di Alessandro Baricco
mercoledì 17 Marzo 2021
Mai più, seconda puntata
«Educhiamo i giovani a una situazione che poi, nella vita vera, quasi non si dà: gestire una realtà che resta ferma. Risolvere problemi che non cambiano regole. Trovare significati che sopravvivono inalterati a generazioni di umani completamente differenti. Lo vedete il culto della permanenza, l’ambizione a fermare il mondo, il bisogno di fermezza? Lo riconoscete il ponte Morandi?»
(Carl Court/Getty Images)
Si diceva
dell’intelligenza novecentesca, e di certe sue sequenze decisionali destinate a
generare sofferenze collettive che invece potremmo risparmiarci. Vogliamo
capirne qualcosa di più, tanto per evitare di staccare accuse vaghe, buone solo
per sfogare un po’ di rabbia? Proviamo.
Per quello che posso sapere io, sono almeno quattro i blocchi che rendono
l’intelligenza novecentesca ormai inadatta a gestire la realtà, o quanto meno
questa realtà.
Primo.
È un’intelligenza che ama lavorare con soluzioni stabili e di scarsissima flessibilità. Se organizza porzioni di realtà, sceglie sistemi che le assicurino una certa permanenza, e non le importa che abbiano una capacità di adattamento. Ipotizza sempre che il problema sia fisso, fermo, stabile: risolverlo significa inchiodarlo lì. Così l’efficienza di una soluzione si misura sulla sua capacità di azzerare l’instabilità del reale, o quanto meno di regolarla, o almeno di nasconderla. Non può sfuggire un certo tratto fiabesco della faccenda.
Secondo.
È un’intelligenza che si fida di una particolare forma di sapere: quella specialistica. Anche qui è facile sentire il riverbero di un’illusione rischiosa: pensare che nella realtà si pongano problemi che si possono risolvere risalendo a un sapere particolare, circoscritto. Secondo questa intelligenza, per fare un esempio, un mal di schiena va curato da un medico, e preferibilmente da un medico specialista della schiena. La cosa può assicurare certi buoni risultati, ma l’idea stessa che esista qualcosa che si chiama schiena, isolabile dal resto del reale, e un sapere ad essa dedicato, però incapace di giudicare ad esempio una poesia, ha qualcosa di talmente riduttivo da apparire offensivo.
Terzo.
È un’intelligenza che procede a partire da alcuni principi solidissimi, che adotta come precetti indiscutibili e che non riesce a cambiare se non con cicli lentissimi. Provo a spiegarmi. Non è un’intelligenza pragmatica, che cerca semplicemente la soluzione migliore, no. Lei ha bisogno di un principio (per dire, la democrazia) e poi è molto abile a dispiegare sistemi logici (sequenze di decisioni sensate) che sgorgano quasi in modo necessario da quel principio: per difenderlo, per tramandarlo, per migliorarlo. La cosa che non sa fare è cambiare quei principi: porli in discussione, immaginare di abbandonarli. Lo fa, ma con cicli, ripeto, lunghissimi. La cosa non sarebbe grave in un mondo che cambia lentamente, ma diventa un evidente handicap nel momento in cui il mondo si mette a correre.
Quarto.
È un’intelligenza che si crede razionale, che fonda la sua forza sulla convinzione di agire secondo razionalità. Qui l’errore è doppio: credere, cartesianamente, che esista un’intelligenza razionale (che si possa capire e gestire la realtà con il solo meccanismo della ragione) e credere, in sovrappiù, di esserne una perfetta espressione, aliena da qualsiasi rigurgito irrazionale. Un cavallo convinto di essere un unicorno farebbe gli stessi due errori: credere di essere un’altra creatura e per giunta una creatura che non esiste.
Bene.
Vogliamo provare ad aprire queste quattro scatole e guardarci un po’ dentro, per capire meglio? Magari facendoci aiutare da questa esperienza, lugubre, della Pandemia?
Primo. Sistemi stabili, poco flessibili. Pensate alla Scuola
(sì, mi piace scriverlo con la S maiuscola).
Perché alla fine una mostruosità come chiudere tutte le Scuole di ogni ordine e
grado può apparire perfino sensata? Perché la Scuola (figlia integralmente
dell’intelligenza novecentesca) è un sistema immaginato per presidiare
stabilmente la realtà, e non è stato costruito per avere una certa
flessibilità. È un sistema muscolare, non adattativo. Se il mondo intorno
cambia drasticamente, lui non ha modo di reagire: la cosa più sensata è
chiudersi a riccio. Si è anche provato, scossi dalla Pandemia, a chiedergli un
po’ di elasticità, con proposte quasi commoventi, nella loro modestia: entrare
scaglionati a diversi orari, prolungare l’anno scolastico fino a fine giugno,
cose così. Ma come si è visto, il sistema non era in grado di sopportare
neppure delle oscillazioni così ridicole. Il fatto che siano sembrate ostacoli
insormontabili, dà un’idea del grado di agonia strutturale in cui il mondo
della Scuola è scivolato. Cemento armato, ponte Morandi – siamo in quella zona
lì. L’unica oscillazione che si è concesso il sistema-scuola è la DAD. Ma è
istruttivo notare come non si sia immaginato nient’altro che versare
meccanicamente le stesse cose che si facevano in aula dentro il contenitore dei
device digitali. Non un orario cambiato, non un programma cambiato, solo la
cieca ostinazione nel cercare gli stessi risultati con una tecnica
completamente inadatta a ottenerli. Solo sistemi fondati su una sorta di eroica
forza ottusa possono pensare di trasportare in DAD le ore di educazione fisica
senza neanche pensarci un attimo. Lo vedete il cemento armato? Dietro a simili
rigidità lavorano scelte che vengono da lontano e che sarebbe stupido scambiare
per una forma di stupidità. Sono, al contrario, una forma di intelligenza, solo
diventata inattuale. La stessa, purtroppo, che la Scuola contribuisce a
riprodurre, in una coazione a ripetere che stiamo pagando carissima. Se pensate
a cosa insegniamo, a Scuola, e al modo con cui lo facciamo, riconoscete
facilmente quello stesso culto della permanenza, del muscolare, del cemento armato
che abbiamo visto arrendersi alla Pandemia. È l’intelligenza novecentesca che
continua a partorire se stessa. Lo fa perpetuando l’idea, tutta sua, che
conoscere la realtà significhi riportarla a un ordine e a una stabilità esenti
da caos. A una catalogazione che non lascia scampo. A un’immobilità
controllabile. La Scuola sta ancora lì a cercare di produrre giovani capaci di
fare quel gesto. Se prendete due materie totem come matematica e latino, in
qualche modo riassuntive dei due rami portanti della formazione delle élites,
vi riconoscerete perfettamente il training che si immagina ideale per formare
le nuove classi dirigenti: esercitarle a capire come funzionano porzioni di
realtà che sono state sottratte a qualsiasi divenire, che sono compiute in sé,
eternamente stabili e completamente impermeabili a varianti soggettive e
oggettive. Sono, tutt’e due, discipline sublimi che ad altissimo livello
diventano gesti di pura visione e libertà, ma ai livelli in cui le si può
approcciare in un normale corso di studi sono nient’altro che un’educazione
all’inevitabile, al già scritto, all’immobile. L’espressione lingua morta rende
bene l’idea. Così educhiamo i giovani a una situazione che poi, nella vita
vera, quasi non si dà: gestire una realtà che resta ferma. Risolvere problemi
che non cambiano regole. Trovare significati che sopravvivono inalterati a
generazioni di umani completamente differenti. Lo vedete il culto della
permanenza, l’ambizione a fermare il mondo, il bisogno di fermezza? Lo
riconoscete il ponte Morandi? Quando invece un’intelligenza non novecentesca
saprebbe che educare significa proprio preparare all’instabilità. Che il sapere
è riservato a intelligenze sufficientemente leggere e veloci da riallineare le
regole note all’ignoto del reale che cambia. Che la conoscenza è un gesto
sempre instabile, e morbido, coincide con l’arte dell’adattamento, e alla fine
è riassumibile nella capacità animale e intuitiva di vedere figure provvisorie
dove disponiamo solo di frammenti, che per di più non stanno fermi. Per
un’intelligenza del genere la flessibilità dei sistemi educativi non sarebbe un
trucco astuto per sopravvivere nei giorni di tempesta, ma la regola per avere
un senso nei giorni di bel tempo. Non c’entra il bisogno di reagire bene alla
Pandemia. Prima di qualsiasi emergenza, un sistema educativo dev’essere
flessibile, o non è niente. Dev’essere capace di adattarsi con una certa
velocità alle mutazioni del reale, o non è niente. La flessibilità non dovrebbe
nemmeno essere una sua caratteristica, ma più radicalmente la sua tecnica
costruttiva. Dovete immaginare la cosa con tutta la radicalità di cui siete
capaci. La vera flessibilità non lavorerebbe mai con materiali rigidi come la
classe, le materie, il professore di una materia, l’ora di scuola, i programmi
ministeriali, i libri di scuola. Se vogliamo dirla tutta, non perderebbe
nemmeno tempo a pensare che una gigantesca Scuola pubblica, identica ovunque,
possa essere una buona idea da cui partire.
E comunque.
Dicevo della Scuola per fare un esempio. Ma potete pensare ai teatri, o alla sanità, o al fisco. Diciamo che la Scuola scotta particolarmente perché durante la Pandemia è stata una disfatta. Ma il punto da tenere a mente è comunque: sistemi troppo stabili, incapaci di flessibilità. Quindi sistemi non adatti a impattare bene con qualsiasi emergenza e soprattutto a scaricare a terra una vera energia nei giorni normali. Se ne può uscire? Sì, se ne potrebbe uscire, ma purtroppo non ci affidiamo alle intelligenze capaci di farlo. E qui si passa al punto due: il culto ostinato del sapere specializzato.