“Il ministro ha decretato – che il presente sia passato!
– ha deciso immantinente – che il passato sia presente. – Ma è il ministro ben
sicuro – che il passato sia il futuro?“.
Sono versi satirici con cui, in pieno ottocento, si bollava il tentativo del Cancelliere
austriaco, principe di Metternich, di inchiodare l’Italia al ruolo di “mera
espressione geografica” e che potrebbero oggi essere invece efficacemente
utilizzati per descrivere il modo con cui la Turchia di Erdogan disperatamente
si impegna ad impedire la formazione di un focolare nazionale curdo. Gente
dura i curdi, grandi guerrieri da quando si chiamavano Medi! Capaci tra l’altro
di esprimere straordinarie personalità di condottieri, tra cui alcune
destinate a segnare la storia del mondo scivolando poi nella leggenda. Non a
caso il Saladino è anche egli un curdo. Nato a Tikrit, città dell’Iraq che era
ai suoi tempi uno dei villaggi iracheni popolati dall’etnia.
Gente con un buon pelo sullo stomaco i curdi! Inseriti per centinaia di anni fra le truppe più fidate dell’Impero Ottomano e considerati come coloro cui si poteva affidare qualsiasi incarico, sicuri che lo avrebbero eseguito sino in fondo e senza porsi eccessivi problemi. Fu così che l’esecuzione del genocidio armeno, concepito e gestito dai turchi, venne per buona parte delegata ai curdi, al punto tale che entrambi i popoli ne portano oggi una responsabilità condivisa. Gente sfortunata i curdi! In uno dei momenti cardine della storia, quello in cui si ridefinì l’intero assetto della regione medio orientale al termine del primo conflitto mondiale, essi si ritrovarono infatti privi di un qualsiasi potente protettore che ne potesse, e volesse! perorare la causa. Così nessuno Stato venne ritagliato per loro dalla torta, come successe con i cristiani maroniti cui la Francia regalò il Libano. Per loro non ci furono troni, come accadde con Iraq e Giordania che l’Inghilterra confidò alla fidata dinastia sunnita degli Hascemiti. Non ebbero nemmeno quella promessa di un focolare nazionale che gli ebrei riuscirono a strappare ad un impero inglese pur per molti versi riluttante. Abbandonati dalle grandi potenze dell’epoca e sconosciuti al resto del mondo, i curdi dovettero così accettare che le terre ove vivevano fossero spartite fra quattro Stati, la Turchia in primis, poi l’Iraq, la Siria e l’Iran. Senza contare il fatto che altre minoranze curde rimanevano sparse in tutto il resto della regione, dal Libano all’Armenia, da questa all’Afghanistan.
Quella curda diveniva in tal modo la più grande fra le etnie prive di un proprio Stato esistenti al mondo, un popolo diviso che ha raggiunto ai nostri giorni la consistenza di circa 25 milioni di persone e veniva costretto, per citare di nuovo il Metternich, a rimanere una “mera espressione geografica“. Il risentimento per il modo in cui erano stati trattati spinse però rapidamente i curdi sulla strada di una rivolta pressoché permanente, impegnandoli in un sanguinoso Risorgimento combattuto su fronti diversi per quasi cento anni senza però che ai venissero conseguiti risultati definitivi. In un simile quadro la lotta armata investi dapprima il Curdistan iraniano, poi quello iracheno, assumendo forme diverse ed imperniandosi sulle figure carismatiche di Mustafa Barzani e di Jalal Talebani. Un dualismo che assunse aspetti dinastici e politici al medesimo tempo, perpetuatisi poi anche dopo l’uscita di scena dei padri fondatori, e che ancora condiziona la dialettica intera di una regione, il Curdistan iracheno, cui la caduta di Saddam Hussein ha conferito una indipendenza de facto. In Turchia nel frattempo il PKK (Partito Curdo dei Lavoratori), condannato dalla repressione turca ad uno stato di perenne clandestinità, si era dedicato per decenni ad un sanguinoso terrorismo cui le autorità di Ankara imputano a tutt’oggi un totale di circa trentamila vittime. D’altro canto la Turchia negava con tale decisione l’esistenza di una minoranza e di un problema curdo per lungo tempo i curdi non esistettero per Ankara, al punto tale che nei documenti ufficiali essi venivano definiti come “turchi di montagna” o “turchi orientali”. Soltanto l’apertura di trattative con Ocalan, il Segretario del PKK fatto finalmente prigioniero e relegato in una isola del Mar Nero, nonché la concessione alla minoranza curda di vari diritti, tra cui quello di costituire partiti politici e di essere quindi rappresentata in Parlamento, avevano poi in tempi relativamente recenti migliorato una situazione che sino a poco fa appariva aperta a prospettive di stabilizzazione.
Nel complesso, almeno sino all’inizio della guerra civile, la situazione apparentemente migliore era forse stata quella dei curdi di Siria, confluiti assieme alle altre minoranze nella coalizione che conferiva al Presidente Assad la forza necessaria per equilibrare la componente sunnita del paese. Gli avvenimenti degli ultimi anni hanno comunque cambiato a fondo la situazione di tutta l’area, Medio Orientale, rilanciando prepotentemente il sogno di unità curdo. In Iraq la caduta della dittatura di Saddam ha infatti permesso la formazione di un Curdistan stabile e ben amministrato, rapidamente impostosi come faro di attrazione per la diaspora della intera etnia. In Siria la progressiva dissoluzione del paese ha inoltre sciolto i curdi dal legame con Damasco mentre l’opposizione al Califfato permetteva loro di occupare una larga fascia di terreno contigua al Curdistan iracheno e prossima alla frontiera con la Turchia. Se di recente non fossero stati fermati e contenuti da un intervento turco in Siria e da un duro monito americano, i curdi siriani sarebbero altresì riusciti a riunire tutte le enclaves territoriali sotto il loro controllo, conferendo continuità al loro dominio. A quel punto le porzioni di territorio sotto sovranità curda in Iraq ed in Siria avrebbero potuto riunirsi, dando vita ad un embrione di Stato. Si tratta di una prospettiva che terrorizza tanto Ankara quanto il Presidente Erdogan. Essi temono infatti a tal punto la possibilità della nascita alle loro frontiere di uno Stato curdo destinato inevitabilmente a divenire il principale riferimento anche per la frazione turca dell’etnia da essere pronti ad utilizzare qualsiasi mezzo per opporsi a tale possibilità. Lo dimostra il modo in cui continuano a dichiarare di combattere soltanto l ‘ISIS… indirizzando però in realtà nove su dieci dei loro colpi di cannone ai combattenti peshmerga! Sul piano interno poi Erdogan ha di recente intrapreso una politica che costituisce una vera e propria marcia indietro rispetto a quelle concessioni che erano state fatte negli ultimi cinque anni producendo una momentanea normalizzazione della situazione. In questa maniera egli si illude di poter riportare indietro le lancette della storia, impedendo o ritardando sine die quanto invece sul terreno sta già avvenendo.
Per riuscire ad annullare le speranze curde il Presidente
turco avrebbe infatti bisogno di un massiccio appoggio da parte dell’Occidente,
lo stesso Occidente che da tempo si è accorto di come i curdi gli siano
indispensabili poiché sono i suoi “boots on the ground” in Medio
Oriente. Cioè quella fanteria che non teme di morire di cui abbiamo assoluto
bisogno – con buona pace del nostro egoistico cinismo! – per distruggere il
Califfato senza rischiare troppe vite americane od europee. Non che la
Turchia non abbia anche essa frecce al suo arco per riuscire ad influenzarci.
Verso l’Europa Erdogan può giocare infatti la carta dei profughi, nei riguardi
dell’America quella della appartenenza alla NATO, in una funzione anti russa
che sembra però divenuta negli ultimi tempi molto residuale. Non pare in
ogni caso che ciò possa realmente bilanciare il peso determinante che i “boots
on the ground” curdi assumono ogni giorno di più nello scacchiere Medio
Orientale per gli USA e per la Unione Europea.
Quindi ……”è il Ministro ben sicuro – che il passato sia il futuro?”