SUGGESTIONI E MISTIFICAZIONI NELLA “CAVALLA STORNA”

SUGGESTIONI E MISTIFICAZIONI NELLA CAVALLA STORNA

La cavalla storna, del marzo 1903, ha sempre avuto un fascino particolare, che la rende molto commovente, il fatto cioè di saper trasformare una tragedia (l’assassinio del padre del poeta, Ruggero Pascoli), compiuto il 10 agosto 1867, in una sorta di fiaba popolare, che ad alcuni critici ha fatto venire in mente i canti bretoni, ma che in realtà non è molto distante dalle nenie del mondo rurale nazionale, quelle che i più anziani recitavano ai più piccoli per farli addormentare. Essa è inclusa nei Canti di Castelvecchio, dedicati alla madre del Pascoli, mentre la raccolta Myricae era stata dedicata al padre (non a caso di questa i Canti vogliono essere un prosieguo).

E’ noto, negli ambienti scolastici, che, non essendovi forti innovazioni linguistiche, generalmente la lirica non viene più scelta nei manuali antologici delle Superiori, benché nel passato venisse considerata un “classico”, soprattutto per la scuola dell’obbligo, proprio per la facilità di comprensione e di memorizzazione.

La poesia infatti va recitata come una filastrocca, facendo bene attenzione a misurare il tempo delle pause, dando enfasi alla musicalità dei versi, la cui rima baciata, presente in ogni distico, sembra fatta apposta per essere ricordata anche dalla mente di un bambino. L’unico enjambement che dà leggermente fastidio al periodare uniformemente cadenzato degli endecasillabi è quello del verso 7, con quel suo “ancora” a capo, su cui si è costretti a far cadere l’accento, rendendo meno evidente l’assonanza “spruzzi/aguzzi”.

Non pochi critici, p.es. Nava e Perugi, hanno evidenziato, giustamente, la presenza qui di significativi modelli omerici, in quanto la tecnica pare quella dell’epos popolare. Si potrebbe anche dire di più. La cavalla storna appare come il coro d’una tragedia greca ma con molta più emotività, in quanto il lettore (ma sarebbe meglio dire l’ascoltatore, perché qui l’orecchio deve prevalere sull’occhio), in virtù di inequivocabili indizi, ha immediata la percezione che il poeta stia descrivendo qualcosa di molto personale, evitando a bella posta di cercare un linguaggio ricercato, filosofico, come appunto in quelle tragedie.

Vi è distacco solo là dove l’evento pare ineluttabile, come forza misteriosa di un perverso destino, che pesa come un macigno sulla propria percezione di sé, tant’è che la cavalla, subito dopo l’agguato mortale, proseguiva la via “adagio”, “perché facesse in pace l’agonia”, che è forse il verso più “metafisico” dell’intera poesia. Ma vi è soprattutto profonda intimità, poiché qui il soggetto è la cavalla, che umanizza un immenso dolore familiare, un lutto sconvolgente, che viene raccontato all’interlocutore con l’incedere di una ninna nanna, perché si sappia che il poeta, pur non volendo dimenticare una cosa vera (come dice con insistenza nella Prefazione ai Canti), ha fatto di tutto per metabolizzarla, lasciando ad altri il compito di decidere se vi fosse o non vi fosse riuscito.

Qui la poesia viene usata come una sorta di macchina del tempo, un “Ritorno a San Mauro” (stando a una sezione dei Canti), ovvero a quel periodo in cui la mamma lo addormentava con le sue cantilene (perché da questo si ricava la forma della lirica), anche se nel momento della tragedia il poeta aveva già dodici anni. L’identificazione strettissima (di contenuto esistenziale) è più con la tenera madre che non con la forte cavalla, che qui simboleggia ovviamente il padre.

Pascoli sta descrivendo un episodio della sua preadolescenza, che gli sconvolse la vita, o che comunque a lui parve sconvolgente, poiché, a partire da quel momento la precarietà economica ed esistenziale lo costringerà a vivere una vita molto diversa da quella che avrebbe voluto o immaginato. Quanto il fatto in sé sia effettivamente stato così imponente nel condizionare il formarsi della sua personalità, o quanto invece abbia influito su questa personalità l’incapacità di vederlo oggettivamente, nel suo contesto sociale e politico, è ancora oggi materia di discussione.

E’ fuor di dubbio che nell’ambito della famiglia Pascoli non vi fu nessuno, stando almeno alla documentazione resa pubblica, che accettò la tesi del regio prefetto di Forlì secondo cui il delitto andava visto in un più complesso comportamento delle plebi rurali (le Società Segrete di Cesena), intenzionate ad opporsi a quei proprietari terrieri (tra cui appunto l’amministratore Ruggero, ma ve n’erano altri 27!) che, esportando il grano per trarre migliori profitti, affamavano la popolazione locale. Viceversa, per la famiglia Pascoli i due sicari agirono su mandato di chi voleva succedere a Ruggero nel prestigioso incarico: un certo Pietro Cacciaguerra, che però fece fortuna solo dopo essere emigrato in Sudamerica.

Sia come sia gli attori di questa tragedia poeticizzata nella forma della cantilena popolare ambiscono a svolgere un ruolo destinato a commuovere, non a ricercare la verità. Qui si fa poesia non storia, anche se l’autore nella Prefazione dice che vuol fare storia attraverso la poesia. In realtà vuole suggestionare soltanto, col rischio però di mistificare.

I protagonisti vengono descritti secondo diversi piani e angolazioni, spesso tra loro intrecciati, sovrapposti. P.es. la cavalla, che media tra il padre Ruggero, assassinato, e la madre, che chiede conferma sul nome dell’assassino, rappresenta la forza del capofamiglia, lei ch’era stata “selvaggia” (era quella da calesse, la preferita dal padre); ma rappresenta anche qualcosa d’inconscio, quel che Pascoli stesso avrebbe voluto essere, e che in parte era stato nel periodo universitario (quello politicamente il più significativo di tutta la sua vita), una persona sicura di sé, insofferente alle angherie: una superiorità dovuta alla sola forza del carattere, alla personalità intelligente.

Il poeta s’identifica anche con Giacomo, il primogenito che si assumerà la responsabilità della famiglia orfana e che, per la sua morte precoce, non riuscirà nell’intento. Dopo la morte di Giacomo, sarà lo stesso Giovanni a svolgere quel ruolo, ricostituendo il nido familiare con le due sorelle tolte dal convento di Sogliano al Rubicone.

L’amore forte che qui la cavalla provava per il suo padrone, è analogo a quello che il bambino Giovanni provava per suo padre, identico a quello ch’egli pensava/sperava/chiedeva d’avere da parte del padre. Nei confronti del quale però (ma anche nei confronti della madre e del fratello Giacomo e di tutta la famiglia) il poeta si sente in colpa, poiché la giustizia non ha fatto il suo corso, visto che dopo un quarto di secolo egli deve ancora affidarsi al sotterfugio dell’animale intelligente per rivelare il nome del mandante (a chi “non osa” neppure pronunciarlo per timore di conseguenze).

La cavalla rappresenta, nella poesia – secondo le intenzioni del suo autore-, la parte offesa che non può opporsi, il simbolo dei ceti deboli che attendono giustizia, che subiscono torti da parte dei prepotenti. Pascoli qui si serve di un difetto della giustizia giuridica per evitare delle considerazioni storiche, per le quali, se le avesse fatte, la cavalla avrebbe dovuto rappresentare non l’oppresso ma l’oppressore, non il proletariato buono, incapace di difendersi, ma il tutore degli interessi padronali, la cui bontà d’animo non avrebbe mai potuti metterli in discussione.

Una vicenda storica può essere mistificata celando le vere motivazioni dell’agire e soprattutto attribuendo tutti i torti a un solo protagonista della stessa. In tal senso si può dire che qui si sta raccontando soltanto un sogno, in cui il poeta, tornato bambino, rivede la madre che accarezza l’unico testimone del delitto (nella realtà invece ve ne fu più di uno, tant’è che i sicari furono individuati, ma senza conseguenze). La cavalla, che “capisce, è buona, ma non sa ridire”, è come un’istanza di autenticità repressa, soffocata. Ha consapevolezza delle cose ma non può far nulla per cambiarle. Che cosa rappresenta essa se non la vita stessa del Pascoli?

La verità può essere detta solo nel sogno e la madre che la cerca pensa di poter parlare tranquillamente con un animale, come nelle fiabe. Anzi nel finale s’intravede una certa suspence, che ricorda un giallista molto caro a Pascoli, Edgar Allan Poe, che in un suo racconto, Il gatto nero, fa sì che sia un animale a svelare il nome dell’assassino. Infatti la rivelazione avviene subito dopo che gli altri cavalli (quelli normanni, da soma, da tiro) han finito di far rumore mangiando la biada (rompendo i chicchi d’avena con le forti mandibole) e calpestando il selciato con gli zoccoli vuoti, mentre stanno sognando “il bianco della strada”, “il rullo delle ruote”. In quel silenzio agghiacciante la cavalla fa la parte del testimone in grado di parlare unicamente a chi è in grado di ascoltarla. La sua testa non è più “scarna”, cioè magra, affusolata, ma “fiera”, cioè consapevole della propria superiorità non solo rispetto agli altri cavalli ma anche rispetto a tanti esseri umani, qui ritenuti vili, codardi.

Solo una donna, novella Maria che schiaccia la testa al serpente, è capace di tanto, la madre del poeta, che qui rappresenta la coscienza della verità sepolta, saputa ma taciuta, detta privatamente ma negata pubblicamente. L’assassino è noto solo ai parenti del morto, per tutti gli altri è solo un sospettato.

Questo spiega anche il motivo per cui i riferimenti contestuali del crimine siano stati ridotti al minimo: una tenuta agricola denominata “Torre”, cui si accede vedendo in lontananza un lungo viale alberato di pioppi, che fiancheggia un fiumiciattolo, il rio Salto (affluente del Rubicone). Che la tenuta fosse signorile lo si comprende dalle “poste” dei cavalli normanni. Non è importante dire che ci si trova nei pressi di San Mauro (oggi Comune di San Mauro Pascoli). Se avesse scritto “c’era una volta una grande villa principesca”, sarebbe stato lo stesso. La favola potrà diventare storia soltanto quando un giorno si saprà la verità, ma quel giorno avremo perduto la poesia, cui si concede il diritto di avvalersi della finzione anche per celare la stessa verità.

La cavalla storna (pascoli)

Nella Torre il silenzio era già alto.
Sussurravano i pioppi del Rio Salto.

I cavalli normanni alle lor poste
frangean la biada con rumor di croste.
Là in fondo la cavalla era, selvaggia,
nata tra i pini su la salsa spiaggia;

che nelle froge avea del mar gli spruzzi
ancora, e gli urli negli orecchi aguzzi.

Con su la greppia un gomito, da essa
 era mia madre; e le dicea sommessa:

“O cavallina, cavallina storna,
che portavi colui che non ritorna;

tu capivi il suo cenno ed il suo detto!
Egli ha lasciato un figlio giovinetto;

 il primo d’otto tra miei figli e figlie;
e la sua mano non toccò mai briglie.

Tu che ti senti ai fianchi l’uragano,
tu dài retta alla sua piccola mano.

Tu ch’hai nel cuore la marina brulla,
 tu dài retta alla sua voce fanciulla”.

La cavalla volgea la scarna testa
verso mia madre, che dicea più mesta:

“O cavallina, cavallina storna,
che portavi colui che non ritorna;

 lo so, lo so, che tu l’amavi forte!
Con lui c’eri tu sola e la sua morte.

O nata in selve tra l’ondate e il vento,
tu tenesti nel cuore il tuo spavento;

sentendo lasso nella bocca il morso,
 nel cuor veloce tu premesti il corso:

adagio seguitasti la tua via,
perché facesse in pace l’agonia…”

La scarna lunga testa era daccanto
al dolce viso di mia madre in pianto.

 “O cavallina, cavallina storna,
che portavi colui che non ritorna;

oh! due parole egli dové pur dire!
E tu capisci, ma non sai ridire.

Tu con le briglie sciolte tra le zampe,
 con dentro gli occhi il fuoco delle vampe,

con negli orecchi l’eco degli scoppi,
seguitasti la via tra gli alti pioppi:

lo riportavi tra il morir del sole,
perché udissimo noi le sue parole”.

 Stava attenta la lunga testa fiera.
Mia madre l’abbracciò su la criniera
“O cavallina, cavallina storna,
portavi a casa sua chi non ritorna!

a me, chi non ritornerà più mai!
 Tu fosti buona… Ma parlar non sai!

Tu non sai, poverina; altri non osa.
Oh! ma tu devi dirmi una una cosa!

Tu l’hai veduto l’uomo che l’uccise:
esso t’è qui nelle pupille fise.

 Chi fu? Chi è? Ti voglio dire un nome.
E tu fa cenno. Dio t’insegni, come”.

Ora, i cavalli non frangean la biada:
dormian sognando il bianco della strada.

La paglia non battean con l’unghie vuote:
dormian sognando il rullo delle ruote.

Mia madre alzò nel gran silenzio un dito:
disse un nome… Sonò alto un nitrito.




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