ETTORE SOCCI
Ripercorrere brevemente la vita e l’impegno civile e politico di Ettore Socci (1846– 1905) profusi senza risparmio per la nascita e la costruzione di questa nostra Italia, è proprio ricordare i motivi, politici e ideali, che dettero senso concreto alla difficile costruzione
anche di una nazione, oltre che dello stato unitario, esistiti prima del 1861 solo nella mente di pochi sognatori romantici e idealisti.
Nato a Pisa il 25 luglio 1846, Socci frequentò il ciclo scolastico primario nella città nata-le e in seguito le classi ginnasiali presso i padri Scolopi di Firenze, dove ebbe come insegnanti personaggi
assai noti del mondo letterario e filosofico dell’epoca quali Francesco Silvio Orlandini, Eugenio Ferrari e il dantista Stanislao Bianciardi, e compagni di studi altri toscani che si faranno onore nel prosieguo della carriera e della vita. Per Socci fu l’ambiente fiorentino fu quello ideale nel quale venne maturando la sua originale formazione politica
e giornalistica, vicino al gruppo che faceva capo al pubblicista Alberto Mario.
Nel 1866 Socci si arruolò nelle file dei volontari guidati da Garibaldi, accorsi per seguirlo nella terza guerra d’indipendenza. Inviato in Trentino, Socci combatté a Condino e nelle battaglie in cui Garibaldi avrebbe ottenuto le uniche vittorie militari di quella controversa campagna del giovanissimo Regno d’Italia. Terminata quella guerra,
Socci ebbe appena il tempo di tornare a casa che l’anno seguente ripartì per Mentana (1867), alla nuova chiamata dei volontari garibaldini per la spedizione contro lo Stato Pontificio. Rientrato a
Firenze alla conclusione di quella sfortunata avventura, terminata anzitempo a causa dei francesi di Napoleone III, Socci continuò il suo apprendistato giornalistico e politico come organizzatore di popolo, praticantato che interruppe solo nel 1870 per accorrere ancora con Garibaldi in difesa della repubblica francese in guerra con la Prussia, all’indomani della caduta di Napoleone III.
Per quel suo ideale di repubblica, combattendo contemporaneamente in campo giornalistico, sua vocazione naturale, e in quello della politica militante, Socci sarebbe stato arrestato ben tredici volte, sempre per reati di opinione, e sempre finendo assolto dai tribunali, dove non mancò la testimonianza di Garibaldi stesso a garantire la sua dirittura morale e il suo patriottismo «giammai da ciarle», come era uso dire Il Duce dei Mille di sé e dei suoi soldati fedelissimi, tra cui annoverava Socci. Il che non impedì, mentre si istruivano i vari processi, che Socci trascorresse innocente quasi due anni nelle regie carceri, periodo in parte descritto in «Un anno alle Murate», nel quale si troverà a misurare di persona le condizioni dei carcerati, uno dei suoi futuri cavalli di battaglia di apostolato sociale.
Questo trasparente amore per la libertà repubblicana, l’orgoglio di essere italiano, furono elementi ricorrenti della sua argomentazione oratoria, riflesso dell’aver vissuto in prima persona tappe fondamentali della storia nazionale. Come lui fu sempre accanto a Garibaldi, sempre da semplice soldato, mai in cerca di distinzioni, che gli arrivarono solo per il coraggio dimostrato sul campo, come la Legion d’onore proposta da Garibaldi stesso e concessagli per i fatti di Digione, dove militava come semplice guida addetta allo stato maggiore garibaldino. Con una motivazione non da poco: la conquista proprio della bandiera prussiana del 61° Reggimento Guglielmo, sul campo di battaglia di Digione, dove i corpi dei soldati garibaldini si mischiarono a quelli tedeschi, coprendo la bandiera prussiana sepolta sotto i cadaveri, abbandonata dai nemici volti in fuga dall’impeto garibaldino. Quella distinzione onorifica ricevuta in terra francese, «Socci la tenne sempre nascosta» ricordava un suo vecchio biografo
e soltanto pochi intimi amici ne furono a conoscenza durante la sua vita. Tanto modesto era Socci che, narrando il fatto nel libro «Da Firenze a Digione» (il primo di una lunga serie che avrebbe poi pubblicato) ne parlava in terza persona, citando tutti senza citare mai se stesso. Questo era l’uomo Socci, e tale rimarrà, coerentemente, in tutta la sua vita parlamentare e politica. La successiva militanza ventennale nelle file del repubblicanesimo e nell‘Estrema ne fecero
uno degli attivisti più amati e più incisivi nell’organizzazione concreta di associazioni, circoli e movimenti repubblicani costruttori del consenso politico; uno di quei personaggi tenaci e preziosi sempre disposti a sacrificarsi per la causa e indispensabili alla riuscita pratica di ogni ideale. Collaboratore anche della Rivista della Massoneria di Ulisse Bacci (1881), nella rubrica già tenuta da Castellazzo, Socci troverà nella massoneria un altro campo di attuazione pratico dei suoi principi ideali; ne diverrà in seguito anche alto esponente, quale Grande Oratore del Rito Simbolico, dal 1899 al 1902. Opera, quella di Socci rivolta al problema cardine della educazione nazionale e dei popoli tutti. E nel campo della educazione nazionale il compito dello Stato era, anzitutto, quello di gestire e curare il settore della scuola. A favore di questo fondamentale aspetto della vita civile di ogni vero Stato, Socci aveva sempre sostenuto, fin
dai suoi primi impegni politici, la necessità di combattere battaglie che sentiva importantissime per una unificazione reale della nazione e segnatamente per la crescita di una provincia culturalmente arretrata come la Maremma. A partire dal punto cruciale dell’istruzione primaria obbligatoria (proclamata dal ministro Coppino già nel
1878) inattuata e inapplicata soprattutto nelle campagne, dove la difficoltà di assicurare la frequenza degli alunni assumeva per molte ragioni carattere di ostacolo insormontabile. Nel solco della linea politica massonica auspicata da Lemmi in questo campo, Socci aveva sottolineato fin dal 1886 la necessità di una impostazione laica della
scuola, della effettiva partecipazione degli alunni alle lezioni, della gestione della formazione dei maestri e del loro decoroso sostentamento da parte dello stato. L’argomento della scuola è particolarmente sentito in quei decenni dalla Democrazia, come ovvia preparazione del futuro cittadino consapevole («lo stato ha il dovere di procurare buoni cittadini allo Stato» scriveva Socci) ed è significativo
che al dibattito partecipino tanti elementi della massoneria (a cui apparteneva anche lo stesso ministro Coppino) per gli effetti che la discussione sull’insegnamento religioso produrrà pochi anni dopo sulla stessa Massoneria nazionale, causandone la scissione dell’ala di Saverio Fera (1908) anche sul problema dell’insegnamento religioso elementare. Sui giornali e in Parlamento, Socci sarà tra i pochi a farsi notare in campo laico nel contrastare su questo piano Pompeo Molmenti, principale portavoce della posizione cattolica, che chiedeva l’inserimento obbligatorio delle materie religiose nei programmi
scolastici. Socci, che auspicava invece ogni sforzo affinché «la Chiesa rientri nel diritto comune» e la Democrazia dichiarasse «guerra alla
corrente reazionaria che spira dall’alto e, la cui mercè, la nuova Roma incontra difficoltà a innalzare sopra una pubblica piazza la statua di Giordano Bruno», affermava deciso che l’istruzione in Italia «ha da essere non solo obbligatoria, ma laica e comune».
Indicato nel 1890 da Luigi Castellazzo, eminente massone (fu Gran Segretario del Grande Oriente) e a sua volta già rappresentante in Parlamento della Maremma, come l‘uomo giusto per i democratici
locali, Socci venne eletto Deputato della provincia di Grosseto nel 1892, aprendo un lungo periodo (cinque legislature) di assiduo impegno nel quale si adoperò in ogni modo per sottrarre la provincia maremmana alla dimenticanza degli ambienti parlamentari, cui era stata condannata dall’eccessivo appiattimento sulle linee governative
della lunga serie di deputati costituzionali che lo avevano preceduto. Aveva accettato la prima candidatura a deputato della Maremma, destinata già prima delle elezioni a sicura sconfitta, con una lettera della quale già l’inizio è sufficiente a chiarire il principio etico guida del Socci politico:
«Ultimo, ma disciplinato soldato della Democrazia accetto la candidatura, colla quale ha voluto onorarmi la democrazia maremmana. Eterno rimarrà nel mio cuore il ricordo di un onore per me immeritato e che più che a me si fa da voi a quel programma di giustizia sociale del quale fui e sarò in ogni tempo il più modesto ma non il meno affezionato e meno fervente cultore. […] Incerto è sempre
l’esito delle battaglie, ma cadere ravvolgendosi nel proprio vessillo fu in tutte le età l’ideale dei generosi. I nostri nemici sono molti, potenti i mezzi di cui dispongono; senza freno l’audacia loro, sicuri di ogni impunità: noi siamo poveri, ma, armati della fede, anche cadendo, non verremo mai meno al nostro carattere. Lottiamo, e, se non sarà oggi,
vinceremo domani. L’avvenire è per noi. »
Dopo aver sempre tenuto fede a queste sue dichiarazioni iniziali, alla sua morte, avvenuta a Firenze il 19 luglio 1905, in tutta la Maremma fu rammentata la sua figura di combattente per la libertà italiana
e per la giustizia sociale; quel suo carattere «mite e sereno e pieno di affetti e di pace, un cuore indomito e una fermezza di propositi irremovibile». Sulla Etruria Nuova, giornale grossetano che aveva contribuito a fondare e che fu per molti anni portavoce delle sue idee e delle sue battaglie politiche, tribuna dalla quale esercitò un’opera di
educazione politica importantissima per una popolazione
culturalmente arretrata quale era in gran parte quella maremmana dell’epoca, nel numero del 23 luglio a lui dedicato, scrisse Gaetano
Badii: «Era buono, era leale, ed era onesto […] Chi lo vide lo amò, e quanti lo avvicinarono furono attratti dalle rare doti della sua mente e del suo cuore». Era stato uno dei pochi uomini politici dell’epoca
che in tempi di trasformismi e di scandali era riuscito a vivere nel parlamento nazionale netto come quando vi era entrato: va da sé che fu sempre povero, ma sempre fiero di far suo il motto di Sieyes:
«Nous sommes au jord’hui, ce que nous etions hier [Noi siamo oggi quello che eravamo ieri]», citazione riportata quasi epigrafe nel suo libro dove rammentava la fine del celebre processo subito nel 1875, unico rimprovero indirizzato ai suoi carcerieri dopo un anno di ingiusta prigione alle Murate. Oggi come ieri, ossia, nel caso di Socci,
repubblicano e povero; e anche per questo tanto amato dalla popolazione maremmana. Quanto avesse tenuto ai principi di rettitudine, quale fosse stato il modo di concepire quel servizio pubblico di cui si sentiva onorato dai grossetani, lo avevano
dimostrato i suoi comportamenti quotidiani in quei tredici anni: in tempi nei quali i deputati non avevano indennità (e i senatori erano eletti per censo) non avendo di che pagare «nemmeno 25 Lire per uno stambugio a un quarto piano», Socci si recava alla stazione ferroviaria (i treni erano gratuiti per i parlamentari) e «per dormire al coperto,
partiva tutte le sere da Roma diretto a Grosseto o a Napoli, dormiva in treno e tornava a prima mattina». Ormai gravemente minato dal male che lo avrebbe ucciso di lì a poco, rivendicava con orgoglio nella sua ultima lettera agli amici grossetani, scritto che assumeva anche il valore di un testamento morale, di non aver mai mancato a una seduta del Parlamento:
«parto per Firenze dove devo intraprendere la cura dei raggi Roentgen. Nulla vi è di allarmante; grave invece minaccia la noia di dover stare chissà per quanti giorni nel più assoluto riposo. Non so come farò ad adattarmi a questo forzato quietismo, pure bisognerà che lo faccia, se non altro per non essere tormentato più dalle resse, dalle preghiere
e dagli scongiuri degli amici, che, a quanto pare, tengono alla mia vita più di quello che ci tenga io. Avverti i buoni lettori dell’Etruria Nuova che per un paio di settimane almeno saranno liberati dalla mia solita prosa.
Se la mia malattia si prolungasse, darei le mie dimissioni da vostro rappresentante, giacché per un galantuomo, le cariche pubbliche devono essere un onere e non un onore, e pur tenendo fede agli ideali che è superbo il professare, breccia per tutelare tutti i bisogni, per farsi eco di tutte le legittime aspirazioni, interprete dei giusti voti e degli indiscutibili sacri ed onesti desideri di quelle popolazioni che a lui diedero il più delicato, il più serio mandato, quello di rappresentare il paese. Io non ho mai mancato una sola seduta della Camera, né ciò deve attribuirsi a virtù. Io non sono avvocato, non ho affari da trattare, combinazioni da far prevalere, e se non fossimo alla vigilia delle vacanze autunnali avrei quindi dato addirittura le mie dimissioni, e sono pronto a darle anche ora se i miei elettori le vogliono. La deputazione per me è una cappa di piombo. Dunque, caro Benci, fate quanto il vostro buon senso e il vostro amore alla Maremma vi ispira. Io per un mese, né posso né debbo far nulla. Vi accontentate di rimanere per questo mese senza deputato? In caso affermativo, per non demeritare della vostra stima e del vostro affetto provato, subisco la dolce violenza: caso contrario, rimarremmo come sempre amici, come sempre legati da quella solidarietà che tante lotte combattute per la giustizia e per la verità contro il camaleontismo, l’affarismo e la reazione hanno reso adamantina, fedele a quella bandiera repubblicana nelle cui pieghe voglio avvolgermi morto.»
La lettera di Socci, l’ultima che poté scrivere, cerca di rassicurare gli amici lontani, preoccupati per la sua salute; e assume ancor di più, in questo sforzo di normalità apparente, il carattere di testamento
spirituale.
Furono questi comportamenti che contribuirono alla definizione umana del personaggio, cui si aggiunsero l’indefettibile impegno e la dignitosa modestia che gli si accompagnarono, con i quali Socci aveva sempre improntato i suoi rapporti personali e la sua attività politica e giornalistica, non per questo meno incisiva e determinante nella lotta per la giustizia sociale che fu la sua bandiera e di cui faceva parte a pieno titolo anche l’emancipazione della disastrata Maremma e della
sua scarsa e dimenticata popolazione. Socci ripagò di buona moneta quegli elettori della Maremma che gli avevano dato la loro fiducia e il
mandato di rappresentarli nel parlamento nazionale.
Fu la sua voce che dall’aula parlamentare riportò la Maremma di fronte all’opinione pubblica italiana, descrivendone le micidiali condizioni sanitarie, il brigantaggio, perorando la bonifica integrale
del territorio, ritornato in molte parti, per la mancanza di cure assidue dopo l’avvenuta unificazione nazionale, in condizioni quasi peggiori di quelle in cui l’avevano lasciato i Lorena. Era stato antico sostenitore della abolizione del dazio sul grano e della iniqua tassa sul macinato, che colpiva soprattutto contadini e braccianti; aveva lottato affinché i maremmani avessero condizioni di vita meno difficili e logoranti, chiedendo per loro, sfruttati dai latifondisti con bassi salari e logorati dalle malattie, pensioni di invalidità e di vecchiaia. Ma aveva più volte anche denunciato, prima di diventare deputato e poi dal suo posto in parlamento, che fossero posti all’attenzione della
nazione la questione morale, la libertà di riunione, di manifestazione e propaganda; la riduzione del lavoro alle otto ore giornaliere, la tutela del lavoro femminile e minorile, il reinserimento sociale dei
detenuti, la tutela dell’infanzia abbandonata, la lotta alla prostituzione. Aveva sostenuto la necessità di tassazione delle terre incolte, la loro ridistribuzione a chi l’avesse lavorata, l’istituzione di
ospizi per inabili del lavoro; ma anche la necessità di un innalzamento generale delle condizioni culturali della povera gente, attraverso l’istituzione di nuove scuole, soprattutto tecniche, insieme all’insegnamento dell’igiene e dell’educazione fisica.
Le ultime parole pronunciate da Socci in parlamento furono quelle spese per ricordare Giuseppe Mazzini, nel centenario della nascita. Era stato insomma anch’egli, nel riuscire a coniugare gli aspetti più ideali e più concreti della vita del suo tempo, uno di quei cavalieri erranti dei quali il suo Duce Giuseppe Garibaldi aveva incarnato,
nella storia d’Italia del XIX secolo, l’inarrivabile apice; e se il Generale venne sublimato popolarmente nella definizione ingenuamente romantica di «Cavaliere dell’Umanità», Socci, fedele alla sua modestia, si sarebbe accontentato di essere, per i maremmani che lo commemorarono il 29 Luglio 1906 a Massa Marittima, il «Cavaliere puro e gentile della Democrazia». Definizione preziosa per
condensare una vita, capace forse di rendere meglio di ogni altra la dimensione obiettiva dell’uomo e del politico e insieme il senso di una vita spesa per il proprio ideale.
Dobbiamo riconoscere oggi che la straordinaria capacità di coesione delle forze popolari socialiste e repubblicane, sviluppata da Socci in Maremma nell’arco di tredici anni, tempo lunghissimo misurato
sul metro della politica, è il segno inequivocabile di una non comune capacità di cogliere in anticipo i significati politici trasversali e i bisogni economico-sociali espressi dalla Maremma nel momento storico in cui s’incontrò con questo pisano, inaspettata incarnazione di quel pensiero e azione di cui quella terra aveva sempre avuto immenso bisogno. La sua tenace opera politica fu, semmai, non poco aiutata dall’infelice momento dinastico e dalla scelta repressiva attuata dalla monarchia sabauda sfociata poi nella crisi di fine secolo, in una provincia dove i sentimenti di libertà, presenti da lunga tradizione repubblicana, erano sorti prepotenti fin dal primo albeggiare del Risorgimento nazionale nel ‘48 e illuminati costantemente da un volontarismo, che sarà elemento
distintivo della partecipazione maremmana agli eventi: dai primi passi rivoluzionari unitari, col salvataggio di Garibaldi in fuga dalla Repubblica Romana, fino alla Resistenza, attraverso le guerre d’indipendenza, le campagne garibaldine sul suolo nazionale e le spedizioni di Grecia, Macedonia e delle Argonne fuori di esso. Tappe esaltanti e drammatiche, quelle attraversate da Socci ma anche indimenticabili pietre miliari della costruzione della nostra storia nazionale, che non esisteva prima del 1861, e della futura memoria collettiva europea entro cui sono da considerarsi ormai confluite. Se è naturalmente utile per lo storico riconoscere il peculiare contesto, nel continuo divenire della storia, di questo favorevole ambiente operativo, nulla viene con ciò tolto alla lungimiranza politica di Socci e alla sua straordinaria capacità mediatrice (origine del periodo dei blocchi popolari in Maremma) cui si aggiunse la dote, rara fra gli uomini, di rispecchiarsi fin dall’inizio della sua esperienza grossetana nello spirito di una terra difficile e rude ma anche generosa e fedele verso chi sa comprenderla e amarla, come accadde a lui della Maremma.
Le ceneri di Socci, accompagnate dalle insegne massoniche e dalla camicia garibaldina, vennero trasportate in ferrovia; ad ogni stazione in cui il l’omaggio commosso della popolazione. A Grosseto e nelle altre città maremmane, tutti gli esercizi commerciali vennero chiusi a mezzogiorno in punto. Un omaggio spontaneo del suo popolo, attraverso il quale non è difficile capire il valore e la cifra interpretativa della vita avventurosa ed operosa di Socci. Il senso delle sue battaglie, i motivi delle sconfitte oltre che dei successi nella sua lunga attività politica; ma è facile capire anche, attraverso l’affetto che seppe guadagnarsi dai giovani, l’attaccamento che tutta la popolazione della provincia gli dimostrò, perché Socci rappresentò, meglio di ogni altro uomo politico maremmano del suo tempo, i sentimenti e le aspirazioni più progressiste della nuova Maremma.
Quella dei blocchi popolari, quella repubblicana e socialista che, uscendo dal secolo del Risorgimento, entrava nella modernità votandosi a migliorare una condizione sociale ed ambientale che
la rendeva, per molti aspetti, un’altra «questione meridionale» del giovane Regno d’Italia.
DA MassonicaMente n.14 – 2019