PREMIO NOBEL PER LA LETTERATURA- GIOSUE’ CARDUCCI


PREMIO NIBEKL PER LA LETTERATURA

Carducci il conservatore sovversivo

Giosue, la forma preferita dal poeta, Carducci è probabilmente lo scrittore più popolare dell’am­bito letterario italiano della seconda metà dell’ot­tocento e dell’intera epoca moderna. Fu il poeta dell’innovazione nella tradizione, interprete e in­quisitore della condizione umana e le sue opere dalle “Rime Nuove” alle “Odi Barbare” furono sempre improntate a una straordinaria purezza e solennità di stili, sulla scia degli antichi classici greci e latini, esattamente come farà anni dopo un altro massone premio nobel per la letteratura, Sal­vatore Quasimodo. Le sue opere subirono costan­temente giudizi contraddittori e controversi, per esempio le “Nuove poesie” furono duramente re­censite da Giuseppe Guerzoni, mentre Bernardino Zendrini e persino Ivan Turgenev osannarono “la sua prosa nervosa, tagliente, succosa, mobilis­sima, sapiente impasto di alta letteratura e di par­lata viva”. Il prof. Marco Rocchi dell’ Università di Urbino in un ottimo saggio, “Quel diavolo d’un Carducci”, ci ricorda in effetti che il poeta non fu un uomo semplice o un uomo per tutte le stagioni. Così in questo breve profilo più che disquisizioni sulle sue opere, sull’erudito inappuntabile, sul­l’insegnante carismatico, si son voluti cogliere al­cuni aspetti della sua vita giornaliera e della sua visione del mondo, la vita come “l’ombra di un sogno fuggente”, tendendo a tenere in non cale le tracce di un poeta ampolloso, austero, celebrativo: “io sacerdote de l’augusto vero, vate de l’avvenire” o “un poeta è un grande artiere”. In particolare il pregevole “laboratorio carducciano” del prof. Marco Veglia dell’Università di Bologna, anche at­traverso lo studio di una campionatura delle sue lettere, ha restituito “la coerenza di un intellet­tuale libero, di un “conservatore sovversivo”(com’egli amava definirsi) che, nel concetto di cul­tura quale fondamento dell’azione…” trovava la sua vera essenza. In occasione del primo centena­rio della morte di Carducci, Marco Veglia ha vo­luto dedicare una biografia a Carducci che si è rivelata una testimonianza assolutamente innova­tiva e di gran rilievo su questo scrittore. Dunque stringatezza ed essenzialità, come invocato dallo stesso Carducci, che amava ripetere “chi potendo esprimere un concetto in dieci parole ne usa do­dici, lo ritengo capace delle peggiori azioni”, e bando ai compromessi di ogni genere: “è pure un vil facchinaggio quello di dovere o volere andar d’accordo con molti”.

Il giovane ben pensante, ben leggente, beni studiante

Giosue Carducci nacque in Val di Castello nel1835, crescendo “selvatico” nella Maremma to­scana, figlio di Ildegonda Celli e di Michele, car­bonaro, liberale, medico condotto che curò col chinino il figliolo spesso ammalato. Il padre per lavoro si recò nel piccolissimo sperduto e deli­zioso paesello toscano di Bolgheri, che poi grazie a Carducci diverrà noto in tutto il mondo, attual­mente una frazione di Castagneto Carducci in pro­vincia di Livorno con poco più di cento abitanti e con un vino fra i più pregiati al mondo, la Sassi­caia, della tenuta san Guido (da lì principiò la pas­sione per il vino). Studiò dagli Scolopi a Firenze dove con altri amici, con Giuseppe Chiarini, Giu­seppe Targioni Tozzetti, Giuseppe Torquato Gar­gani, fondò la società degli Amici pedanti che intendeva promuovere la restaurazione del classi­cismo a scapito delle ondate romantiche. Fu poi a Firenze e alla Normale di Pisa dove si laureò in Lettere e filosofia. Insegnò prima nei licei, nel gin­nasio di San Miniato e al liceo Forteguerri di Pi­stoia, e dopo ebbe la cattedra di Letteratura italiana all’Università di Bologna che tenne fino al suo pensionamento nel 1904. Già l’esperienza a San Miniato con la sua prosa polemica e urticante ci restituisce il volto vero di un poeta con tutte le sue “appiccature”. Sposò una parente, Elvira Me­nicucci da cui ebbe un figlio Francesco che morì poco dopo la nascita e ancora la disgrazia della morte del piccolo Dante a tre anni, a cui dedicherà “Pianto antico”: “tendevi la pargoletta mano” alme lograno, un pianto antico doloroso e malinco­nico, una ninna nanna per cullare il figliolo dece­duto. Nel 1857 avvenne la fine dell’amato fratello Dante che era morto forse suicida dopo una lite col padre che un anno dopo morì per il terribile do­lore. Da allora cominciò a pubblicare con l’editore G. Barbera. Le parole pronunciate già nel 1856 dal Carducci relative ad una “società giovanile benpensante, ben leggente, beni studiante”, trove­ranno poi una eccezionale consonanza con gli ideali latomistici e con l’intero percorso della sua vita.

La cattedra di letteratura italiana all’Univer­sità di Bologna

Nel 1860 appena giunto a Bologna il 27 novembre di quell’anno, in un’aula gremita, fece una pro­lusione sulla letteratura nazionale e cominciò le sue lezioni spesso disertate, sino al giorno in cui si presentarono solo in tre: “la lezione di diritto commerciale mi toglie tutti i giovani”. Carducci amò molto Bologna che “surge nel chiaro inverno la fosca turrita Bologna e il colle di sopra bianco di neve ride”. Andò dapprima ad abitare nella lo­canda “Aquila nera” di via Calvinazzi, pensione “sobria, ma decorosa e accogliente” della famiglia Ghelli, poi abitò a via Brocca indosso 777 (dal1870 n. 20), e dopo in Strada Maggiore al n. 37 in una abitazione del celebre chirurgo Francesco Riz­zoli e infine nella palazzina delle Mure Mazzini invia del Piombo. L’università di Bologna gli affidò anche un compito prestigioso, quello di dirigere un comitato di storici e letterati per stabilire la data convenzionale della istituzione universitaria felsinea fissata da Carducci nel 1988.

La cattedra di “Eloquenza italiana” voluta dal mi­nistro della pubblica istruzione Terenzio Mamiani Della Rovere ricevuta presso l’Ateneo felsineo fu un’occasione straordinaria per Carducci che ebbe così modo in particolare di incardinarsi nell’am­bito risorgimentale con massoni mazziniani roma­gnoli per i quali bisognava assolutamente continuare sino alle annessioni di Venezia e di Roma. G.F. Pasini sostiene che per merito partico­lare del Carducci Bologna in quegli anni “diventa un centro di iniziative culturali dove l’amore perla poesia si unisce a quello per la ricerca erudita, e alla passione politica”. A Bologna inaugurò un formidabile sodalizio con l’editore Nicola Zani­chelli, giunto lì da Modena, sodalizio paragona­bile a quello di Benedetto Croce con Giovanni Laterza. Il figlio di Nicola, Cesare, fu uno dei pochi invitati alla cerimonia del nobel che si tenne a casa Carducci per le sue assai precarie condizioni di sa­lute. In un minuscolo spazio della libreria, ancora esistente e visitato, noto come “la saletta”, Car­ducci incontrava i colleghi, gli studiosi e gli amici, ospiti del calibro di Giovanni Pascoli, di Lorenzo Stecchetti, di Severino Ferrari, di Aurelio Saffi, di Marco Minghetti, di Gabriele D’Annunzio che andò a salutarlo nel 1901, facendo venire di con­tinuo squisite bottiglie di vino. Amò infatti il vino incondizionatamente – “nei calici il vin scintilla, sì come l’anima ne la pupilla” – esaltandolo come simbolo di un soprannaturale pagano e si racconta che, in un’occasione, dopo una bevuta fuori dal­l’ordinario venne sorretto e aiutato a tornare a casa da un domestico della famiglia Marcheselli, vicini di casa, un tal Domenico, che vedendolo barcol­lare con molto garbo lo sorresse e fu ripagato da una calda stretta di mano e da un “grazie bra­v’uomo”.

Come ricorda Antonio Saccà fu soprattutto nel pe­riodo bolognese che Carducci “accresce la nostra poesia di una musicalità larga, sonora, sonante, un empito di vigorosa cadenza” da un lato e dall’altro la sua severità di docente – una volta cacciò via un allievo che si era firmato prima col cognome e poi col nome – seppe stemperarsi giocando sinanco a carte con i suoi allievi. In 43 anni di insegnamento non ripeté mai la stessa lezione anche se alcune di queste lezioni non le ha mai sentite quasi nessuno tant’è che Carducci una volta scrisse: “mi sento come un istrione pagato che si chiama professore”. La sua aula era in via Zamboni 33, un’aula piccola e modesta, di recente restaurata, frequentata da pochi uditori, ma via via che la fama del poeta si ampliò l’auletta non fu più capace di ospitare tutti. Se individuava qualche estraneo al corso di studi  erano severe reprimende perché in quell’aula “si doveva andare solo per studiare e non in cerca di impressioni sullo studioso celebre”.

Il profondo respiro massonico di Giosue Car­ducci

Carducci agli inizi degli anni sessanta entrò in massoneria perché sentiva il bisogno di una casa, di un sito adatto alle sue esigenze “dove un rico­vero trovar potrai o de’ miei giovini lustri diletto, o mio carissimo tenne libretto?” e perché era un convinto assertore della teoria del dubbio e del­l’ascolto: “ai giudizi dei nemici vuol si avere sem­pre la debita osservanza”.

Sulla loggia bolognese della sua iniziazione sono state avanzate le ipotesi più svariate. C’è chi so­stiene che entrò nella “Concordia umanitaria” o nella loggia “Severa” e chi fu iniziato nella loggia “Galvani” – come indicato nella rivista Lux nel1925 allorquando un anziano massone bolognese, Salomone Sanguinetti, ricordava di aver intro­dotto lui stesso il Carducci nel tempio della loggia Galvani. Questa tesi è stata sostenuta dalla “Rivi­sta massonica” del 15 febbraio 1907, dalla rivista “Acacia”, dall’”Albo carducciano” redatto da Fu­magalli e Salveraglio, dal G. Oratore G. Albano, che ebbe l’incarico di redigere la commemora­zione ad opera del Goi. Romeo Monari sostiene che l’ode di respiro massonico “Dopo Aspro­monte” venne letta in una riunione di loggia dopo la sua affiliazione. E’ certo comunque che appar­tenne alla loggia “Felsinea” in base al ritrova­mento di una sua agenda del 1866: “Mi feci associare ai fr. e fui fatto maestro e segretario prov­visorio. Andai alla loggia Felsinea. Pagai d’entrata come maestro lire trenta e cinque in acconto”.

Nel 1867 scrisse una lettera di doglianze a nome della loggia “Felsinea”, che lo aveva visto fra i sette fratelli fondatori, che gli valse l’espulsione da parte del G.M. Lodovico Frapolli. La loggia in­ fatti da scozzese volle mutare il proprio rito in simbolico unendosi al Gran Consiglio di Milanoe il Goi agì di conseguenza. E’ stata ritrovata a quel tempo la firma di Carducci al diploma di maestro di Francesco Magni, poi ottimo rettore dell’Ateneo felsineo. Sinanco in questa fase fu sempre attivo e partecipe alla vicenda lato mistica come dimostra anche il carteggio fra il poeta e il G.M. Lemmi pubblicato nel 1991 a cura di Cri­stina Pipino. Ma poi Adriano Lemmi ed Ernesto Nathan lo convinsero a rientrare tant’è che il 20aprile 1886 venne affiliato a Roma alla loggia “Propaganda massonica”, dove nel 1888 rag­giunse il 33° grado del Rito scozzese antico e ac­cettato. In quello stesso anno fu fatto membro onorario della loggia “VIII Agosto” fondata da Augusto Dalmazzoni nella solenne inaugurazione avvenuta a Bologna nel palazzo del Podestà.

La “bontà dell’elemento”: Giovanni Pascoli

Di rilievo anche il rapporto fra Giovanni Pascoli e Carducci. Quando Pascoli, giovane studente uni­versitario socialista venne arrestato per aver par­tecipato ad una manifestazione politica, fu portato nel carcere bolognese di San Giovanni in monte dove entrò in una cupa e preoccupante depres­sione. Una sera nella sede felsinea della massone­ria, una guardia carceraria parlò di un giovane studente depresso e disperato, ritenuto prossimo a un gesto terribile, e Carducci presente chiese il nome di questo giovane: “ma Pascoli è uno dei miei allievi prediletti!”. Da poco infatti aveva messo con la matita blu un “molto bene” a un suo compito particolarmente gradito al poeta. E così nel giro di pochi giorni Pascoli venne scarcerato, e anni dopo, Carducci gli fece avere la sua cattedra di Letteratura italiana all’Università e una collo­cazione all’interno della loggia bolognese “Riz­zoli” subito dopo la laurea del Pascoli nel 1882.In un verbale del 23 settembre 1882 della loggia “Rizzoli” si legge che “il profano Giovanni Pascoli,  professore, desidera farsi iniziare massone, ma do­vendo egli partire subito per il luogo del suo im­piego occorre in vista della bontà dell’elemento che la loggia soprassieda alle formalità d’uso”. Alla “Rizzoli” vi era come M.V. il suo avvocato di­fensore di un tempo Barbanti Bròdano e nel mi­lieu massonico lo stato maggiore della democrazia bolognese da Costa a Ceneri, da Regnoli a Filo­panti, da Saffi a Carducci, tutti accumunati da un sogno di fratellanza universale che, come ricorda Fabio Roversi Monaco, venne interrotto dalle “trincee della prima grande guerra”.

La chiesa di Polenta e la cacciata dell’asperso­rio

Come ricorda Marco Cuzzi la società “Dante Ali­ghieri” fondata nel 1889 che ebbe uno spiccato sentimento irredentista vide fra gli altri il cospi­cuo sostegno anche del Carducci insieme a Chia­rini, Saffi, Barzilai, Guerrazzi e Menotti Garibaldi fu portato nel carcere bolognese di San Giovanni in monte dove entrò in una cupa e preoccupante depres­sione. Una sera nella sede felsinea della massone­ria, una guardia carceraria parlò di un giovane studente depresso e disperato, ritenuto prossimo a un gesto terribile, e Carducci presente chiese il nome di questo giovane: “ma Pascoli è uno dei miei allievi prediletti!”. Da poco infatti aveva messo con la matita blu un “molto bene” a un suo compito particolarmente gradito al poeta. E così nel giro di pochi giorni Pascoli venne scarcerato, e anni dopo, Carducci gli fece avere la sua cattedra di Letteratura italiana all’Università e una collo­cazione all’interno della loggia bolognese “Riz­zoli” subito dopo la laurea del Pascoli nel 1882.In un verbale del 23 settembre 1882 della loggia “Rizzoli” si legge che “il profano Giovanni Pascoli,  professore, desidera farsi iniziare massone, ma do­vendo egli partire subito per il luogo del suo im­piego occorre in vista della bontà dell’elemento che la loggia soprassieda alle formalità d’uso”. Alla “Rizzoli” vi era come M.V. il suo avvocato di­fensore di un tempo Barbanti Bròdano e nel mi­lieu massonico lo stato maggiore della democrazia bolognese da Costa a Ceneri, da Regnoli a Filo­panti, da Saffi a Carducci, tutti accumunati da un sogno di fratellanza universale che, come ricorda Fabio Roversi Monaco, venne interrotto dalle “trincee della prima grande guerra”.

La chiesa di Polenta e la cacciata dell’asperso­rio

Come ricorda Marco Cuzzi la società “Dante Ali­ghieri” fondata nel 1889 che ebbe uno spiccato sentimento irredentista vide fra gli altri il cospi­cuo sostegno anche del Carducci insieme a Chia­rini, Saffi, Barzilai, Guerrazzi e Menotti Garibaldi.

Il 30 settembre 1894 Carducci parlò a San Marino in occasione della inaugurazione del nuovo Pa­lazzo Pubblico con una splendida orazione sulla “libertà perpetua”, mentre tre anni dopo, allor­quando la contessa Pasolini lo condusse in visita alla chiesa di San Donato in Polenta nei pressi di Bertinoro, scrisse la celebre “La chiesa di Polenta ”che termina con una commossa preghiera alla Ma­donna a cui Carducci fu sempre devoto: “Ave Maria, quando su l’aure corre l’umil saluto, i pic­cioli mortali scoprono il capo e curvano la fronte”. In questa circostanza Carducci fu pervaso da un forte misticismo facendo cadere il suo tradizionale anticlericalismo e sembrò che volesse farsi promo­tore di una sorta di riconciliazione con la chiesa soprattutto per sostenere gli interessi dell’istitu­zione monarchica. Il suo furore anticlericale con i suoi eccessi ben noti dei tempi giovanili era ormai al tramonto, l’”Inno a Satana”, “salute o Satana o ribellione”, esempio del più viscerale e veemente anticlericalismo, anche se certo lo sberleffo non mancò mai: “Via l’aspersorio, prete e il tuo metro”. Non gli importa più dei preti che sono “più vecchi de’ lor vecchi dei” e dopo aver maledetto il papa tempo prima, “oggi col papa mi concilierei”.

Carducci e i suoi molteplici amori

Di un certo rilievo nella vita di Carducci il rap­porto speciale con la regina Margherita di Savoia, rapporto fatto di ammirazione reciproca e di forte attrazione della quale Carducci scrisse che “si muove e cammina musicalmente con certe pause wagneriane” considerandola come un’icona per un nuovo inizio della storia d’Italia. Il 21 novem­bre 1890 la regina donò un suo ritratto al poeta ac­compagnato da una dedica: “in segno della grande ammirazione che sento per il poeta che, unendo  in sommo grado ne’ suoi versi il senso d’italianità gentile e di ferrea latinità, seppe fare della sua poesia la più alta espressione dell’Italia risorta”. La regina venne tradita dal re per tutta la vita con la contessa Eugenia Bolognini Litta Visconti, detta “Litta” o “la bolognina”, moglie di Giulio Litta Vi­sconti che a conoscenza della tresca utilizzava la moglie per condurre in porto i suoi affari commer­ciali. In occasione dell’uccisione del marito assas­sinato a Monza dall’anarchico Gaetano Bresci, la regina ammise la “bolognina” alla veglia funebre anche se qualche anno prima le aveva sparato pro­babilmente due colpi di pistola senza buon esito mentre la Litta si dileguava in una carrozza.

Carducci ebbe molti amori, con Dafne Gargioli, Adele Bergamini, Silvia Pasolini, Maria Anto­nietta Torriani, Anna Maria Mozzoni, la scrittrice Annie Vivanti, Carolina Cristofori Piva, la Lidia delle “Odi barbare”, moglie di un alto ufficiale “Lidia su il placido fiume e il tenero amore, al sole occiduo naviga”. In una occasione Carducci volle stare con Lidia sino ad una partenza. “Già il mo­stro, conscio di sua metallica anima, sbuffa, crolla, ansa, i fiammei occhi sbarra; immane pel buio gitta il fischio che sfida lo spazio” – il poeta accom­pagnò alla stazione la donna amata, in una mat­tina d’autunno, sotto la pioggia, fra un crepitio difreni e il rumore secco degli sportelli sbattuti del treno, mentre il mostro, il treno, il ladro di affetti, gli rapisce il volto di Lidia che lo saluta con tra­sporto, con un pallido rossore, e lui, il poeta, che piano piano, con accurata lentezza ritorna a casa, dove non si ha voglia di tornare, fra la nebbia con cui vorrebbe confondersi, barcollando come un ubriaco, avendo ormai smarrito il senso della sua vita e della sua persona, immerso in un tedio infi­nito, in un dolore acuto, lancinante, che prende forte il petto e lo squassa senza remissione: ”Vo­glio crogiolarmi in questa mia dolorosa stanchezza che mi pare debba essere eterna”.

Quando al Nobel Giosue Carducci “batté”Leone Tolstoj

Nel 1906 Carducci vinse il premio nobel per la let­teratura nello stesso anno in cui un altro italiano, massone, l’istologo Camillo Golgi, di cui si è oc­cupato da par suo Claudio Bonvecchio, vinceva il premio nobel per la medicina. Il nobel per la let­teratura è stato assegnato cinque volte ad italiani: Grazia Deledda nel 1926, Luigi Pirandello nel1934, Salvatore Quasimodo nel 1959, Eugenio Montale nel 1975 e Dario Fo nel 1997. Fra i cin­que uomini vincitori due massoni, Carducci e Quasimodo, e la figura di Pirandello di cui si parla nell’introduzione. Una vittoria straordinaria per Carducci dato che gli altri candidati erano del ca­libro di Leone Tolstoj. Il barone De Bildt, membro dell’Accademia di Stoccolma, prima nel 1904 e poi nel 1906, aveva proposto la candidatura di Car­ducci e a lui si unirono il conte Ugo Balzani, pre­sidente della società romana di storia patria e il prof. Jhoann Vising, rettore della scuola superiore di Gottemburg. La motivazione del premio reci­tava: “non solo in riconoscimento dei suoi pro­fondi insegnamenti e ricerche critiche, ma su tutto un tributo all’energia creativa, alla purezza dello stile e alla forza lirica che caratterizza il suo capo­lavoro di poetica”. Il nobel, caso più unico che raro, gli venne consegnato a Bologna date le sue precarie condizioni di salute, era costretto in car­rozzella, dall’ambasciatore di Svezia. La sera del10 dicembre, il barone De Bildt, passato prima da Londra e poi da Roma, venne prelevato dall’Hotel Brun di Bologna dal marchese Tanari prosindaco che lo condusse a casa Carducci dove lo attende­vano il fratello Valfredo, le figlie Beatrice, Laura, Libertà, i generi Masi e Guaccarini, i nipoti, Vit­torio Puntoni, il prefetto di Bologna, il senatore Pier Desiderio Pasolini con la moglie la contessa Silvia, il marchese Nerio Malvezzi e poche altre persone. La cerimonia fu molto semplice ma par­ticolarmente sentita. Il barone consegnò a Car­ducci un telegramma del re: “Felicitez de ma part Monsieur Giosue Carducci du prix Nobel qu’il asi bien merité”. Carducci ringraziò il popolo sve­dese: “nobile nei pensieri e negli atti”. In quella occasione il barone disse: “la libertà del nostro pensiero non si conturba sotto le volte gotiche ed è perciò che abbiamo sentito che possiamo, senza venire meno alla nostra fede, stendere le mani irriverente omaggio verso di Voi. La severità morale delle vostre liriche, la candida purezza nella quale sorge il vostro canto verso le alte cime, tutta l’au­stera semplicità della vostra vita sono pregi eleva­tissimi, davanti ai quali ci inchiniamo tutti, a qualunque religione o partito a cui apparteniamo. Sono doni di Dio, che sotto qualunque forma ap­parisca, è sempre lo stesso e da lui imploriamo che continui a scendere sul vostro venerando capo la santa benedizione che si chiama amore”. In quella  occasione non fu consegnata la medaglia che in­vece venne data al ministro d’Italia a Stoccolma poi recapitata al Carducci tre giorni dopo da un funzionario della Banca Commerciale. Il consiglio comunale di Bologna inviò al poeta il seguente messaggio: “come la madre affettuosa si gloria del­l’omaggio al suo figlio insigne, Bologna che è vo­stra madre adottiva è superba di voi”.


Si spense due mesi dopo, la notte fra il 15 e il 16febbraio 1907 per un attacco fatale di broncopol­monite. I funerali solenni registrarono una enorme partecipazione popolare e i suoi studenti e i suoi fratelli massoni vegliarono la salma rive­stita delle insegne massoniche. Ricordato anche da numerose logge a lui intitolate in Italia come la n. 103 e la “Ça ira” a Bologna (sonetti carduc­ciani sulla rivoluzione francese), originariamente loggia democratica composta prevalentemente da artigiani, come la 752 a Vibo Valentia, come la n.813 a Roma o la n. 824 a Follonica. Riposa alla certosa di Bologna accanto alla madre, alla moglie, ai figli e vicino alla sua tomba monumentale vi sono quelle di Enrico Panzacchi e il sepolcro di Severino Ferrari, poeta felsineo di “gentile e uma­nissimo cuore”.


TRATTO DA MASSOCICAmente n. 21

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