Carducci “conservatore sovversivo”
di Marco Veglia
Università di Bologna
Fratelli,
per diverse terra le vostre ossa
per l’Italia tutta il nome
Ma la religione di voi è qui
E passa
Di generazione in generazione
Ammonendo
Che scienza è libertà
Pochi versi di Carducci, come la corona di sonetti dedicati alla Francia del 1792, o come le parole che abbiamo appena ascoltato (incise nell’atrio dell’Università di Bologna nel 1870, a fronte dell’epigrafe che rammemora le gesta e il retaggio di Luigi Zamboni e G.B.
De Rolandis) si prestano a cogliere forse, di là dal permanere di radicati luoghi comuni, l’unità libertaria del pensiero e dell’opera del maestro di Bologna. Sin dall’apparizione per i tipi di Sommaruga, nel 1883 (poi, associati alla prosa omonima, pubblicati da Zanichelli nel 1908), i componimenti del Ça ira consentono, se non altro per una semplice loro inserzione nel tessuto vivo dell’opera di Carducci e della storia italiana dell’epoca, di intendere il progetto politico del poeta, quel progetto – vorrei dire subito – che è tutt’uno con la sua etica della libertà e col suo ritorno attivo, di lì a poco, nella Massoneria guidata allora dall’amico, prima ancora che dal fratello, Adriano Lemmi. Ma ritorniamo col pensiero al 1882, che, se vedeva Carducci raccogliersi nel ricordo entro la trama suggestiva, di inattaccabile fascino, delle Risorse di San Miniato al Tedesco, testimoniava per ciò stesso un’inclinazione di Giosue, in quei tempi, a cercare e a fissare un’immagine di sé, un ritratto ne varietur da sottrarre, con tenacia, alla faziosità della polemica politica, impigliata nelle secche del suo “cabotaggio di piccolo corso”. È pur vero, a ben vedere, che il 1882 significava altresì l’Italia della Triplice, l’Italia della morte di Giuseppe Garibaldi, l’Italia di Oberdan, un Italia insomma che rischiava di affossare drammaticamente tutto ciò che aveva retto e informato di sé il Risorgimento italiano. Dalla morte di Mazzini a quella di Garibaldi, ovvero dal 1870 al 1882, si sfaldava e come sfibrava, per ragioni storiche e dottrinarie, la tensione ideale che aveva governato l’unificazione nazionale. Quale compito imponeva al poeta un tale scenario?
Ebbene, su nessun evento cruciale di quell’annus terribilis Giosue Carducci lasciò mancare la propria testimonianza. E, quando si pensi alla sua già avvenuta conversione alla monarchia (sua, come di larga parte della sinistra garibaldina), quando si pensi al tanto proclamato “tradimento” di quella svolta politica rispetto agli antefatti repubblicani del cantore di Satana, si dovrebbe pur ricordare che questo presunto traditore, nello stesso momento, talvolta negli stessi giorni, inneggiavaalle chiome di Margherita e al capo ghigliottinato della regina di Francia; che questo professore di prestigio internazionale si schierava per Oberdan, venendone processato; che si ristorava lo spirito rievocando la lotta, il sangue versato per la libertà nei grandi fatti del 1792. “La Gironda è finita, per sempre finita…”. Come fece Garibaldi, già vecchio e deformato dall’artrite, quando prestò ancora il proprio braccio per combattere per la Francia (quella medesima che, di concerto con la monarchia sabauda e con il Papa, aveva sparato su di lui e sui suoi giovani a Mentana), Carducci non dimenticava il debito contratto con la terra vicina, con la culla storica della libertà, dell’amore e della lotta per gli ordinamenti civili, per l’indipendenza del pensiero, della scienza, della politica, da qualsivoglia tirannide. Dieci anni prima dei sonetti settembrini, in effetti, un tale amore s’era incuneato nella rievocazione del secondo centenario di Ludovico Antonio Muratori: Carducci, allora, sentiva tanto più crescere Carducci “conservatore sovversivo”, M. Veglia l’amore per la Francia “quanto più i miei compatrioti” – scriveva – “affèttano”, dopo il 1870, “di spregiarla o d’inventariarne le immoralità le vanità le futilità, le leggerezze le frivolezze le sciocchezze, i disonori i furori e gli errori”. Così, egli si abbandonava a un inno di lode per la terra vicina, per la civiltà che essa aveva insegnato ai popoli tutti della terra:
O letteratura di Voltaire e di Rosseau, di Diderot e di Condorcet, liberatrice del genere umano, rivoluzionatrice del mondo, sciagurato chi ti rinnega, infelice chi ti sconosce! Solo la infame reazione del quindici, e la sua critica abbietta che s’inginocchiava al medio evo e all’inquisizione, solo quelle due streghe nefande […] dovevano oltraggiarti, o amazzone bella! E tu ne vendicasti producendo tutt’insieme Vittore Hugo, la Sand, Michelet, Sainte-Beuve, Proudhon. Dove è oggi un poeta che arrivi al ginocchio del vecchio Vittore? o quanti ne ha dati l’Europa, dopo il quindici, che gli giunga no alla spalla? E dove ha la Germania un prosatore uomo che valga la prosatrice francese?
E dove ha l’Europa un’altra fantasia storica come quella del Michelet, e una critica artistica e psicologica come quella del Sainte-Beuve, e un’analisi di genio, anche dove polemicamente paradossale, come quella del Proudhon?A monte del Çaira, dieci anni dopo, i lettori più avveduti, in ciò seguendo le dichiarazioni del Carducci, avrebbero infatti puntualmente riscontrato passi, squarci, intere sequenze dei lavori storici di Carlyle e di Michelet. Nella prosa polemica di autodifesa dal chiacchiericcio dei critici malevoli lo stesso poeta non avrebbe esitato ad allegare le voci fraterne del grande storico francese e di quello inglese (amico e ammiratore, in Inghilterra, di Giuseppe Mazzini: sua moglie Jane disse, dell’Apostolo dell’Unità, che non aveva mai conosciuto nessuno che si fosse volontariamente fatto, come lui, “carne tritata per l’universo”).
Il lettore di oggi, dunque, prima di sfogliare i sonetti settembrini, prima di risillabarne la fremente, tirtaica passione e di riviverne il furore libertario, non può dimenticare che Carducci, per la morte di Garibaldi, si rammaricava della pochezza degli italiani, i quali, tutti presi da meschine contese, non erano più in grado ormai, nel 1882, di cogliere il “gran fondamento d’idealità” necessario a comprendere, nella sua eroica pienezza, l’avventura del Generale. Allo stesso modo, di fronte aimestatori, ai trafficanti, ai nani e ai coboldi, non poteva che elogiare in Garibaldi il politico “senza ostentazione di furberie” (già avulso nei fatti, come sempre in idea, dalle occulte manovre che portavano alla definizione della Triplice, già dimenticato e rinnegato nell’assassinio del giovane Oberdan…). Dunque, dunque… Ça ira. Il ritornello della Rivoluzione diveniva per Carducci la chiave per riaffermare la propria serena, franca, battagliera fedeltà a un orizzonte libertario che non poteva in alcun modo essere rinnegato. Un orizzonte, si dica subito, che era quello della Gironda, del riformismo moderato e non estremo di chi sapeva “innovare conservando”, con un occhio al passato della tradizione e uno fisso, noi diremmo, all’Oriente, al futuro (come Petrarca, Carducci fu simul ante retroque prospiciens). Per il professor Carducci, impiegato del regno, poeta e storico, la fedeltà alla Gironda era una scelta precisa: “Bastonatemi un po’, se potete, lettori maligni. Io séguito”. E senza veli d’ambiguità così confessava:
Vorrei (e questo con implacabile e implacata ambizione) essere il signor tal de’ tali asciutto asciutto, senza epiteti né aggettivi e co ’l men possibile di relativi. Non potendo concedermi tanto, mi contento a esser professore di lettere italiane al servizio dello Stato, fin che piaccia alla maggioranza di tollerarmi: quando non più, l’onorevole Bonghi e i suoi amici sanno che io non fo richiami né querele, né gàgnolo né abbaio, né lecco le mani né mordo le zampe per di dietro… Chi, ora, riprenda a mano l’edizione delle Rime nuove del 1887, dove l’intero libro settimo è costituito dal Ça ira, non può che avvedersi di come l’indispensabile introduzione a quel mondo sia data, in sede contigua, dal libro VI della medesima raccolta, dove figurano alcune tra le più note e celebrate liriche carducciane di rievocazione storica. Non tutte, s’intende, precedono, rispetto all’83 deidodici sonetti, la “rappresentazione epica” delle gesta del 1792, ma, rispetto al 1887 di Rime nuove, tutte giovano invece a entrare informati, avveduti, in quei quadri storici martellanti di rivoluzioni e gagliardamente virati al rosso (rosso di sangue, s’intende, non di bandiere politiche…). Il dialogo fra I due titani, a titolo d’esempio, che risale al 1873 e quindi alla gestazione e alla stesura delle prime “barbare”, inscena un colloquio, dall’uno all’altro polo della terra, di Prometeo e di Atlante. Incalzante, il dialogo tra i “fratelli” (figli entrambi di Giàpeto e della ninfa Asia) deprecava con insistente ricorrenza la tirannide di Giove, del Diotiranno dei chierici
(Maledetto sia Giove,
Gio-ve sia maledetto,
Il re d’Olimpo stolto,
Il vigliacco del cielo,
Il ghiottone celeste):
“Te il forte ad una voce ed il sapiente
Maledicono, o Giove”,
chiosava infine il Carducci. Dalla rievocazione della Leggenda di Teodorico, comepure dal Comune rustico (che è dell’85, e M. Vegliaquindi riprende ed echeggia strutture di pensiero presenti anche nella prosa, più che nei sonetti, del Ça ira) sentiamo affiorare “il sereno e pieno e soddisfatto possesso della vita terrestre”, come scrisse Alberto Mario, sposato alla “contentezza che deriva dal possesso della chiave de’ suoi secreti e delle sue leggi”, con una “lietezza scientifica” che innerva di sé la coscienza di una “umanità nuova”. Nel Comune rustico, non senza l’eco di canti medievali (Fortis iuventus, virtus audax bellica, / Vestra per muros audiantur carmina), dei “rustica corda” di Properzio, del Virgilio di Evandro e Pallante, ritorna poi il senso quiritario di una morale storica e stoica, frugale, magnanima, evocata già nel furore giambico dei versi indirizzati agli amici della Valle Tiberina
(E pensai quando i tuoi clivi Tarconte /
Coronato pontefice salì, /
E, fermo l’occhio nero a l’orizzonte, /
Di leggi e d’armi il popol suo partì).
Coloro insomma che si adornavano di tali virtù, aggiungeva scherzando Carducci, rifuggivano le “sbornie acquatiche” e si nutrivano, al pari dei grandi poeti, di “bistecche crude”. Di là dalla celia, va da sé che il Carducci girondino profilava al lettore un’umanità ferrigna: E voi, se l’unno o se lo slavo invade, Eccovi, o figli, l’aste, ecco le spade, Morrete per la nostra libertà. Eguale discorso si potrebbe fare per Su i campi di Marengo, dove la resurrezione pasquale è resurrezione di libertà dallo straniero
(Diman Cristo risorge. De la romana prole /
Quanta novella gloria vedrai dimani, o sole!),
per Faida di Comune (la prima del 1872, la seconda scritta e corretta fra il 1875 e l’87), per la Ninna nanna di Carlo V (dove, come già nell’Inno a Satana, il “nuovo tempo che libero nasce” ha il carattere protestante di Lutero, il quale “pasce” il moto che porterà all’Illuminismo e alla Rivoluzione di “midolla di pensier”, e dove Carducci manifesta il proprio disdegno per un Italia capace di partorire la Triplice), infine per l’omaggio a Vittore Hugo, scritto nel febbraio del 1881, chiuso con inno ben degno della Gironda: “Canta a la nuova prole, o vegliardo divino,
Il carme secolare del popolo latino;
Canta al mondo aspettante, Giustizia e Libertà”.
A questo punto, a me pare, s’intende meglio il polittico dei sonetti settembrini, quel loro far scaturire dalla terra, dai segni della natura, quindi da una morale naturale che non accetta di essere conculcata, la rivolta
(Stride l’aratro in solchi aspri: la terra /
Fuma: l’aria oscurata è di montanti /
Fantasmi che cercano la guerra: I 12-14).
Ancora dalla terra, anzi, per dirla nuovamente con Alberto Mario, dalla “rivendicazione della terra sul cielo”, simbolo della rivendicazione di libertà del popolo sulla tirannide dei re e dei pontefici, nascono, come Prometeo e Atlante, gli eroi feriali, indomiti, tetragoni, della Rivoluzione,i giovani ardenti che s’immolavano per la libertà con la gioia nuziale di consacrarsi a un’idea superiore al tornaconto personale (II 1-6, 12-14):
Son de la terra faticosa i figli
Che armati salgon le ideali cime,
Gli azzurri cavalier bianchi e vermigli
Che dal suolo plebeo la Patria esprime.
E tu, Kleber, da gli arruffati cigli,
Leon ruggente ne linee prime. […]
E Marceau che a la morte radiosa
Puro i suoi ventisette anni abbandona
Come a le braccia d’arridente sposa.
I fatti della Rivoluzione vengono evocati di scorcio, attraverso episodi e figure di potente incisiva efficacia. Il ritmo corale dei sonetti è incalzante (IV 12-14):
Grande in ciel l’ora del periglio passa,
Batte con l’ala a stormo le campane.
O popolo di Francia, aiuta, aiuta.
Non meno delle “ree Tuglierì di Caterina”, del proclama di Brunswick del 25 luglio 1792, causato e come insufflato da una monarchia fedele ai nemici della Patria
(Brunswick appressa, e in fronte a le sue schiere
La forca; e ad impiccar questa ribelle
Genìa di Francia ci vuol corda assai:
III 12-14),
i fatti salienti di quella stagione d’eroismo e di sangue, di utopia e di barbarie omicida, vengono ricordati dal poeta attraverso i nomi dei principali protagonisti: Danton, Marat, Robespierre…. Luoghi e personaggi, non di rado in quella forma necessariamente ellittica che è propria della rievocazione poetica, vengono così rappresentati con una pregnanza, con un’evidenza descrittiva e memoriale che ne accresce il rilievo. Il tradimento di Verdun (Udite, udite, o cittadini. IeriVerdun a l’inimico aprì le porte: V 1-2)il disprezzo per le sue fanciulle che ballarono con gli invasori, costarono al Carducci polemiche cui egli rispose con baldanzosa e irriverente fermezza: Per le donne che abbracciano e salutano i nemici della patria io non ho tenerezze. A coteste puttanelle di Verdun la mannaia credo anch’io che fu troppo, ma oh che santo scoparle a dorso d’asino per le strade! Così pensai fin da ragazzo, quando vidi le “sfacciate donne fiorentine” – ed erano gran dame e titolate – far festa al maresciallo Radetzky. Così, ancora, il delirio di sangue viene inteso da Carducci come tragica e tardiva conseguenza di antichi orrori, come la strage di San Bartolomeo, come, prima ancora, il genocidio degli Albigesi e l’eccidio dei Templari. I fatti non sono colti nella loro nudità, ma ripensati e rievocati come in un sogno, con l’evidenza allucinata e straniante delle visioni profetiche (VI 12-14):
Marat vede ne l’aria oscure torme
D’uomini con pugnali erti passando,
E piove sangue donde son passati.
E ancora (VII 1- 4):
Una bieca druidica visione
Su gli spiriti cala e gli tormenta:
Da le torri papali d’Avignone
Turbine di furor torbido venta.
Il passato remoto della cattività avignonese s’intreccia alle stragi dell’autunno del 1791, quando la cittadina fu annessa alla Francia (nel settembre) e, in ottobre, il 16 e il 17, i controrivoluzionari compirono delitti efferati. Dalla profondità dei secoli, tra le spire della “druidica visione”, ascende una torva ebrietà di violenza (VII 5-8):
O passïon degli Albigesi, o lenta
De gli Ugonotti nobil passione,
Il vostro sangue bulica e fermenta
E i cuori inebria di perdizione.
Si scandalizzarono alcuni per l’icastica scena dello strazio del corpo della principessa di Lamballe (VIII 5-8):
E giacque, tra i capelli aurei fluenti,
Ignudo corpo in mezzo de la via;
E un parrucchier le membra anco tepenti
Con sanguinose mani allarga e spia.
Per questo episodio, come per altre scene truci rappresentate nei sonetti, Carducci si dovette difendere da censure che non intendevano affatto la pienezza composita del polittico francese: l’inno alla libertà, alla Rivoluzione, la condanna della ferocia, ma insieme la serenità nel distinguere, anche nella ferocia, ciò che discendeva da una degenerazione della giusta causa da ciò che discendeva, di contro, dalla cupa, torva violenza dei tiranni.
Non possiamo, in conclusione, fermarci a lungo sulla prosa di autodifesa che Carducci scrisse per la propria corona di sonetti. Intendeva bene, del resto, che le censure a lui rivolte nascevano da un diffondersi di mediocrità, che non tollerava l’ingombro, la ‘scomodità’ dei grandi ideali: Intanto positivismo e americanismo lavorano di buzzo buono a macinare tutto il mondo de’ vecchi iddei, tutto l’ideale e tutto il fatastico. Nulla ha da rimanere in piedi, se non il vero materiale, il vero che si tocca, che si brancica, che si compra e vende, che si ammazza.
Questa rivendicazione di un’idealità da difendere, di un progetto di società libera da custodire e promuovere, da impiantare e diffondere in un’Italia che andava facendosi scettica e cinica, furono senz’altro alcune fra le cause del rientro operoso di Carducci in Massoneria.
L’uomo fedele alla Gironda non poteva non assumere un posto di battaglia. Il riformismo illuminato di Lemmi, come poi di Nathan, vide infatti in Carducci uno strenuo sostenitore, mai dimentico che, per lavorare al bene e al progresso dell’umanità, bisogna scendere fra gli uomini, rimboccarsi le maniche, operare fra loro e con loro. L’animo era, come sempre, pronto al cimento: Tutte le mattine io mi sveglio con una maledetta voglia di fare ai pugni: […] il primo sentimento onde mi si annunzia la vita sana è il bisogno della lotta per l’esistenza. Come “uomo di libertà” – così egli definiva Garibaldi – non dimenticava inoltre che i fatti di Francia avevano rivelato una stretta parentela con il cristianesimo libertario, popolare, comunale, anticlericale, quello dei Comuni, di Arnaldo da Brescia, di Dante, e, in anni vicini, di Ugo Bassi. I versi che spaventavano l’onorevole Bonghi nell’inno francese
(Celui qui s’élève on l’abaissera
Et qui s’abaisse on l’élèvera)
venivano subito ricondotti, dal poeta, a Luca 14, 2, e al “sociale rinnovamento predicato da Gesù”, più avanti definito “internazionalista giustiziato”:
Oh no, questi due versi sono il verbo della missione di Gesù: Chiunque s’innalza sarà abbassato, e chi s’abbassa sarà innalzato. Che se vogliamo discutere della civiltà di quella missione, discutiamo pure, ma altrove; per ora stia fermo che la rivoluzione francese fu un moto storico altamente cristiano, che la canaglia sanculotta strillando il ça ira cantava le massime del Nazareno, il quale afferma – va essere venuto in questo mondo a portare non la pace ma la spada.
Su questo fondamento, su questa sacralità laica e libera, tutta massonica, Carducci evocava il pregio, il lascito della Rivoluzione e dell’esperienza napoleonica: pur con tutti gli errori compiuti, pur con le storture che la storia ha registrato, i francesi infatti “ci spazzolarono, poniamo con la granata, dalla polvere delle anticamere e dal tanfo di sagrestia: essi ci armarono, ci disciplinarono…”. Contro la “inoculazione italica del comunismo parigino”, insomma contro il materialismo storico che per il poeta infestava il pensiero italiano sullo scorcio del XIX secolo, Carducci auspicava, da uomo del Risorgimento, il “sentimento fondamentale d’una esistenza vigorosa e tranquilla”, che, in un’Italia dove “mancadel tutto l’idealità”, si doveva ripristinare unicamente con “la religione delle tradizioni patrie e la serena e non timida con scienza della missione propria nella storia e nella civiltà”. Di qui, per la sua parte, una vita integralmente massonica, lontana da “affocamenti di piccole passioni, urti di piccoli interessi, barbagli di piccoli vantaggi”; di qui l’ascesa alla Camera Alta, la tessitura di un discorso pacificatore sul Risorgimento, affidato non meno a Rime e ritmi che alle Letture del Risorgimento italiano. In un paese di nani panciuti e protervi il progetto massonico di Carducci restava invariato: L’idealità di una nazione, la religione cioè della patria, ha per fondamento, per focolare alimentatore, una o più realità: ciò sono una graduale trasformazione e ascensione delle classi inferiori verso il meglio; un ordinato e sano svolgimento delle forze economiche nelle classi mezzane; un’aristocrazia almeno del pensiero, della scienza, dell’arte, in una coltura superiore di genio altamente nazionale. Purtroppo, la domanda che Carducci si poneva è ancora la nostra: “Ora che fecero di questo e per questo i governanti italiani?”. Il problema da risolvere, il nemico da combattere, in nome della triade libertaria di Francia, era ed è tuttora quello di una “scuola senza pensieri”, di un “governo” e di una “politica senza idee”, di una “vita senza convinzioni”. Il polittico dei sonetti, come la prosa che li difende e accompagna, sono perciò uno dei più alti documenti della vita massonica di Giosue Carducci. Essere, come egli fu, un “conservatore sovversivo”, guardare cioè alla tradizione per scavare oscure e profonde prigioni al vizio, per operare coi lumi della Forza, della Saggezza, della Bellezza, significava restare fedeli a quel riformismo che si era inverato nella Gironda. Intorno a lui, ormai, Giosue non vedeva che scetticismo, che pochezza di idee. Una lunga fedeltà alla libertà tra gli eguali e tra i “fratelli”, del resto, si poteva pagare con la vita e, soprattutto, richiedeva il cimento di una milizia quotidiana. A quest’ultima, in effetti, strenuamente si votarono, se ripenso in chiusura alle lapidi che adornano l’ingresso nella nostra Università, già ricordate al principio di questa lettura, i giovani italiani morti dal 1794 al 1867. Degli ideali di Francia i primi a offrire testimonianza con la vita, a Bologna, furono Luigi Zamboni e Giovanni Battista De Rolandis. Il testo dell’epigrafe che si legge in via Zamboni 33 ricorda che essi trassero dalla tradizione italiana “l’amore operoso / per gli ordini liberi e civili / e la eroica virtù del sacrificio / per cui / primi assertori dei diritti e della libertà morirono vittime della tirannide pontificia. / 1795-1796 / Esempio e monito a chi studia / Ed a chi insegna”. Di quella Gironda, di quella rivoluzione che non abbatteva se non per edificare, Carducci fu testimone infaticabile, nell’aula di lezione, nell’opera letteraria, nella vita pubblica e privata. Così egli scriveva all’amico Alberto Mario in una pagina (Ritratto a tocchi), uscita prima sul “Don Chisciotte” di Bologna il 2 dicembre 1881, ripubblicata poi in Confessioni e battaglie del 1883, che appartiene quindi agli anni, al clima culturale del Ça ira. Con queste parole vorrei concludere Odi, Alberto Mario. Io ho ancora un ideale. Ed è quello di morire su la ghigliottina, con – dannato dal popolo vincitore. Il popolo, corrotto e accanato dai governi, pasciuto di frasi e aizzato al vento dai democratici, quando romperà la sbarra ci scannerà; cioè ci giudicherà. Ci giudicherà, perché noi vorremo ancora la libertà e la giustizia: due parole che son per divenire di cattiva fama: l’una sbatacchiata in faccia alla gente che non può usarne, perché ha fame e miseria e ignoranza: l’altra mascherante le mutazioni degl’interessi nelle classi dirigenti. Noi veramente non pensavamo così. Ma… ma allora sarà quello che sarà [quindi, ça ira…]. Alberto Mario, ti do ritrovo alla ghigliottina.
Ma vedi, né meno ci ghigliottineranno. C’impiccheranno, come servi feudali: ci lapideranno, come ebrei.
La Gironda è finita, per sempre finita. Eppure, Giosue Carducci continuò sino alla fine a conformare la propria esistenza al culto della libertà e della giustizia.
Tratto da “HIRRAM” 3008/3.