GHETTI E LEGGI RAZZIALI

GHETTI E LEGGI RAZZIALI

DA MARIO JACCHIA A ILSE WEBER

di Giovanni Greco

Rifletteremo qui sulla vicenda degli ebrei al tempo dei ghetti e durante la seconda guerra mondiale con particolare riferimento al nostro paese perché l’Italia è una delle poche nazioni al mondo ad avere una storia di presenza pressoché ininterrotta degli ebrei nelle nostre terre. Non casualmente la comunità ebraica di Roma è ben più remota del papato e della sua chiesa – verso il 30 d.c. gli ebrei a Roma erano oltre quarantamila – senza dimenticare le sinagoghe, le case delle riunioni, le scuole del tempio“ con quel correre di bambini da una parte all’altra”.

Gli ebrei partecipavano sia ai commerci che alla vita pubblica, identificandosi completamente, come sempre avevano fatto, con la vita del luogo in cui vivevano. Non va perciò dimenticata la bella

figura di Tobia Levi a Parma che morì combattendo per il risorgimento italiano, così come era accaduto con la famiglia Todros a Torino, come

Angelo Usiglio che col fratello Enrico collaborò con Ciro Menotti, operando fattivamente con altri ebrei modenesi, Israel Latis, Benedetto Sanguinetti e Fortunato Urbini, mentre a Livorno spiccava la figura di Moses Montefiore. Del resto un grande pensatore ebreo, il rabbino Elia Benamozegh nel 1847, predicando nel tempio Maggiore

di Livorno ebbe a dire agli ebrei presenti che era fondamentale amare l’Italia “dopo Dio, sopra ogni affetto terreno”.

L’era dei ghetti si era sviluppata fra il 1500 e il 1600, ghetti che in genere erano chiusi da tre quattro porte “provvedimento necessario per impedire agli ebrei la propaganda notturna della propria religione” e nessun “cristiano in quello possi star overo tegnir bottega”. Questo non impediva alle comunità ebraiche di avere proficui rapporti con la popolazione del luogo, come per esempio nel caso di Pitigliano, “la piccola Gerusalemme”, dove il conte Niccolò IV Orsini concesse

persino un appezzamento al suo medico personale, Davide De Pomis, che vi seppellì la moglie.

Il primo ghetto in Italia fu quello di Venezia forse il più antico ghetto del mondo – tant’è che la parola ghetto viene proprio dal veneziano ghèto, getto, gettata di metallo fuso per fondere il ferro – che principiò nel 1516 col ghetto vecchio, nel 1541 col ghetto nuovo. Malgrado i ghetti la comunità ebraica veneziana prosperò con l’apertura di numerose sinagoghe e con la costruzione di edifici sopraelevati, sino ad otto piani, cosa assai notevole per l’epoca, manifestando continuamente la necessità di ampliamenti tant’è che i ghetti divennero tre col ghetto detto novissimo del 1663.

Numerosi altri ghetti vennero aperti dopo la bolla papale del 1555, a Roma naturalmente (allora era una frazione del Vaticano) dove dimorava la comunità ebraica più antica del mondo. Fuori dal ghetto gli uomini dovevano portare un pezzo di stoffa gialla sul berretto, mentre le donne un velo giallo nel vestito, mentre in certi luoghi, come a Siracusa, era d’obbligo “la rotella rossa”. All’epoca gli ebrei potevano fare solo gli stracciaroli, i robivecchi, i falegnami e naturalmente i prestatori di danaro. Dal 1572, per volere di Gregorio XIII gli ebrei ogni sabato erano obbligati ad assistere alle cosiddette prediche coatte per cercare di convincerli a convertirsi al cristianesimo. Anche a Bologna, la seconda città del papato, dal 1555 vi furono continue cacciate e rientri e alla fine la maggioranza degli ebrei della zona venne concentrata nei ghetti di Lugo, di Ferrara e di Cento, dove si recarono soprattutto gli ebrei felsinei malgrado che all’Ateneo bolognese sin dal 1488 vi fosse una cattedra di ebraismo. Invece a Siena il ghetto aperto nel 1571, era in un’area alle spalle di piazza del Campo, dove gli ebrei stettero fino al 1859, ma già all’arrivo dei francesi le porte del ghetto erano state bruciate simbolicamente in piazza del Campo nel 1799. Il ghetto di Verona fu messo in essere nel 1599 dopo che si era passati da ca. 400 unità a oltre mille, a fine settecento, con tanti rinomati studiosi nell’arte medica. Agli inizi del 1600 vennero aperti i ghetti di Mantova (con oltre tremila ebrei)  e di Senigallia, dove le pene per chi non trascorreva la notte nel ghetto ammontavano a 25 scudi oltre alla galera, senza dire di numerosi debitori che non riuscendo più ad assolvere al proprio debito,

così come altrove, scatenavano terribili eccidi antiebraici: ucciso il creditore, estinto il debito. Italiani brava gente! Questi massacri, ammantati da ragioni religiose, erano piuttosto frequenti, innescati

spesso dalla predicazione di taluni sacerdoti che sollecitavano tumulti e devastazioni, come per esempio nel caso del francescano Giovanni

Pistoia che nel 1487 si scagliò violentemente contro gli ebrei di Siracusa provocando espulsioni e morte.

A Padova gli ebrei operarono dal 1603 con 63 botteghe, a Ferrara nel 1627 con stamperie prestigiose che produssero opere raffinate come la bibbia di Ferrara, a Torino dal 1679 in seguito alla Controriforma, e poi il ghetto di Urbino dove, dopo l’arrivo dei francesi, fu piantato l’albero della libertà, anche se dopo non mancarono ancora devastazioni e massacri.

Dai ghetti alle leggi razziali, alle uccisioni di massa del nazismo, del fascismo, dello stalinismo e i morti sono stati milioni. A livello europeo i ghetti più grandi furono quelli di Lodz, di Varsavia, di Cracovia, Lublino, Leopoli, Vilnius, da dove venivano prelevati per i campi di sterminio provocando devastazioni e morte.

Primo Levi amaramente scrisse: “Pochi sono gli uomini che sanno morire con dignità e spesso non sono quelli che ti aspetteresti”.

Dai ghetti alle leggi razziali il passo purtroppo fu breve e desidero almeno ricordare il massone Angelo Fortunato Formigine a Modena, scrittore ed editore di vaglia, che si suicidò, gettandosi dalla Ghirlandina, preso dallo sconforto dopo l’emanazione delle leggi razziali ed Eugenio e Mario Jacchia.

Eugenio Jacchia, di origine ebraica, avvocato, nacque a Trieste nel 1869, per aver partecipato ai moti irredentisti per propugnare il ritorno di Trieste in Italia, venne cacciato nel 1889. Riparò a Bologna dove prima fu studente all’università di Bologna e dopo la laurea si sposò con Elisabetta Carpi. Andò poi a far parte della sinistra

democratica radicale e venne iniziato in massoneria. Nel periodo precedente alla grande guerra fu uno degli esponenti di spicco del movimento interventista iscrivendosi al fascio di Leandro Arpinati, già

dal primo dopoguerra diventò uno degli esponenti di maggior rilievo della massoneria. Riterrà insieme ai figli Mario e Luigi di aderire al fascismo, ma poi il rapporto fiduciario si spense quando nel 1924 gli squadristi fascisti assaltarono la casa massonica bolognese in vicolo Bianchetti 4. In quella occasione, il 12 settembre, i fascisti al

grido A morte gli Jacchia deposero in una cassa da morto simboli massonici asportati dalla sede dinanzi alla sua abitazione in via D’Azeglio 58. Dato che queste infami gesta vennero esaltate dal clerico fascista “L’Avvenire d’Italia”, il figlio Mario andò ad affrontare e a schiaffeggiare il direttore di quel giornale, Carlo Enrico Bolognesi.

Dalla documentazione della polizia fascista si evince che di Eugenio si dava nel 1930 il seguente giudizio: “Fu uno dei maggiori esponenti della massoneria locale, mantenendosi sempre un liberale democratico e antifascista. Gode di un certo prestigio”. Eugenio fu anche l’avvocato di Guglielmo Marconi tant’è che vi è un fondo con 29

lettere autografe di Marconi che soprattutto si riferiscono alla tenuta di Pontecchio curata proprio dall’avvocato Eugenio. Quando morì il 31 marzo 1939 per iniziativa dell’avvocato Ugo Lenzi, poi G.M. del Goi, si fece uscire su “Il Resto del Carlino”un necrologio per ricordarne le elette virtù. Il necrologio venne firmato da 73 avvocati bolognesi

prevalentemente ebrei, antifascisti e massoni, ma alcuni di questi erano anche iscritti al Fascio e a loro venne ritirata la tessera. Il 3 aprile in Corte d’Appello l’avvocato socialista Roberto Vigni lo commemorò ricordando anche il suo impegno nell’istituzione

latomistica subendo per questo un breve periodo di detenzione.

Mario Jacchia anche lui avvocato nacque a Bologna il 2 gennaio 1896. Scoppiata la prima guerra mondiale, a fianco del padre, prima propugnò l’intervento in guerra poi partecipò come ufficiale volontario

al battaglione alpini Monte Berico e fu con particolare valore al comando di vari reparti in prima linea. Quando il 13 luglio 1916, per la riconquista del Passo della Borcola a quota 1425, venne ferito alla spalla destra ma non lasciò il comando fino a quando non venne ferito anche ad una gamba, meritandosi ben quattro medaglie al valor militare. A Bologna dopo la smobilitazione partecipò ai gruppi “Sempre pronti per la patria e per il re” organizzati dal tenente Dino Zanetti. Questi gruppi determinarono gravi disordini nel 1919 che portarono alla morte della bracciante Geltrude Grassi.

Nel 1920 si iscrisse ai fasci di combattimento guidati da Leandro Arpinati. Dopo le angherie del fascismo contro la massoneria

fu rottura aperta con Mussolini in particolare dopo che i fascisti bastonarono il fratello Luigi, militante antifascista. Dopo il discorso del duce del 3 gennaio 1925 ebbe lo studio attaccato da un’orda di fascisti e si difese da solo sparando tutti i colpi della sua pistola di ordinanza. Arrivato sul posto con le fiamme che divoravano arredi e incartamenti, sparò contro i fascisti guidati da Arconovaldo

Bonaccorsi e Giuseppe Ambrosi. Poi fu preso dai fascisti bastonato, torturato, ferito ma mai si piegò, come ricorda Ferruccio Parri in occasione della richiesta della medaglia d’oro al valor militare. Dopo le leggi razziali cercò parimenti di portare avanti una difficile pratica di

“arianizzazione” e cercò di rientrare nell’ordine degli avvocati. Cercò anche di farsi promotore di un colpo di stato che fallì e quindi poi partecipò al movimento partigiano, raccogliendo armi, finanziando

uomini e reparti, predisponendo arditi piani, contribuendo alla nascita del CLNAI. A Bologna poi assunse il ruolo di Ispettore militare

dell’Emilia, organizzando anche collegamenti con il Centro di Milano, operando soprattutto a Bologna e a Ferrara per l’organizzazione delle formazioni di “Giustizia e libertà”.

Per Ferruccio Parri “per la sua forte personalità,  per il suo coraggio, l’intelligenza e la cultura” divenne uno degli uomini di punta del movimento partigiano.

Il 3 agosto 1944 mentre si trovava a Parma per una importante riunione di capi partigiani, vennero circondati dalle brigate nere che riuscirono ad arrestare solo lui perché si era attardato per distruggere

importanti documenti consentendo la fuga e la sicurezza dei suoi compagni. Consegnato poi alle milizie tedesche “che lo torturarono perché parlasse. Non parlò”. Fu caricato su un autocarro tedesco, poi non si ebbero più notizie di lui e fu l’ennesima vittima della ferocia nazista. Nessuno più di lui ha osato e rischiato, rivelandosi come

uno degli uomini più valorosi e benemeriti della resistenza italiana. Il suo corpo, il corpo di “Rossini”, questo era il suo nome di battaglia, non ha mai ricevuto degna sepoltura. L’ultimo oltraggio fu quello di predisporre da parte degli aguzzini la redazione di una “lista Jacchia”, una lista fabbricata  ad arte con i nominativi di uomini come Pecori, Maccaferri, Busacchi e Vetuschi, uccisi poi da sicari fascisti.

Esther Millesum, detta Ketty, ebrea olandese morta ad Auschwitz. Figlia di Misha, pianista di valore e di Jacob, medico, Ketty era “il cuore pensante della baracca”. Quando era a Westerbork, un campo di transito, da lì si partiva ogni lunedì col treno con mille anime per Auschwitz, Ketty così racconta: “la locomotiva manda un suono terribile, tutto il campo trattiene il fiato”. Tre giorni di viaggio,

poi marchiati a fuoco come bovini, poi gasati e bruciati. Ketty era andata volontariamente in quel campo dove erano transitati i suoi genitori, ma nel suo diario che venne pubblicato nel 1981

non parlò mai di “nessun gesto di pietà” ma di relazioni fra persone. Alla fine scrisse: “La miseria che c’è qui è veramente terribile, eppure alla sera tardi, quando il giorno si è inabissato dietro di noi, mi capita spesso di camminare di buon passo lungo il filo spinato e allora penso che la vita è splendida e grande, più tardi dovremo costruire un mondo completamente nuovo”.

David Rubinowicz, ebreo polacco, a dodici anni scrisse il suo diario pubblicato da Einaudi quasi vent’anni dopo la sua morte. I suoi genitori erano lattai e finirono in una camera a gas. La sua maestra,

la signora Krogolec raccontò di lui “biondo, aveva visto piangere, quando il padre andò a scuola per dire che quello sarebbe stato il suo ultimo giorno di scuola, niente scuola per i bimbi ebrei: “quel giorno” ricorda la maestra “si mise in cortile, si sentiva escluso, guardava gli altri giocare, poteva ancora per l’ultima volta giocare con loro, ma non ne aveva più l’animo”. David così scrisse nel suo diario: “da quando c’è la guerra studio a casa da solo. Quando mi ricordo della scuola

mi viene da piangere”. Una volta David vide da un nascondiglio in un granaio, una guardia che rincorreva una donna ebrea che scappava e le sparò addosso uccidendola. La donna aveva sei figli che assistettero impietriti e disperati. Uno di loro, il più piccolino cercò di raggiungere la mamma, ma il gendarme lo tempestò di pugni.

Elizier Wiesel, ebreo rumeno naturalizzato statunitense, premio nobel nel 1986, fu a Monowitz, un sottocampo di appoggio. Il suo  

“La notte”, la notte nell’arrivo nel campo, la notte in cui vide cose che gli fecero perdere la fede. “Mai dimenticare quella notte, la prima notte nel campo, che ha fatto della mia vita una notte.

Mai dimenticherò quel fumo. Mai dimenticherò i volti dei bambini

di cui avevo visto i corpi trasformarsi in volute di fumo sotto un cielo muto. Mai dimenticherò quelle fiamme Che bruciarono per sempre la mia fede. Mai dimenticherò quel silenzio notturno

che mi ha tolto per l’eternità. Il desiderio di vivere. Mai dimenticherò quegli istanti, che assassinarono il mio Dio, la mia anima e i miei sogni, che presero il volto del deserto.

Mai dimenticherò tutto ciò, anche se fossi condannato a vivere

quanto Dio stesso. Mai”. Alla fine sopravvisse e venne liberato dai soldati russi che lo portarono in ospedale, dove lottò per tre mesi fra la vita e la morte. Finalmente un giorno poté alzarsi dal letto e passò davanti a uno specchio – era tanto tempo che non lo faceva – e guardò: “ dal fondo dello specchio un cadavere mi contemplava. Il suo sguardo nei miei occhi non mi lascia più”.

Sophie Scholl fece parte del gruppo antinazista non violento la “Rosa bianca” di cui aveva ideato il motto: “Uno spirito forte, un cuore tenero”. Quando la Gestapo l’arrestò, le chiesero se non si sentisse colpevole e lei rispose: “credo di aver fatto la migliore cosa per il mio popolo. Non mi pento di nulla e accetto la pena”.

Imre Kertez, ebreo ungherese, scrittore, sopravvisse ai campi di sterminio, premio nobel per la letteratura nel 2002. Nel suo più bel libro “Essere senza destino”, il protagonista, il suo alter ego, non si indigna, non si dispera, non chiede pietà, ma osserva le cose come se non riguardassero lui e sostiene che l’operazione più infame è quella di ridurre un uomo a preoccuparsi solo della sua sopravvivenza:

“non vi è assurdità che non possa essere vissuta con naturalezza”. Esattamente come Kertez, anni dopo, il grande poeta vietnamita

Nguien Thien, autore de “I fiori dall’inferno”, che per 27 anni aveva patito il carcere ad Hanoi a chi gli chiedeva perché persino sotto tortura fosse rimasto in silenzio, senza invocare pietà, aveva risposto:

“Sono rimasto in silenzio quando il nemico mi torturava, con il ferro e con l’acciaio, l’animo debole in agonia. Le storie degli eroi sono per i bambini che ci credono. Io sono rimasto in silenzio perché mi dicevo: c’è qualcuno che è entrato nella giungla e che è stato assalito dalla bestia feroce ed è così stupido da aprire la bocca e

chiedere pietà?”.

Irena Sendler, cattolica polacca, “chi salva una vita salva il mondo” e Irena lo ha salvato 2500 volte. Irena infatti salvò circa 2500 bambini ebrei del ghetto di Varsavia affidandoli a famiglie di contadini cattolici, bambini che a volte per motivi di sicurezza dovevano cambiare famiglia, tant’è che una volta una bimba le chiese: “signora Irena

ma fino a quante mamme possiamo avere?”. Arrestata e torturata, le spezzarono le gambe, resisté per cento giorni prima di essere liberata dalla sua organizzazione segreta che aveva corrotto un ufficiale tedesco. Dopo la guerra nel Kansas un professore

americano protestante, col quale il mio gruppo di lavoro è in contatto, il prof. Konrad, con le sue allieve, scoprì questa vicenda e la rese nota

al mondo intero, creando anche una bella commedia teatrale che a distanza di anni viene ancora messa in scena. E solo dinanzi alle affettuose insistenze delle ragazze americane, Irena uscì dalla

sua pressoché totale riservatezza raccontando per intero la sua storia. Quando l’ufficiale nazista mi fece scappare – così raccontò alle studentesse – “mi rifugiai in una farmacia: la farmacista, una giovane

donna, Helena, mi guardò. Non scorderò mai quel suo sguardo, così terrorizzato che io realizzai il mio stato. Mi portò nel retro della farmacia senza farmi domande; mi pettinò i miei capelli annodati

e scomposti e poi spruzzò dell’acqua di colonia profumata su tutto il corpo, senza dire nulla sul mio odore sgradevole. Mi diede dei vecchi vestiti per cambiarmi, un bastone per camminare e dei soldi per il tram. Restai in quella farmacia per circa un’ora e poi andai verso casa”. Una donna cattolica, rievocata dai protestanti, che salva bimbi ebrei è la più alta testimonianza della ricerca del bene in ogni fede. A fronte di nessun gesto di pietà, nel colpevole e assordante silenzio

di tanti, meravigliose storie d’amore per gli uomini ci riconciliano con la vita. Ha ragione il rabbino di Ferrara Luciano Meir Caro che, nel nostro paese, ci sono stati svariati uomini giusti, ma quanti, tanti, troppi, una maggioranza strabocchevole hanno fatto le spie e i delatori

anche per denaro: “il lavoro sporco della persecuzione in Italia l’hanno fatto gli italiani, su ordine dei tedeschi e molto volentieri”: italiani brava gente! Senza dimenticare che a fronte di tante suore e preti che hanno fatto, a rischio della vita, la loro parte, papa Pio XII, pur sapendo ogni cosa nei particolari, non profferì mai una parola al

riguardo. Forse in qualche caso la memoria è stata affidata meglio alle cose che agli uomini, come nel caso dell’ippocastano di Anna Frank, memorie non affidate a una pietra, a un monumento, ma alla natura stessa addirittura alla natura vegetale. Martin Luther King sosteneva che abbiamo imparato a volare come gli uccelli, a nuotare come i pesci, ma non abbiamo ancora imparato a vivere  come fratelli e non abbiamo imparato a raccogliere insieme i frutti del lavoro. Agli ebrei deportati e uccisi, va il nostro deferente pensiero: “quando il rabbino canta, cantano tutti con lui, quando il rabbino piange, piange da solo”. Perciò è quanto mai il momento per tutti noi di dare il meglio, per quel che resta del giorno, ricordandoci che l’eredità non si trasmette, ma si conquista. La vera nobiltà per gli ebrei, e per tutti noi, non è essere superiori ad un altro, la vera nobiltà è essere migliori di quello che eravamo ieri.

Fortunati noi che abbiamo potuto evocare le figure di Irena Sendler o di David Rubinowic con l’animo sincero dei loro amici che gli stringevano forte le mani leali. E permettetemi infine di ricordare

le parole di una poetessa ebrea di lingua tedesca,   Ilse Weber, che  bramava una casa e una vita che le veniva negata, anche pensando a tutti quelli che la casa l’hanno perduta o non ce l’hanno:

“Cammino vagando per Theresienstadt, greve il cuore come piombo,

finché brusco il mio tracciato termina, là accanto al bastione.

Là ferma sul ponte, rivolgo lo sguardo alla vallata, quanto vorrei proseguire, quanto vorrei andare a casa. A casa – tu meravigliosa parola, tu mi gravi sul petto, me l’hanno portata via la mia casa,

non ne ho più una ora. Mi volto affranta ed esausta, quanto affanno in quel gesto, Theresienstadt, Theresienstadt, ma quando avrà fine il dolore, quando saremo liberi di nuovo, quando potrò tornare a casa?

Certo è che per quanto riguarda la stella gialla degli ebrei forse sarebbe meglio portarne due, una per obbligo e una per orgoglio.

E così si avverano le parole che un grande come Victor Hugo pronunciò nel 1848 nel discorso di apertura al congresso della Pace a Parigi: “Verrà un giorno in cui si mostrerà un cannone nei musei

e le sue palle di cannone, come vi si mostrano oggi gli strumenti di tortura stupiti che quello un giorno sia potuto esistere”.

Dopo l’entrata dello Shabbat si usa ripetere una canzone di antichi cabalisti: andate in pace, angeli di pace, angeli dell’altissimo Shalom aleichem: la pace sia con voi.

Tratto da MassonicaMente n.14 13 – 2018

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