La misura della felicità.
Sulla nuova esigenza di inserire la felicità
tra i misuratori del nostro benessere
di Salvatore Sansone
Avvocato
PIL comprende l’inquinamento dell’aria, la pubblicità delle sigarette, le ambulanze per sgombrare
le nostre autostrade dalle carneficine del fine settimana. […] Cresce con la produzione di
napalm, missili e testate nucleari. Il PIL non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della qualità
della loro educazione e della gioia dei loro momenti di svago. Non comprende la bellezza della
nostra poesia e la solidità dei valori familiari. […] Non misura né la nostra arguzia né il nostro
coraggio né la nostra saggezza né la nostra conoscenza né la nostra compassione. Misura tutto,
eccetto ciò che rende la vita degna di essere vissuta.
Robert Kennedy, 1968
Quale che sia il nostro concetto di felicità, o meglio quale che sia il modo in cui la percepiamo e riteniamo di essere felici traducendola in una condizione dello spirito per conquiste emozionali ovvero in una condizione di gioia per conquiste materiali, oggi si propone un orizzonte nuovo: quello della sua considerazione tra i parametri tecnici e non, per “misurare” la qualità della vita. Quello della felicità non è più solo un concetto sentimentale ma diventa un concreto indice che concorre alla valutazione del nostro benessere
Nel loro rigore accademico le scienze economiche non comprendono concetti quali felicità, relazioni amicali, rapporti affettivi, dono, gratuità, qualità della vita. Accade ora che sempre più economisti si occupino di felicità ovvero di queste condizioni sentimentali; in verità si tratta di un fenomeno molto più ampio che non si limita al solo campo dell’economia. L’informazione e la comunicazione puntano
sui social network, sulle community che dialogano, si consigliano, si citano, producono notizie e valori. E ancora la rivoluzione della rete, dei “blog” e del “web” non sono altro che l’altra faccia dello stesso cambiamento ma sul fronte della comunicazione. Il marketing segue la stessa sorte. Qualcuno entusiasticamente parla di un’aria nuova, di una nuova sensibilità per una serie di condizioni che inesorabilmente crescono recuperando nuove dimensioni e ponendo la necessità di una interdisciplinarietà complessa.
Ma la sensazione è invero quella che il tema della felicità “parametro” sia, nella sua valenza metaforica, al contrario, la testimonianza della diffusa influenza relativistica del pensiero debole.
In assenza di forti principi fondanti è la nostra soddisfazione che offre un senso alle cose.
Il Prof. De Rita, sociologo e segretario generale del Censis, parla di “declino del conflitto”; in un editoriale della fine di novembre sul Corriere della Sera, De Rita sostiene che viviamo in una società dove vince il pragmatismo del quotidiano e non un’idea di futuro migliore attraverso spinte ideali fondate su emozioni forti: è l’epoca del “mellifluo consenso”.
E condividendo sul punto le acute riflessioni del Prof. Natalino Irti, conclude come non sia più il tempo della rappresentanza di interessi e bisogni collettivi, ma di “rappresentatività esistenziale”, di messa in comune di emozioni e sentimenti individuali coltivati nella dimensione dell’esistenza, senza passioni e spessori di essenza.
Rifugiandosi nella ricerca della felice soddisfazione dei nostri bisogni, intesi nel senso più ampio e anche più nobile del termine, tentiamo di riequilibrare il senso perduto delle cose e della vita. Ecco allora la domanda: come si misura oggi il nostro vero benessere?
Sul presupposto di premessa, il PIL (Prodotto Interno Lordo) non può più essere considerato un misuratore adeguato dello sviluppo.
Elaborato negli anni Trenta dall’economista statunitense Simon Kuznets, premio Nobel per l’Economia, il PIL rappresenta il valore complessivo di beni e servizi prodotti in uno specifico ambito territoriale (un Paese, una regione, una città o il mondo intero) in un certo intervallo di tempo
(solitamente un anno) e destinati a usi finali
.
Il tema di riflessione è che la ricchezza di una nazione non possa essere rappresentata unicamente dai valori delle produzioni di beni e servizi ricompresi nel PIL. La somma di questi valori prende in considerazione soltanto le transazioni che avvengono nei mercati formali non tenendo in alcun conto
beni che pur avendo certamente un alto valore, per es. etico o comunque non strettamente economico,
contribuiscono sicuramente alla ricchezza. Il volontariato, la beneficenza, la solidarietà non sono
ricompresi tra i parametri di valutazione eppure hanno un “valore” che certamente contribuisce alla ricchezza di un paese.
Molti studiosi e ricercatori, supportati da importanti organizzazioni internazionali quali l’OCSE e l’Unione Europea, stanno indirizzando i propri sforzi intellettuali nella elaborazione di un indice alternativo al PIL: le proposte sono varie, molto serie e interessanti. Tra gli elementi da prendere in esame in questi nuovi indicatori di “ricchezza” è necessario inserire valori nuovi non esclusivamente
tecnico-economici quali l’accumulo a lungo termine di ricchezza (naturale, economica e sociale), la soddisfazione personale nel lavoro e nella famiglia, i livelli di aspettativa di vita, di istruzione,
l’impatto negativo dell’inquinamento, il degrado delle risorse e molti altri.
Un Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo, a partire dal 1993 propone come indice l’Human Development Index (HDI) che pone alla base della misurazione un sistema di molteplici variabili: l’esistenza di uno stato di diritto, la tutela del patrimonio ambientale, il funzionamento di sistemi diffusi socio-sanitario e di educazione, la realizzazione di effettive opportunità di sviluppo economico
a livello locale. Esiste poi il Genuine Progress Indicator (GPI), Indicatore del Progresso “Reale” o effettivo che dal 1995 si pone l’obiettivo di calcolare il differenziale di qualità della vita distinguendo
tra spese di valore positivo (che aumentano il benessere, come quelle per il lavoro domestico o i servizi del volontariato) e negativo (come i costi da sostenere per la lotta alla criminalità, contro l’inquinamento o per gli incidenti stradali). Nel 1999, la Banca Mondiale ha varato il Genuine Savings Index (GSI) che misura la variazione netta di valore del capitale diun Paese partendo dal PIL, aggiungendo le spese di scolarizzazione e sottraendovi i costi relativi alla distruzione di risorse
naturali.
L’Università di Yale, propone l’Environmental Sustainability and Performance Indexes; la Sustainable Society Foundation il Sustainable Society Index – SSI.
E ancora, non meno importanti, l’Happy Planet Index – HPI, Indice di Felicità del Pianeta, che mette in relazione le risorse utilizzate da un dato Paese con l’impronta ecologica, l’aspettativa di vita e la felicità
dei suoi abitanti, e il PIQ – Prodotto Interno di Qualità, che indica in termini monetari quale parte di PIL sia collegata a produzioni di qualità.
Esistono poi due curiosi misuratori che, basandosi sul potere di acquisto delle valute nazionali, sono utilizzati dagli interpreti di varie discipline per condurre indagini e valutazioni: l’indice “Big Mac” e l’indice “Kalashnikov”. Il primo si ottiene dividendo il costo in valuta locale del famoso panino in una nazione, per il costo nella valuta locale di un’altra nazione (entrambe in rapporto al dollaro statunitense); il valore ottenuto viene confrontato con il tasso di cambio ufficiale per capire se la moneta sia o meno sottovalutata. Il secondo offre, invece, lo stato dei diritti umani nel mondo osservando il prezzo a cui viene venduto il fucile Kalashnikov: a un basso costo corrisponde una maggiore violazione dei diritti umani.
E ancora il sovrano del Bhutan nel 1972 ha adottato l’indice della Felicità Interna Lorda, o Gross National Happiness – GNH, per valutare il livello di sviluppo del suo Paese. Con questa modalità vengono messi a sistema lo sviluppo umano, la governance, la crescita equilibrata, il patrimonio
culturale e la conservazione delle risorse naturali. Il Bhutan, in questi trent’anni, ha compiuto progressi notevoli (diffusione dell’elettricità, creazione di un capillare sistema sanitario ed educativo in tutti i villaggi, aumento dell’aspettativa di vita da 46 a 66 anni), la sua popolazione ha guadagnato sicuramente in felicità.
Ma non solo l’economia parla di felicità; anche la politica comincia a cambiare. Negli ultimi anni governanti e politici nei loro discorsi non disdegnano riferimenti
romantici al diritto alla “felicità”. Basti pensare ai discorsi di Obama durante le primarie negli Stati Uniti (il Paese del “diritto alla ricerca della felicità”). Il presidente francese Nicolas Sarkozy, a sua volta, ha chiamato Amartya Sen e Joseph Stiglitz, premi Nobel per l’Economia, perché propongano nuovi e più adeguati strumenti di misura della crescita.
Tony Blair quand’era ancora primo ministro, nel 1999 sosteneva che l’avanzamento di un Paese andava misurato non solo con il PIL ma anche in termini di qualità della vita, sviluppo sostenibile, soddisfazione personale.
Le teorie e i dibattiti su una “economia della felicità” sono in costante crescita.
Recentemente il giornalista e studioso Luca De Biase ha affrontato il tema in un interessante libro pubblicato da Feltrinelli:
Economia della felicità.
De Biase evidenzia quanto sia importante questa “umanizzazione” della visuale economica: quanto le variabili umane come intuizione, sentimenti e preconcetti possano influire e determinare il comportamento economico delle persone.
Significativo sul punto il cosiddetto “paradosso della felicità” elaborato dall’economista statunitense Richard Easterlin. Aumentando il redditopro capite, dapprima l’indice di felicità aumenta, ma oltre una certa soglia ulteriori aumenti di reddito lo fanno diminuire. Tutti banalmente possiamo pensare che col crescere della ricchezza la gente possa essere più felice. Invece Easterlin ha dimostrato con dati statistici che non è vero e che oltre un certo punto si sta peggio anziché stare meglio. Subentrano le
preoccupazioni del “troppo”: troppo lavoro, troppo poco tempo per sé, troppo stress negativo etc.
Riflettendo c’è ragione per allarmarsi perché questo paradosso toglie legittimazione sociale all’economia. La domanda è:
Che senso ha lavorare di più per stare peggio? E ovviamente le risposte sono diverse. Così come non sono univoche le diagnosi sui livelli di felicità, sui sistemi per misurarli. Il sociologo olandese Ruut Veenhoven insegna all’Università “Erasmus” di Rotterdam “Condizioni sociali per la felicità umana” e cura una banca dati mondiale sul tema, che dà origine a una classifica annuale dei Paesi più e meno felici.
Egli spiega che sebbene sia fortemente aumentato l’interesse degli economisti verso la felicità quale nuovo parametro da introdurre per valutare il benessere effettivo, il loro approccio tende a concentrarsi di più sul rapporto tra felicità e variabili economiche come guadagno e occupazione.
Invero la felicità cui si riferiscono politici ed economisti riguarda la soddisfazione sociale, lo stato di benessere del cittadino legato a condizioni quali ambiente, lavoro o equità e non la ricerca individuale della propria felicità, che può consistere in un amore, avere un figlio, professare una fede. Ma è possibile essere felici se la società in cui viviamo condiziona in noi comportamenti, desideri e persino sentimenti?
Padre Gianpaolo Salvini, direttore della rivista dei Gesuiti Civiltà cattolica, nel maggio 2006 ha pubblicato un articolo intitolato
Il malessere nella società del benessere nel quale sintetizza la diagnosi delle nostre insoddisfazioni.
Dipendono dal fatto che, in base all’aria che respiriamo, tutti noi puntiamo la nostra riuscita sul conto in banca, sulla bella casa, sull’automobile, su sicurezze date da beni e servizi materiali. Mentre la felicità viene soprattutto dai beni relazionali, cioè da quei rapporti gratificanti con gli altri che non sono oggetto di mercato.
Si parla dei rapporti interpersonali ispirati a quello che chiameremmo amore, o per lo meno alla simpatia, a un’intesa vicendevole. Cosa potrebbe fare la politica? Come sempre, quando si entra in ciò che è gratuito e personale, c’è una sfera nella quale l’ente pubblico non arriva; però certamente può mostrare, attraverso modelli culturali e stili di vita che di solito non ci si realizza solo col conto in banca o la ricchezza accumulata, ma soprattutto nel mettersi in rapporto con gli altri e anche nel sacrificarsi
per gli altri.
È una prospettiva che dà una speranza. I “beni relazionali” dei quali parla il direttore di Civiltà cattolica, e che non sono conteggiati nel PIL, rappresentano ciò che oggi si ritiene di sacrificare nella folle corsa alla “malata” pretesa di successo sociale. Il problema quindi non si risolve perfezionando
il mercato come sostengono i liberisti o eliminando le diseguaglianze come sostengono i neo socialisti diminuendo i beni privati a vantaggio di quelli pubblici. Per essere più felici occorre ridare valore effettivo ai legami sociali e alle relazioni con finalità fraterne, di aiuto, di solidarietà, di amicizia: dobbiamo rendere un valore la “reciprocità” che è la traduzione in ambito economico del principio
di fraternità.
La reciprocità è il legame tra le persone dal quale nasce quel bene relazionale che ci garantisce la gioia di vivere.
La sfida allora diventa quella di incidere culturalmente per rendere tutto questo non semplicemente una speranza ma un programma da mettere in atto attraverso una “ingegnerizzazione” della “reciprocità” a tutti i livelli. I politici dovrebbero favorire a livello legislativo il ritrovamento dei legami
sociali con incentivazioni nel cosiddetto “terzo settore” come cooperative sociali, consumo critico, finanza etica, commercio equo solidale, banco alimentare, banche del tempo: tutte espressioni della società civile che cresce.
Lo Stato dovrebbe creare strumenti anche finanziari che favoriscano queste espressioni.
Se la modernità con i suoi disvalori tende a cancellare dalla nostra cultura il principio di reciprocità, lo sforzo deve essere quello di recuperarne il valore come senso del nostro impegno.
Forse è da questa speranza che dobbiamo ripartire per il recupero dei valori.