Marcello Veneziani
Facebook: l’anima tribale della tecnologia
La figlia di mio cugino. Il compagno
di scuola delle elementari. Il compaesano emigrato da una vita. Uè, ma sono
tutti a casa mia, mi aspettano con le loro faccine, il loro intercalare, le
loro domande. Apro la finestra e me li trovo qui, che fanno lo struscio
tecnologico con visita, meglio noto come Facebook, la più
grande cosca virtuale, quasi dieci
milioni di affiliati in Italia, secondo il garante della privacy.
Dov’è finita l’Italia sparita? Forse su Facebook, copia e incolla. Tu credi
di essere entrato nel futuro, navigando tutto fighetto e ragazzino su
Internet e invece ti trovi in pieno passato remoto; ti tornano pezzi
antichi e sepolti della tua infanzia e del tuo paese, nenie petulanti e
molesti conoscenti dispersi; riaffiora l’anima provinciale e rivedi come una
specie di Spoon River telematica gli scomparsi della vita tua. Dopo la storia
venne la preistoria. I social network producono un effetto che si riassume in
un titolo: il cugino ritrovato. Figura mitologica della famiglie di
una volta, ora destinato a sparire dopo i vent’anni, riappare col suo faccino
su Facebook, sagra paesana per curare smemorate e indaffarate solitudini.
Password: ci vediamo sopra a nonna, come si diceva da noi.
Mi vado convincendo di una cosa: la tecnologia ha un’anima retriva,
reazionaria. Più va avanti e più cammina indietro, ha un cuore retrò. Il
suo mouse cammina come un gambero, all’indietro; il sito è come la madeleine di
Marcel Proust, tu lo intingi nel tuo schermo e ti riaffiora il piccolo mondo
antico, i suoi sapori e i suoi ricordi.
Ci avevano detto che con l’era televisiva sarebbe finito il mondo della
scrittura, le ridicole lettere, il romanticismo delle missive d’amore. Ci
stavamo, anzi vi stavate, disabituando a scrivere, l’ultimo ricordo era
il tema in classe. Ormai siamo nella civiltà dell’immagine. Poi ti arriva,
tomo tomo cacchio cacchio, prima l’sms, poi l’email e le chat, ora Facebook, e
ti riportano alla scrittura, alle lettere romantiche. La tv, anziché aprirti al
globale, con il passare degli anni rifonda strapaese.
In principio fu la Carrà, madrina del Facebook primitivo detto “Carramba che
sorprese”, col parente emigrato in video; poi ti arrivano i “people”, ovvero i
programmi sulla gente, dal “Grande fratello” in poi, dove lo spettatore fa come
la sua vecchia zia, sbircia tra le persiane o nell’occhio magico che dà sul
ballatoio e spia la vita degli altri, le litigate, le porcate, gli amori e gli
odii. Proprio come facevano le zitelle ficcanaso.
È il tempo dei social network, le community su Internet, ma sono nomi
nuovi per indicare comitive e parentadi. I vicini ora sono lontani, ma
si fanno sempre i c… nostri. C’è il gossip, ma è il pettegolezzo di
una volta. Tornano i dialetti e i personaggi mitici del paese. Si costituiscono
su Internet associazioni di emigrati nostalgici, dove il sito rimpiazza
la piazza. Il mondo globale scopre un’anima tribale. La gente sente il
bisogno di sapere da Facebook che la procugina sta andando di corpo con fatica,
ha preparato i peperoni con troppo aglio e suo marito, con alito feroce, l’ha cazziata.
Dopo anni di paura che qualcuno ti entri nella privacy, adesso si fa il
contrario, esibizionismo militante e minimalista, su ogni pelo o
starnuto. Ah, quanti mostri genera la solitudine. Oh, il narcisismo di
massa di una società di spettatori che sognano di essere attori. Ih, la
timidezza della vita che si riscatta dietro lo schermo, e nessuno più si
trattiene dal dire che è e cosa vuole. Internet, come Baudelaire, mette
il cuore a nudo. Sesso e poesie, viziosi e sentimentali, turpi e
fanciulleschi.
Cerchiamo amici su Facebook, anzi di più, parenti, fratelli, sogniamo ridenti
massonerie, mafie e conventi. Facebook non è solo roba da ragazzi o da evoluti
con professioni moderne;ci sono massaie, impiegate di paese, gente che ha
varcato i sessanta e fa la conta degli amici. Ve ne parlo da estraneo;
ho un fan club, molto mi scrivono, ma non voglio entrare nel giro, pur essendo
tentato, per non essere poi sgarbato e non rispondere, perché un paio d’ore al
giorno alla fine te le succhia. Non voglio disperdere il mio tempo, ho fretta,
ho paura che faccia sera prime che me ne accorga. C’è di meglio: il sole, i
libri, il mare, eros… E poi, che volete, sono misantropo, faccio
community da solo.
Ma in Facebook ritrovo gli ingredienti e miti dell’umanità di sempre: il
mito dell’eterno ritorno, la seconda nascita, con riti d’iniziazione, un
battesimo e un nome nuovo; il desiderio di immortalità, sapendo che
qualcosa resterà di noi nell’archivio etereo di Facebook. E poi gli affetti
patiti o negati, l’ansia di provare la propria esistenza, il
bisogno di far sapere che siamo e come viviamo, la tenerezza di prendersi per
mano quando cala il buio, il bisogno di sentire un fiato pur remoto.
Lo trovo tenerissimo, Facebook, al di là di tutte le idiozie, speculazioni e torvi
intrecci. Lo trovo umano, troppo umano. Si ricompongono famiglie
patriarcali, circoli paesani, scolaresche naufragate nei decenni. Si combatte
una guerra di resistenza collettiva all’Oblio, alla Solitudine, al Tempo che
cancella persone, fatti e gesti minimi della vita. Una terapia collettiva
contro l’Alzheimer.
Certo, su Facebook si consumano piccole tragedie, espulsioni e abbandoni senza
motivo, dichiarazioni d’odio e perfino suicidi. Certo, poi c’è la vita
vera, carnale, ci sono le cose che vanno vissute direttamente, è meglio
incontrare de visu una persona, toccarla, vederla, sentirla
respirare, senza ridurla a una remota icona. Ma tutto sommato Facebook
umanizza la tecnica e restituisce il calore perduto della famiglia. Su,
paisà, facite lo struscio sopra a Facebook.