La guerra mondiale in una fiala
L’Europa la fronteggia disarmata e balbettante, ma è un conflitto in cui non si può perdere. C’è dentro la corsa ai vaccini, ma anche il destino delle democrazie, e la nostra stessa idea del futuro
By Alessandro
Barbano
Alle volte le parole dicono ma non spiegano. È da un anno che raccontiamo la pandemia come una guerra, ma c’è voluto Mario Draghi per capire che le guerre si combattono con gli eserciti, con le alleanze solide e con le mosse tattiche migliori. Improvvisamente tutto si interpreta con il paradigma della guerra. Primo: il vaccino è l’arma nucleare e vincerà chi ne avrà di più nel tempo. Secondo: la sanità è una costola della sicurezza nazionale. Terzo: la dimensione globale del conflitto mette in fuori gioco gli attori minori. Per combattere servono masse critiche di poteri continentali. Tanto robuste, quanto coese. Perché siamo solo all’inizio, le egemonie sono ancora tutte da costruire. La forma del conflitto è quella di una guerra di movimento. Chi è più rapido prevale, almeno sul breve.
Se stanno così le cose, il fronte in cui noi combattiamo, quello europeo, non solo non è in grado di sferrare nessun attacco, ma non è neanche ben difeso. La sua forza militare è fragile, perché ha un esercito di mercenari che giocano sul prezzo. Ha rinunciato a farsene uno proprio, e adesso si accorge delle conseguenze. Che vuol dire? Vuol dire non avere investito in imprese di scala globale. Le multinazionali europee sono ex nazionali cresciute oltre i confini di Westaflia. Non ce n’è una sola che sia il frutto di una politica industriale continentale. Perché una politica industriale continentale non c’è. Nella Rete come nella sanità. Il nostro straordinario know how è ingabbiato in confini che sembrano camicie di forza.
La corsa all’immunità di gregge dimostra quanto angusto sia lo schema della cooperazione rafforzata. Non solo tra i governi, ma tra le economie e le società. Non siamo stati in grado di farcelo da soli, il vaccino. E sul mercato selvaggio che si è aperto l’Europa ha trattato senza un suo portafoglio. Come un mandatario privo di potestà negoziale, ha dovuto chiedere il permesso ai suoi 27 mandanti prima di fare un’offerta. Nessun battitore d’asta avrebbe atteso i suoi tempi.
Nella scorsa primavera ci siamo illusi che la convergenza delle cancellerie fosse il passaggio storico che si attendeva da quando la Costituzione europea è caduta sotto i colpi dei referendum nazionali. Non è così. Di fronte a una guerra mondiale destinata a durare anni, il Next Generation Eu è una buona trincea. Niente di più. L’Europa non ha nessuna possibilità di vincere se non si munisce di una sovranità. Vuol dire lasciare la sua costruzione giuridicista e tecnocratica per dotarsi di un governo politico. Se ne parla da anni, come fanno quelle coppie che si promettono di dare uno scatto al proprio rapporto e poi finiscono per compiacersi dei propri vizi e delle proprie abitudini. E stanno sempre lì. L’Europa vagola desiderante e inconcludente in mezzo ai suoi insulsi acronimi, metafore dell’incompiutezza. Dall’Efsf, all’Esm, al Mes è un cammino di buone intenzioni disattese. L’ultima costruzione istituzionale si chiama CoFuE. Vuol dire Conferenza sul futuro dell’Europa. Durerà un anno e coinvolgerà governi, corpi intermedi e cittadini. Ma nessuno scommetterebbe su un suo pur modesto approdo.
In questa morta gora il blocco di Draghi all’esportazione dei vaccini in Australia è stato uno strattone all’immobilità. Simbolicamente forte, perché strappa il velo di Maya all’illusione che tutto si può cambiare per non cambiare niente. Che si può approvare lo stop alle scorte di imprese inadempienti se destinate a Paesi non a rischio, salvo poi non applicarlo. Duecentocinquantamila fiale non sedano la nostra fame di vaccini. Ma valgono a spiegare che si può fare sul serio. E nessuno potrà gridare all’egoismo dell’Italia, perché l’Australia non è l’Africa.
Ma l’Europa resta un patto da riconfermare ogni volta che si tratta di prendere una decisione. Un patto destinato a perdere la guerra se non si trasforma in un soggetto politico. Chi e in che modo possa compiere questa mutazione ancora nessuno lo sa. Non le cancellerie, a cui si deve l’architettura zoppa del metodo intergovernativo. Non uno scatto del Parlamento europeo, che alle cancellerie resta subalterno. Non una rivoluzione di volenterosi, perché le rivoluzioni si fanno per abbattere il potere. Qui si tratta di consolidarlo.
Ma senza una sovranità sanitaria, che è anche una sovranità militare e politica, non si vince la guerra. Improvvisamente il sovranismo appare nell’unica declinazione realisticamente credibile: una questione europea. Altro che «prima gli italiani!». L’emergenza ridisegna i confini geografici del potere. La dimensione cosmica del dolore collettivo ne dilata l’ampiezza qualitativa: c’è la politica, ma anche la vita. È una sfida totalitaria, come tutte le guerre globali. C’è dentro la corsa ai vaccini, ma anche il destino delle democrazie, e la nostra stessa idea del futuro. L’Europa non può perderla. Non può rinunciare al suo sovranismo, perché questo contiene anche il primato della solidarietà, della libertà e della giustizia, i valori della sua civiltà. Il cui declino coinciderebbe con il dominio degli autocrati sui leader, degli spregiudicati sui giusti. Questa è la guerra che sta, tutta intera, in una fiala.