALLA RIVISTA “HIRAM” 2916/3

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