Siamo invasi da spot politically correct. Ma è davvero necessario?
Rimandi ai temi dell’inclusione e delle quote rosa inseriti in spot di deodoranti e caramelle. Il sociologo: “Rimarcano ancora di più la distanza”
Di Ilaria Betti
Una bilancia per pesare parole e immagini, affinché non disturbino, non creino polemiche, non inneschino un cortocircuito con i temi più sensibili del momento, dal body positive alle quote rosa. Il politically correct non ha invaso soltanto film e serie tv. Basta accendere la televisione per accorgersene. Su un canale c’è una bambina che gioca a calcio e viene interrogata dalla nonna sul perché ami quello sport non “da femmine”: lo spot è di un deodorante. Su un altro c’è una coppia omosessuale che si bacia: lo spot è di una caramella. E ancora, un gruppo di donne marcia al grido di ”È ora di fare un passo avanti, ancora più unite”: lo spot è di un assorbente. Ma perché infilare a tutti i costi tematiche sociali anche nella pubblicità di un oggetto “neutro”?
Nicola Ferrigni, professore associato di Sociologia presso l’Università degli Studi “Link Campus University” di Roma, prova ad analizzare il fenomeno, sempre più pervasivo: “Le intrusioni di queste tematiche possono sembrarci forzature – ci spiega – e, in effetti, rimarcare continuamente un tema può avere l’effetto negativo di creare distanza, di sottolineare ulteriormente la diversità. Il fatto che questi spot siano così diffusi ci fa capire che l’inclusione, la parità di genere non sono state ancora raggiunte perché quando le hai raggiunte davvero non hai bisogno di inserirle in ogni pubblicità, in ogni film o serie tv”.
Una ragazza si specchia e guarda i peli delle sue ascelle. Lo spot è quello di una nota crema depilatoria, ma la voce fuori campo ribadisce che il potere di decidere se tenere o meno i peli appartiene alla giovane. È lei che sceglie come essere e come apparire, al di là di quello che pretende la società. La morale si sposa alla perfezione con il concetto della body positivity, un movimento che promuove una serena accettazione del proprio corpo e della propria persona, e più in generale l’inclusione. D’inclusione tratta anche un altro spot, questa volta di uno yogurt per bambini. Mentre si godono la merenda insieme, i piccoli sono mascherati ognuno da un personaggio diverso. Il senso è che, al di là delle proprie buffe caratteristiche e diversità, ognuno è accolto, incluso e accompagnato lungo un percorso di crescita felice. Due esempi, a portata di telecomando, di come i pubblicitari abbiano voluto investire il proprio prodotto di un messaggio, di una capacità altra, forse quella di sensibilizzare, di normalizzare certi atteggiamenti.
La televisione, fin dagli albori, ha sempre avuto il potere di influenzare le masse. Basti pensare che, a metà del secolo scorso, molti italiani parlavano solo il dialetto, non sapevano né leggere né scrivere e fu proprio la televisione ad “educarli”, ad insegnare loro la lingua italiana. Allo stesso modo oggi le immagini trasmesse in tv, così come quelle che vediamo sui social o sui cartelloni pubblicitari, ci influenzano, ci plasmano, ci educano. La televisione, proprio perché capace di parlare ad un pubblico vasto, dal ragazzino al novantenne, è il mezzo prescelto da molti pubblicitari per cercare di veicolare dei messaggi, per persuadere ad adottare determinati atteggiamenti e mindset. Ma attenzione. Eccedere nel tentativo pedagogico può avere l’effetto opposto. Questo è ciò che sostiene Ferrigni: “Perché devo inserire per forza il discorso donne e calcio in uno spot che parla di deodoranti, un oggetto unisex? Perché devo esaltare l’omosessualità anche in contesti in cui non ci sarebbe bisogno? Lo facciamo perché sentiamo che non abbiamo raggiunto la parità. Lo facciamo perché dobbiamo dimostrare, a tutti i costi, come Paese, di aver fatto quell’upgrade, quello switch che ci permette di essere moderni, al passo coi tempi. Eppure proprio queste ostentazioni fanno capire che siamo indietro. Nei Paesi del Nord che davvero hanno raggiunto la parità non si indugia in spot di questo genere. Ci sarà davvero la parità di genere quando lo spot di un deodorante tornerà ad essere lo spot di un deodorante, non l’occasione per parlare delle quote rosa”.
Il politically correct ha innescato pungenti polemiche. La Disney, ad esempio, è ciclicamente criticata per i suoi film: da Biancaneve che sarebbe stata vittima di una molestia tramite un bacio non consensuale, a Peter Pan, Dumbo e gli Aristogatti messi alla gogna perché accusati di razzismo. Anche le pubblicità non se la passano bene, come dimostra la diatriba sullo shampoo per capelli normali. Unilever, società olandese-britannica titolare di 400 marchi (tra cui alcuni popolarissimi) nel campo di alimentazione e prodotti per l’igiene e la casa, è stata invitata ad eliminare la parola “normale” da tutti i prodotti e le pubblicità che riguardano la bellezza e la cura del corpo, perché l’aggettivo è stato giudicato non consono. Qualcuno ha anche provato a difendersi dall’onda del politicamente corretto. Come Nick Cave che ha affermato: “Il politically correct è diventato la più infelice religione del mondo”. Come lui, 150 scrittori, del calibro di Margaret Atwood, Ian Baruma, Noam Chomsky, Salman Rushdie e J.K. Rowling, a luglio 2020 hanno pubblicato una lettera su Harper’s Magazine che aveva lo scopo di denunciare l’intolleranza culturale e quello di difendere la libertà di pensiero e parola.
“La società di oggi è molto focalizzata sul lessico, basta una parola ‘sbagliata’ pronunciata da un personaggio politico o famoso per fargli il processo – conclude Ferrigni -. Certo, le parole sono importanti perché contribuiscono a creare cultura. Ma oggi serpeggia il timore: si ha paura ad usare un termine perché quel termine diventa censorio e definitorio della tua persona, della tua correttezza o meno. La parità, l’inclusione non si misurano solo sul lessico, ma si misurano sui fatti”.