Dossier
Scienze della mente e natura dell’io
L’ideale greco del «conosci te stesso» è realmente perseguibile? Lo sviluppo delle scienze cognitive mette in discussione su basi nuove alcune tra le più «evidenti» convinzioni a proposito della natura della soggettività e dell’io. In questa Tavola cercheremo di fare il punto della questione mostrando come la formazione dell’io propria alla Libera Muratoria possa ancora essere considerata legittima perché in perfetto accordo con i risultati di questi moderni studi.
Tradizionalmente si intende per soggetto l’essere autonomo e cosciente, sovrano nella misura in cui esso si pensa e si percepisce libero e capace di rispondere dei suoi atti, indipendentemente dalle condizioni naturali, psicologiche, socio-politiche, storiche che costituiscono la sua singolare situazione individuale.
L’io evidente a sé stesso
Già con Agostino il vero grande problema non è più quello del cosmo ma dell’uomo. Non il problema dell’uomo in astratto, ossia il problema dell’essenza dell’uomo – questo già sollevato da Socrate – ma il problema concreto della natura dell’io, dell’uomo come individuo irripetibile, come persona, come singolo. Agostino si scopre così il protagonista della sua filosofia: osservante ed osservato. Nelle Confessioni mette a nudo il suo animo in tutte le più riposte pieghe e in tutte le intime tensioni della sua volontà. E proprio nelle intime tensioni e lacerazioni della sua volontà, messa a confronto con la volontà di Dio, Agostino scopre l«’io», la personalità umana in senso inedito. L’argomento del cogito con cui Cartesio inaugura la filosofia moderna, pone l’io al centro della scena. Interrogandosi su quale conoscenza potesse essere posta a fondamento di tutte le altre nella sua ricerca di una base certa dell’edificio del sapere, Cartesio, nella seconda delle Meditazioni metafisiche, giunge alla conclusione che l’affermazione «io sono, io esisto» è necessariamente vera. A questo punto la questione essenziale diventa la natura e le proprietà essenziali dell’«io». Cartesio si chiede quindi che cosa sia l’«io». Come noto per l’autore del Discorso sul metodo la risposta esclude l’identificazione tra l’io e il corpo umano che lo ospita. Infatti adottando l’ipotesi del genio maligno che può ingannarmi in tutte le mie convinzioni appare chiaro che «tutta questa macchina composta di ossa e carne che io designavo col nome di corpo» non coincide con me stesso. Come sappiamo l’unico attributo che per Cartesio non può essere sottratto al soggetto è il pensiero. Con ciò si deduce che Cartesio identifica il referente dell’«io» con il soggetto dell’attività psichica, come essa si rivela all’introspezione, attribuisce a questo soggetto la proprietà essenziale del pensiero ed esclude che il possesso del corpo sia condizione necessaria dell’essenza dell’io. Tuttavia già David Hume nega che noi abbiamo un’impressione di un ego permanente ed unitario: «Quando mi addentro più profondamente in ciò che chiamo me stesso m’imbatto sempre in una particolare percezione […] non riesco mai a trovare me stesso senza una percezione e a cogliervi altro che la percezione.» Per Hume le «percezioni particolari» che cogliamo nella nostra mente non richiedono l’ipotesi di un io che le coordini o le raccolga. La tesi secondo cui le percezioni sono entità che possono esistere senza «appartenere» ad un io giustifica la tesi humeana secondo cui l’io altro non è che un fascio di percezioni. Kant concorda con Hume sul fatto che l’esperienza non ci rivela un soggetto sostanziale immutabile nel tempo; ma obietta che non per questo la mente può essere considerata come un aggregato di percezioni distinte; al contrario ciascuna sarebbe unita alle altre dalla funzione unificatrice dell’«io penso» trascendentale. L’«io penso» trascendentale di Kant non è un ente del mondo spazio-temporale in cui viviamo. Esso ha una natura formale: esprime delle condizioni necessarie perché sia possibile il tipo di esperienza soggettiva in cui si articola la nostra mente.
L’io illusorio delle scienze cognitive
Dall’interiorità dell’anima agostiniana al cogito di Cartesio, dall’io trascendentale di Kant allo spirito hegeliano, la tradizione della metafisica moderna ci ha proposto una concezione ottimistica del soggetto. Si parte dall’alto, dall’autocoscienza introspettiva del soggetto per poi assimilare tutto il resto. Il soggetto è trasparente a sé stesso, e la consapevolezza riflessiva che la mente ha della sua struttura e dei suoi contenuti produce una conoscenza dotata di un particolare stato di certezza indubitabile, che si contrapporrebbe alla conoscenza del mondo materiale. Tuttavia questa concezione ottimistica dell’io è da tempo messa in discussione. Psicoanalisi, decostruzionismo, antropologia culturale ed ermeneutica non sono che alcuni dei settori di indagine in cui la diffidenza nei confronti dell’io si è confermata in modo sorprendente. Di recente inoltre è emersa un’altra e forse più insidiosa minaccia della nostra ingenua idea di essere o di avere un «io»; una minaccia che proviene dalle scienze della mente. Psicologia sperimentale, scienze cognitive, e neuroscienze sollevano una nuova serie di dubbi. Siamo incrollabilmente convinti di essere entità unitarie; è però sufficiente uno sguardo anche sommario alla letteratura della neuroscienza e della psicologia per rendersi conto che la tendenza prevalente è oggi di abbandonare l’assunto del carattere unitario della mente per affermarne la sua natura eterogenea. Secondo uno dei più autorevoli filosofi della mente, Daniel Dennett, l’idea che esista, in qualche zona del cervello, un luogo dove tutto converge – un sistema esecutivo centrale che coordina tutte le varie operazioni cognitive – è un mito, il mito del teatro cartesiano. Non esiste alcuna reale identità che permane nel tempo e che potremmo definire «io», di reale potrebbe esserci tutt’al più un io biologico minimale. Tuttavia per il filosofo americano gli esseri umani hanno qualcosa in più. Possiedono il linguaggio. Lungi dall’essere una realtà sostanziale, l’io si rivela come processo, costruzione costante di sé nel tempo. La scienza ci conferma che non possiamo che costituire il nostro «io» attraverso le mediazioni laboriose del linguaggio, dell’educazione, del lavoro su noi stessi. Queste verità sono alla base della formazione massonica da sempre. Essa ci insegna che il nostro «io» si costituisce attraverso la meditazione dei simboli, dei rituali, del paziente e costante lavoro sulla pietra grezza.