di Michele Moramarco
Scorrendo gli Early Masonic Pamphlets raccolti e commentati da Knoop, Jones e Hamer (Quatuor Coronati Correspondence Circle, London 1978), si nota immediatamente come fin da principio la vita massonica – vista sia dall’interno che dall’esterno delle Logge – apparisse punteggiata da momenti di ilarità. Accanto a quella apollinea, infatti, la Muratoria presentava tratti moderatamente dionisiaci; le agapi costituivano una parte consistente del vissuto fraterno e la convivialità non disdegnava il calice, contenente quel vino che secondo la tradizione biblica – rimarcata in Massoneria – Noè per primo aveva prodotto. E proprio la Tradizione, questa volta universale, ci propone la risata come coefficiente d’ascesa ad una dimensione diversa da quella delle ferree leggi materiali. Secondo alcuni miti di tribù etnologiche, il primo suono cosmico creatore fu una risata, la cui eco gradualmente si affievolì. In questo senso, potremmo dire che non solo la Parola, ma anche la Risata è andata “perduta”, via via che il creato si è allontanato dal grande e mirabile initium. Secondo la tradizione zoroastriana, il profeta Zarathushtra, inviato da Dio per restaurare l’armonia infranta del cosmo, nacque ridendo. In questo senso egli è il prototipo di una nuova e raggiante stirpe umana, colui che sovverte il nero incantesimo per cui l’uomo nasce piangendo. Dall’arcano all’attuale: la psicologia degli ultimi decenni ha esaltato le valenze terapeutiche dell’ilarità. Nel suo libro Il riso fa buon sangue, Raymond Moody (più noto come instancabile ricercatore sulle esperienze di pre-morte) dimostra il potere sanatore del riso a partire dalle sue implicazioni distensive sulla muscolatura facciale. Nel 1988 Rod A. Martin e James P. Dobbin dell’Università dell’Ontario Occidentale (Canada) hanno sperimentalmente dimostrato che il riso protegge dagli effetti indesiderati dello stress e rinforza le difese immunitarie. Le teorie psicologiche classiche sulla funzione del riso sono varie. In ottica freudiana, il riso esorcizza l’ansia inerente alle pulsioni sessuali ed aggressive (non a caso barzellette e battute di spirito sono spesso a sfondo erotico, trasgressivo e “nero”) che l’educazione tende a rimuovere e che possono così trovare una valvola di sfogo. In ottica comportamentista, invece, il riso è sostanzialmente una modalità socialmente accettabile dell’aggressività. Dal nostro punto di vista, che si richiama alla Tradizione universale, l’ilarità ha una valenza superiore, metafisica. I precedenti riferimenti ai miti etnologici e a quello zoroastriano ci richiamano alle valenze creative e redentive (cioè liberatorie) del riso. Valenze creative e liberatorie che si manifestano in sommo grado nell’umorismo paradossale, il più sottile. Il paradosso è l'”oltre” della mente, uno spazio che ci è riservato affinché noi lo usiamo in modo vivificatore. Esso appartiene alla più alta abilità della ragione, quella di superare se stessa, di auto-trascendersi; deriva dunque, in linea diretta, dal Grande Architetto dell’Universo. Il tempo dello Spirito, che la Massoneria Universale prepara, è il tempo dei giullari di Dio. Il riso è un pegno della libertà suprema. L’auto-ironia segnala un’intelligenza umile, e perciò grande. Non è certo un caso, del resto, che nell’Evangelo – ma anche nella tradizione zoroastriana ed in altre ancora – il regno dei Cieli sia descritto in forma di banchetto. La Massoneria, con le sue agapi, deve prefigurare l’ilarità di quel banchetto. Oggi il riso è una via di fuga dal male che opprime il mondo; domani – secondo la beata speranza universale – sarà l’irraggiamento di quella che Aldo Capitini chiamava la “compresenza” dell'”Uno-tutti”. Allora, quando la strazio e la morte non esisteranno più, l’ilarità sarà perfetta e incontaminata e forse, come in un cartoon disneyano, noi potremo cadere goffamente, infrangerci, ridere di noi stessi, rimettere insieme i nostri pezzi, rialzarci e riprendere il cammino più beati di prima, nella giocosa quiete di una nuova Età dell’Oro..