“Il Sommo italiano” di Fulvio Conti/Letture
Prof. Fulvio Conti, Lei è autore del
libro Il Sommo italiano edito da Carocci: cosa
rappresenta, per l’identità del nostro Paese, il Divin Poeta?
Per rispondere a questa domanda basta guardare a cosa si sta preparando in
Italia per celebrare nel 2021 il settecentesimo anniversario della scomparsa
del poeta. Ci sarà un’autentica alluvione d’iniziative dal taglio più diverso,
da quelle più squisitamente culturali a quelle pensate per il largo pubblico:
dirette televisive con la recitazione di canti danteschi, letture in piazza
della Divina Commedia, film, spettacoli, performance di varia
natura. E tutto per un poeta vissuto a cavallo fra Duecento e Trecento. Niente
di simile si è visto in occasione dei recenti centenari di Leonardo o
Raffaello, per fare solo un paio di esempi. Dante è parte essenziale della
nostra identità nazionale, tutti conoscono a memoria almeno qualcuno dei suoi
versi più celebri, li hanno sentiti recitare, magari storpiati, dai genitori o
dai nonni. E in quei versi sentono di trovare ancora oggi qualcosa che parla
alle loro coscienze, che le fa vibrare di forti passioni: orgoglio, coraggio,
rabbia, indignazione. E poi Dante è universalmente riconosciuto come simbolo
d’italianità, vorrei dire come simbolo della parte migliore di ciò che
significa sentirsi italiani. Così, quando il 25 marzo del 2020 è andato in
scena il numero zero del Dantedì, nel pieno della prima ondata della pandemia,
con i camion dell’esercito che trasportavano decine e decine di vittime, per
molti è venuto naturale rivolgersi al Sommo Poeta, recitando i suoi canti da un
balcone all’altro. E cercando ancora una volta in lui quel legame identitario
che serviva per mantenere unito e coeso il Paese impegnato nello sforzo supremo
della lotta al Covid-19. Non mi sembra che ci siano state esperienze
paragonabili in altri paesi: gli inglesi, i tedeschi o gli spagnoli non hanno
fatto appello a Shakespeare, Goethe o Cervantes per cercarvi ciò che gli
italiani hanno chiesto a Dante.
In che modo Dante ha incarnato la passionalità e la forte
contrapposizione politica che caratterizzano la storia del nostro paese?
Durante la sua stessa esistenza Dante è stato uomo di parte, ha partecipato
alle lotte politiche del suo tempo, ha persino impugnato le armi nella
battaglia di Campaldino del 1289. Ha lasciato di sé l’immagine di un
intellettuale impegnato, disposto a ricoprire incarichi politici nella sua
Firenze, pronto a prendere posizione nelle disfide che caratterizzavano la vita
cittadina. E questa immagine di scrittore pugnace, pronto all’invettiva
sferzante, attraverso la sua opera letteraria è giunta fino a noi. Fin dal
primo Ottocento Dante, scalzando ogni altro riferimento identitario, è assurto
a simbolo principe dell’idea di nazione che si andava formando intorno al
collante della lingua italiana. E per un certo periodo, diciamo almeno fino al
1848, ha rappresentato un polo di attrazione ecumenico, capace d’accordo
liberali e democratici, laici e cattolici, unitari e federalisti. Poi, con il
passo indietro di Pio IX e l’epilogo delle battaglie risorgimentali che ha
visto lo Stato della Chiesa sul fronte opposto rispetto a quello patriottico,
il poeta è tornato a interpretare il «ghibellin fuggiasco» di foscoliana memoria.
Gli esponenti della sinistra laica e anticlericale lo hanno brandito come
emblema della lotta per il completamento dell’unità d’Italia con Roma capitale
e, dopo Porta Pia, come simbolo dello Stato laico che non doveva cedere di
fronte alle pretese d’ingerenza della Chiesa. I monumenti a lui dedicati in
varie città d’Italia – sui quali mi soffermo in alcuni capitoli del libro –
finirono con l’assumere lo stesso significato di quelli a Giordano Bruno o a
Savonarola. Esprimevano un connubio di italianità e di laicità. I cattolici
tornarono a impossessarsi di Dante durante la prima guerra mondiale, quando si
compì del resto la nazionalizzazione delle masse cattoliche italiane. E
soprattutto lo fecero in occasione del centenario del 1921, con la creazione di
una miriade di comitati, la straordinaria mobilitazione di conferenzieri di
grido (da padre Semeria a Filippo Crispolti, dall’ex presidente dell’Opera dei
Congressi Giovanni Grosoli a Egilberto Martire), e in special modo con la
celebre enciclica In praeclara summorum di papa Benedetto XV. Sempre nel 1921 Dante fu issato sui vessilli
dei fascisti e di D’Annunzio, costringendo i comunisti raccolti intorno alla
rivista «L’Ordine nuovo» di Gramsci a denunciare le «deformazioni ideologiche»
che si facevano del poeta e a scrivere, con scarsa consapevolezza dei
sentimenti che scuotevano l’opinione pubblica: «Dante è in esilio, è morto». E
non è privo di significato che nell’aprile 1945, quando la Repubblica di Salò
era prossima al crollo, Alessandro Pavolini, uno dei gerarchi rimasti più
fedeli al duce, abbia addirittura coltivato l’idea folle di dissotterrare le
ossa di Dante per portarle nel «Ridotto alpino repubblicano» della Valtellina e
farne il nume tutelare dell’estremo sacrificio delle camicie nere. Questi
eccessi di strumentalizzazione politica si sarebbero attenuati nel secondo
dopoguerra, senza peraltro mai far del tutto cessare l’idea di utilizzare
Dante, come documento nell’ultimo capitolo del libro, per veicolare messaggi
ideali fra i più diversi (come riferimento di coesione nazionale nella lotta
contro il terrorismo o come testimonial della lotta per la difesa dell’ambiente
e contro i treni ad alta velocità).
Che nesso esiste tra le declinazioni che il mito di Dante
ha avuto dal Settecento a oggi e l’evoluzione del sentimento patriottico
italiano?
Sul finire del Settecento Dante venne anzitutto riscoperto come grande poeta,
degno di stare sullo stesso gradino in cui si trovavano Petrarca, Ariosto e
Tasso, contrariamente a quanto aveva sostenuto la critica nei secoli passati
che ne aveva messo in discussione le qualità poetiche. Contemporaneamente
cominciò la popolarizzazione del culto dantesco che ebbe un suo momento
rivelatore nel 1798, quando Vincenzo Monti, inviato dalla Repubblica Cisalpina
come commissario della provincia di Romagna, s’incaricò di promuovere un
pubblico omaggio a Dante. In tale occasione egli fu dichiarato cittadino di
Ravenna e la Commedia portata in trionfo fino al sepolcro,
dove il busto del poeta fu incoronato d’alloro. Monti tenne la propria orazione
di fronte alla folla plaudente, rivendicando i meriti di Dante come creatore
della lingua italiana e proponendo arditi accostamenti fra la sua biografia e
quella del poeta. Quella cerimonia segnò l’inizio, di fatto, delle celebrazioni
del poeta come padre della patria. Da allora il culto di Dante come simbolo
patriottico non ha conosciuto soluzione di continuità. È cresciuto in modo
esponenziale durante il Risorgimento e l’età liberale, al punto che il fascismo
si è limitato di fatto a dare definitiva consacrazione al mito del poeta che
era stato costruito in precedenza. La cesura – è questa la tesi che sostengo
nel libro – si è prodotta dopo la caduta del fascismo, quando si è continuato a
guardare a Dante come supremo simbolo della patria, ma senza quella
connotazione di esasperato nazionalismo che gli si era attribuito nel secolo
precedente. Anzi, cercando finalmente di proporre il poeta come simbolo
universale, come un orgoglio italiano conosciuto, tradotto e amato in tutto il mondo
Quale immagine avevano di Dante i romantici?
Agli occhi dei romantici Dante incarnò il poeta civile, il politico militante,
l’intellettuale engagé che aveva pagato con l’esilio la difesa
ad oltranza dei propri ideali. Era un modello che si prestava a un immediato
riuso e consumo, nel quale molti letterati e patrioti italiani di primo
Ottocento, specie sul coté neoghibellino, non faticarono a
riconoscersi: da Foscolo a Mazzini, da Leopardi a Settembrini. Furono loro, più
di altri, a contribuire alla costruzione del mito di Dante come profetico
anticipatore di quell’Italia che si accingeva a risorgere, e a stabilire una
stretta correlazione fra esemplarità di vita ed esemplarità di poesia. Foscolo
in particolare, dopo aver consegnato Dante ai versi immortali dei Sepolcri,
si applicò in maniera sistematica allo studio e all’interpretazione del poeta
fiorentino negli anni da lui trascorsi in Inghilterra, fra il 1816 e il 1827.
In alcuni importanti scritti del periodo inglese Foscolo finì col dettare le coordinate
di un’interpretazione laicista e anti-neoguelfa di Dante che in lui avrebbe
sempre riconosciuto l’autentico capostipite. Ma soprattutto egli fece sì che
l’identità profetica di Dante e la sua istanza di riforma spirituale della
Chiesa si configurassero come riferimento valoriale di alcune correnti
politiche e culturali che proprio in quel periodo stavano cominciando la
battaglia per l’unità nazionale. Non è un caso che il primo testo letterario
scritto da Mazzini, appena ventiduenne, s’intitolasse Dell’amor patrio
di Dante. Inviato all’«Antologia» di Vieusseux e rimasto inedito, fu
conservato da Tommaseo e da lui pubblicato anonimo nel 1837 nella rivista
torinese «Il Subalpino». Un contributo assai rilevante all’irradiamento del
culto dantesco venne poi da alcuni autori le cui opere ebbero vasta
circolazione al di là dei ristretti cenacoli intellettuali e incontrarono il
gradimento di un pubblico più largo. Mi riferisco in primo luogo a Madame de
Staël e a lord Byron. Nel suo Corinne ou l’Italie pubblicato
nel 1807 Madame de Staël celebrò Dante come «l’Omero dei tempi moderni, poeta
sacro dei nostri misteri religiosi, eroe del pensiero». Quanto a Byron fu
l’autore di un poemetto, The Prophecy of Dante, che egli cominciò a
comporre nel giugno 1819, pochi giorni dopo il suo arrivo a Ravenna dove
avrebbe soggiornato per oltre due anni. Pubblicato nel 1821, fu subito tradotto
in italiano e poi ristampato o parafrasato più volte, divenendo un testo di
culto per la generazione risorgimentale e un’opera paradigmatica dell’uso
politico che essa fece di Dante.
Quali celebrazioni accompagnarono il
sesto centenario della nascita di Dante nel 1865?
Quella andata in scena nel 1865 a Firenze, da pochi mesi scelta come nuova
capitale, fu la prima grande festa nazionale del Regno. Il momento clou fu
l’inaugurazione del monumento a Dante di Enrico Pazzi in piazza Santa Croce che
avvenne il 14 maggio alla presenza del re Vittorio Emanuele II. La cerimonia fu
quanto mai solenne e si stima che vi assistettero circa trentamila persone. Fu
preceduta da un imponente corteo che si snodò per le vie cittadine, al quale
parteciparono i rappresentanti di centinaia di municipi, consigli provinciali,
accademie e scuole di vario genere, società operaie di mutuo soccorso. I labari
delle città di Venezia e Roma sfilarono listati a lutto per sottolineare che
esse erano «irredente», non facevano ancora parte del giovane Stato italiano.
Ci furono poi spettacoli teatrali e musicali, declamazioni poetiche, regate e
cuccagne in Arno, divertimenti equestri alle Cascine, una tombola in piazza
dell’Indipendenza a beneficio degli asili di carità e la sera luminarie ed
esecuzioni di canti e cori. Insomma, una festa popolare da tutti i punti di
vista. Ma iniziative e festeggiamenti analoghi si ebbero in varie città
italiane, a cominciare da Ravenna, dove proprio nel 1865, durante i lavori di
risistemazione dell’area adiacente alla tomba, fu rinvenuta in modo fortuito
una cassetta con i resti mortali di Dante. La notizia dell’eccezionale
ritrovamento fece il giro del mondo e trasformò ancor di più il sepolcro
ravennate nella meta di veri e propri pellegrinaggi, che conferirono al culto
dantesco un’aura di religiosa sacralità. Sempre nel 1865 furono inaugurati
busti, targhe e statue un po’ ovunque. Particolarmente importanti furono i
monumenti inaugurati in due città venete che si trovavano ancora sotto il
dominio austriaco: quello di Verona, nella centralissima piazza dei Signori, e
quello del Prato della Valle a Padova. Il primo, per timore di proteste e
rappresaglie, fu scoperto in orario insolito, all’alba del 14 maggio 1865.
Come si espresse la “dantomania” dell’età liberale?
La “dantomania” dell’età liberale si espresse in linea di sostanziale
continuità con i festeggiamenti del 1865. Ormai il mito del poeta profeta della
patria era costruito: nei decenni compresi fra l’Unità e la Grande guerra si
trattò di consolidarlo anche attraverso la creazione di specifiche istituzioni
e associazioni, come le società e le cattedre dantesche, le «Lecturae Dantis»,
le sale Dante, e così via. Dante e Alighiero furono tra i nomi più gettonati
per i nuovi nati, e si progettarono iniziative editoriali destinate sia ai
bibliofili e ai collezionisti (come la Divina Commedia in
miniatura, il famoso «Dantino»), sia al consumo popolare (come le scatole di
fiammiferi con le illustrazioni di Gustave Doré o alcune raccolte di cartoline)
Altre statue di Dante andarono a ornare alcune città italiane, fra le quali Mantova, Napoli e soprattutto Trento, all’epoca ancora sotto dominio austriaco. Il monumento inaugurato a Trento nel 1896 divenne uno dei simboli del movimento irredentista, che fece di Dante la propria icona e scelse la tomba di Ravenna come luogo dove mettere in scena cerimonie di alto valore emotivo e propagandistico. Nel libro racconto alcuni di questi veri e propri pellegrinaggi politici, che talvolta dettero luogo a inattesi conflitti fra nazionalisti e repubblicani, con questi ultimi convinti estimatori di Dante ma fieramente avversi all’uso che se ne voleva fare in chiave di sostegno alla monarchia sabauda. Finché cominciarono a levarsi, da sponde diverse, le prime voci critiche sul «monoteismo dantesco» che aveva travolto la cultura e la politica italiane: da un lato, per esempio, Benedetto Croce, dall’altro Marinetti, che arrivò a definire la Divina Commedia «un immondo verminaio di glossatori». All’inizio del Novecento furono prodotte anche le prime opere cinematografiche tratte dalla Commedia. L’Inferno del 1911, costato due anni di lavoro e la cifra enorme per l’epoca di centomila lire, fu il primo lungometraggio del cinema italiano.
Quale culto riservò a Dante l’Italia fascista?
Ho già detto che il fascismo, dopo il successo delle celebrazioni dantesche del
1921, non dovette inventare niente di particolare per fare del poeta uno dei
simboli del nazionalismo italiano. Certo, fin dalla «marcia» su Ravenna nel
1921 degli squadristi di Bologna e Ferrara, guidati da Grandi e Balbo, fu
subito chiaro che il futuro regime avrebbe racchiuso l’autore della Commedia nel
recinto dei propri riferimenti imprescindibili. Da qui la decisione da parte di
Mussolini di istituire una speciale festa in onore di Dante, la «Sagra
dantesca», prescrivendo annuali pellegrinaggi alla tomba del poeta in occasione
della ricorrenza della morte, il 14 settembre. Oppure si pensi a omaggi
architettonici, come la Tribuna dantesca della Biblioteca Nazionale di Firenze
inaugurata nel 1929, oppure il visionario progetto del Danteum, una
specie di tempio dedicato al culto di Dante che gli architetti Giuseppe
Terragni e Pietro Lingeri, esponenti di punta del movimento razionalista,
cercarono di realizzare senza successo nella zona dei Fori Imperiali, di fronte
alla basilica di Massenzio. Al periodo fra le due guerre risale anche una nuova
ricognizione, dopo quella del 1865, delle spoglie mortali di Dante. A eseguirla
furono chiamati due fra i maggiori antropologi dell’epoca: il professor
Giuseppe Sergi dell’Università di Roma e il professor Fabio Frassetto
dell’Università di Bologna, i quali fra le altre cose, portando un contributo
alle teorie razziali del regime, arrivarono alla conclusione che Dante poteva
dirsi «italiano di sangue e di stirpe».
Come è mutato oggi, nell’era di Internet e della
globalizzazione, il sentimento nazionale nei confronti del suo maggior poeta?
Anche a questa domanda ho in parte già risposto. Gli italiani di ogni età
continuano ad adorare Dante, a riconoscersi in lui e nei suoi versi, a trovare
nel poeta un riferimento etico e spirituale di incredibile attualità. È
qualcosa che ha pochissimi riscontri con altri autori e in altri contesti
nazionali. Ma ciò che appare entusiasmante – e a me è sembrato interessante da
studiare e da raccontare – è il successo travolgente che Dante ha incontrato
negli ultimi decenni in ogni parte del mondo. È ormai diventato un’icona pop,
un brand di immediata riconoscibilità che funziona ovunque. Da qui l’uso nel
cinema, nella pubblicità, nei fumetti, nelle più svariate rappresentazioni
artistiche, dal Giappone alle Americhe. E le innumerevoli iniziative previste
in tutto il mondo in questo 2021, nonostante il dramma della pandemia, ce ne
offrono diretta conferma.
Fulvio Conti insegna Storia contemporanea presso l’Università di Firenze, dove presiede la Scuola di Scienze Politiche «Cesare Alfieri». Membro del Consiglio universitario nazionale, è stato professeur invité in varie università francesi, fra cui le parigine ENS, EHESS, Sciences Po. Coordina (con M. Ridolfi) la direzione della rivista Memoria e Ricerca e fa parte del comitato di direzione di Archivio storico italiano. Fra i suoi libri recenti: La politica nell’età contemporanea. I nuovi indirizzi della ricerca storica (a cura con M. Baioni, Carocci 2017); Italia immaginata. Sentimenti, memorie e politica fra Otto e Novecento (Pacini 2017); I fratelli e i profani. La massoneria nello spazio pubblico (Pacini, 2020).
28 Marzo 2021