SE LA GLORIA PORTA ALL’IMMORTALITA’

Marcello Veneziani

Se la gloria porta all’immortalità

La gloria è l’anello nuziale che unisce il tempo all’eternità, la vita all’immortalità. Discende dai cieli, a cui in prima istanza si addice ( gloria dei ); poi s’immerge nella storia, nelle imprese e nelle opere umane, donando alle eccellenze la carezza della luce indelebile.
La prima gloria che scende sugli uomini è nell’ imitatio Dei , nel vivere e morire nella scia della perfezione divina. È la gloria metastorica, sfiora il mondo ma risale in cielo. C’è poi la gloria degli imperi, ossia la gloria che scende nella storia e illumina i grandi, i fondatori. A ruota segue la gloria epica che si addice agli eroi, che entrano con le loro imprese dalla porta della storia ed escono dalla porta del mito. Quindi è la gloria della mente che si volge al mondo, ne coglie l’ordine e ne esprime la bellezza, ne indaga o ne intuisce la verità e le incertezze, trasfigura il mondo e disvela altri mondi, interiori e ulteriori, e si raccoglie in opere d’arte, di scienza e di pensiero. A quest’ultima gloria è stato dedicato il Festival di Filosofia che si è svolto fino a ieri tra Modena, Carpi e Sassuolo, diretto da Remo Bodei.

La fama è il surrogato della gloria e può denotare una nomea positiva o negativa. Succedaneo della gloria è la celebrità che è il più mondano e più vistoso gradino di conversione della gloria al clamore del tempo. La gloria esce dal tempo e riguarda l’istante assoluto o l’eternità, la celebrità invece vive nel tempo, anzi vive del tempo e a volte dura solo un quarto d’ora, come notò Andy Warhol. La notorietà può ridursi a semplice popolarità, può sconfinare nella frivolezza o tralignare nella cattiva fama perché si può acquisire notorietà anche per imprese tristemente famose (come Erostrato che brucia il tempio di Artemide, chi sfigura un’opera d’arte o chi compie un folle eccidio). La fama è una gloria breve e la notorietà è la sua versione più plebea: di un grande chirurgo si narra la chiara fama, di un personaggio televisivo si riconosce la notorietà. La differenza che corre tra la gloria e la notorietà è la stessa che c’è tra un classico e un best seller.

Ma il tema che resta, da un punto di vista filosofico e umano, è il filosofo alle prese con la gloria. Per Platone, ricordava Bodei, il vero filosofo non aspira alla gloria. Ma sarebbe facile narrare le piccole civetterie dei grandi filosofi, la vanità che attraversa o addirittura sospinge seriosi e ombrosi filosofi, la voglia di essere star o il vizio d’incensare il potere per essere a sua volta incensato. Riguarda gli artisti, inevitabili egocentrici che mettono a frutto il loro narcisismo, ma non risparmia filosofi e filosofanti. Alla gloria, sulle tracce di Eraclito e di Parmenide, dedicò un denso saggio Emanuele Severino che riconduceva la gloria al piano dell’eternità. Non dunque la gloria che si concentra nello Spirito del mondo a cavallo, come apparve Napoleone a Hegel, ma la gloria che si posa nell’Essere e ne costituisce l’aura.

La ricerca della gloria ha percorso due direzioni opposte: c’è chi cerca la gloria nella storia e chi viceversa ritiene che la gloria sia uscirne. La prima gloria ha il sapore hegeliano della divinità che coincide col divenire della storia; la seconda ha il sapore orientale dell’ascesi che coincide con la rivelazione del carattere illusorio della storia, del tempo e del mondo. Aleggia nella ricerca della gloria l’ horror vacui , la paura di estinguersi, il terrore della scomparsa. Ogni impresa storica, artistica, scientifica e filosofica è un atto di guerra contro la propria estinzione, una ribellione alla propria cancellazione.

Il filosofo vive tra gloria e silenzio, si nutre di luce e di ombra. Ma il filosofo che va in piazza, che si espone in fiera, che usa perfino il veicolo mondano del festival per incontrare le folle, non è anch’egli malato di vanagloria e inseguitore della fama dei cantanti, degli attori e degli atleti? Ego smisurati che si nascondono dietro il mondo e il sopramondo. Fu vera gloria? Ai poster l’ardua sentenza… Pure il saggio e sobrio Seneca raccontava con una punta d’invidia il successo di pubblico degli eventi sportivi e lo scarso seguito per le lezioni di filosofia che si svolgevano accanto. Si coglieva un filo d’invidia anche in Schopenhauer, il quale pure coltivò la gloria del Nirvana, quando notava che le lezioni di Hegel e degli idealisti erano molto più affollate delle sue.

È umano, forse troppo umano, ma il filosofo non è esente da questa umana velleità. Il suo alibi è doppio: da un verso affrontando temi di rilevanza assoluta e universale si ritiene destinato alla gloria, come se la grandezza dell’argomento garantisse la grandezza della sorte di chi se ne occupa. Dall’altro verso si reputa destinato alla gloria perché si pone un compito glorioso: formare, educare, migliorare l’umanità, suscitare attenzione su quei temi e sulla vita che poi ne discende.

Ma dietro la vena pedagogica o la missione ontologica in nome dell’umanità si nasconde il bambino egocentrico che esige attenzione su di sé, che cerca nello sguardo dell’altro la promessa di una vita che continua e si propaga nel pensiero e nella parola altrui. Perfino Heidegger, il pastore dell’Essere che viveva in disparte, parlava alla radio per allargare l’ascolto del suo messaggio. Come se la Pizia andasse in tv a cercare audience… Ma la filosofia non è esercizio esoterico riservato ai teorici e ai praticanti; è una piramide di pensiero, la cui base è larga e popolare, cioè universale perché riguarda tutti, dal nascere al morire e anche oltre. Poi, pian piano che sale di rango e acquista profondità e acutezza, diventa più rara, più aristocratica, fino alla cima aguzza riservata alle aquile.

Dietro la ricerca della gloria a volte si cela la miseria di chi mobilita i cieli e l’eternità per una recensione o per l’invito a parlare a una platea di centinaia di persone, che in larga parte equivocherà il suo pensiero o ne coglierà un frammento marginale. A sua volta il filosofo banalizzerà il suo pensiero per com-piacere il pubblico o all’opposto si renderà incomprensibile per farsi ammirare come straniero tra gli uomini nella sua oracolare oscurità. La vera gloria è l’impronta che resta dopo che siamo passati. Ma nella gloria anche il filosofo cerca sia il cielo che la terra e vuol entrarvi con la mente e con la sua faccina, col suo pensiero ma anche con le sue scarpe sporche di fango. Giudicate un filosofo dalle sue opere e non dalla sua biografia, dai suoi pensieri e non dalle sue meschinità, dalle tracce che lascia e non dai suoi moventi nascosti, dal suo pensiero e non dalle sue scarpe.


(Il Giornale, 15/09/2014)

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