di Bent Parodi
Giornalista
Nella storia delle religioni l’idea della lingua sacra, lungi dal consistere in un unicum, rappresenta piuttosto un tema ricorrente nell’inesauribile creatività dello spirito (definizione cara a Mircea Eliade); almeno il cinese e il sanscrito, nell’Est asiatico, l’egiziano, l’ebraico e l’arabo classico a Ovest hanno dichiaratamente aspirato a questo ruolo. Un esempio recente: ancor oggi i musulmani teorizzano la “sterilità” del Corano, quando tradotto in una lingua diversa da quella di Maometto: solo nell’idioma originale esso ha efficacia assoluta.
E si tratta solo di un paradigma che altri potrebbero citarsi a mente. Nel Vicino Oriente antico le popolazioni del Nilo definirono la propria scrittura – i geroglifici – come medw nether, “parole divine”; gli Israeliti ponevano l’accento sul concetto di dabar, “la parola”, o di dibur eli, “parole di Dio”, e consideravano il proprio alfabeto, composto di 22 lettere, come espressione più diretta della “voce creatrice di Dio”. La Torah, “la legge”, “la dottrina” (corrispettivo della Maat egizia e del dharma indù) corrispondeva all’aspetto esteriore, la Cabala a quello interiore del giudaismo universale.
La “ricezione” o “trasmissione” (tale è il significato etimologico della parola Qabalah) è, propriamente parlando, l’esoterismo di Israele, una summa tale da farne la forma più compiuta della tradizione misterica occidentale. Due i testi fondamentali: il Sefer Yesirah (II-III secolo d.C.) il “Libro della formazione” e lo Zohar ( XIII sec.), il “Libro dello splendore”. Il primo di essi consta di non più di 2000 parole; non è di semplice traduzione, vi è spiegata in dettaglio una complessa teoria del linguaggio sulla quale si affannarono con interpretazioni sempre più raffinate via via esegeti di grande valore (basti qui ricordare Gitaquila, Avraham Boulafia, Isacco il cieco). In epoca moderna ricordiamo Faibre de Olivet (La lingua ebraica restituita) e gli studi fecondi di Leo Schaya (L’uomo e l’Assoluto secondo la C a b a l a) e, più ancora, l’opera sterminata di Gershom Scholem, che, oltre alla monumentale Cabala e
al problema dell’ebraico considerato idioma sacro, dedicò un aureo volumetto, pubblicato tre anni fa da Adelphi in prima traduzione italiana: Il Nome di Dio e la teoria cabalistica del linguaggio.
In estrema sintesi, l’idea della Cabala è che la lingua dell’Antico Testamento discenda da quella “paradisiaca”, sostanzialmente identica al “vocabolario creatore” di Dio. La “parola perduta” o “smarrita”, di cui parlano tante tradizioni, sarebbe da identificarsi nel sacro e ineffabile tetragramma israelitico YHVH, impropriamente reso ora come Geova, ora come Yahveh. Il nome di Dio, talora contratto, in Yh ( Yaho), bisillabo oggetto di svariate elucubrazioni magico-religiose nel tardo mondo antico è traducibile sia in “Colui che fu” che “Colui che sarà” (l’idea feconda della presenzialità eterna).
Le quattro lettere sacre per eccellenza costituiscono il medium creativo per eccellenza di Dio; più in generale la Cabala – e in particolare il Sefer Yesirah – affermano che la Realtà universale è stata modellata sullo schema dei dieci numeri/lettere dell’Albero sephirotico e delle 231 combinazioni possibili delle 22 lettere dell’alfabeto ebraico. Ma Dabar è pensiero all’interno e parola all’esterno, è visibile e/o udibile al contempo secondo l’equazione luce-suono, che identifica Fiat lux col big bang, una intercambiabilità ontologica sulla quale torneremo più oltre. Per ora restiamo nella riflessione cabalistica. Ogni lettera del sacro alfabeto ebraico è un tassello del grandioso mosaico cosmogonico, l’esempio più illuminante che conosciamo di teologia per Logos.
Citiamo da Gershom Scholem (op. cit.): Il Nome di Dio è il Nome essenziale, che costituisce l’origine di tutte le lingue. Ogni altro nome con cui Dio può essere chiamato o invocato è connesso a una determinata attività, come mostra l’etimologia dei nomi biblici: solo quest’unico Nome non si riferisce ad alcuna attività. Per i cabalisti esso non ha un “senso” nell’accezione comune, non ha un significato concreto.
Il fatto che il Nome di Dio non abbia un significato, indica la sua posizione al centro della rivelazione, che su di esso è fondata. Dietro ogni rivelazione di senso nel linguaggio e anche come hanno visto i cabalisti, nella Torah, vi è un elemento che eccede il senso e che, solo, lo rende possibile, un elemento che, senza avere senso, conferisce senso a ogni altra cosa. La parola di Dio, che ci parla dalla creazione e dalla rivelazione, è infinitamente interpretabile e si riflette nel nostro linguaggio. I raggi o i suoni che noi captiamo di essa non sono tanto comunicazioni quanto piuttosto appelli. A possedere significato, senso e forma non è la parola stessa, ma la tradizione della parola, il suo mediarsi e riflettersi nel tempo. Questa tradizione, che ha la sua propria dialettica, può anche trasformarsi e ridursi a un lieve, impercettibile sussurro, e possono esservi epoche, come la nostra, nelle quali niente può essere più tramandato, e la tradizione ammutolisce.
La grande crisi del linguaggio che stiamo vivendo consiste allora nel fatto che anche l’ultimo lembo di quel mistero, il mistero che nella lingua aveva un tempo dimora, ci risulta inafferrabile. I cabalisti ritenevano che la lingua potesse essere parlata in virtù del Nome che è presente in essa. Ma quale sarà la dignità di un linguaggio dal quale Dio si è ritirato? Questa è la domanda che si deve porre chi ancora crede di percepire nell’immanenza del mondo l’eco della parola della creazione, ormai scomparsa. È una domanda alla quale, nel nostro
tempo, possono forse rispondere soltanto i poeti, che non condividono la disperazione nutrita da quasi tutti i mistici nei confronti del linguaggio. Una cosa, però, li accomuna ai maestri della Q a b a l a h, anche quando ne rifiutano le formulazioni teologiche perché ancora troppo esplicite: la fede nel linguaggio come un assoluto sia pure dialetticamente scisso, la fede in quel mistero che nel linguaggio è divenuto udibile. Il mito veterotestamentario della Torre di Babele e della susseguente confusione delle lingue allude, come simbolo efficace, a un punto di rottura determinata dalla h y b r i s, l’arroganza
umana che provocherà la separazione fra piano celeste e piano terreno. A partire da quel momento i nomi perderanno gran parte del loro potere creativo pur mantenendo una solida filosofia sottostante.
La corrispondenza tra lettere (con un loro lavoro numerico) / suono / mito / parola / luce è peraltro dimostrabile sia a livello scientifico, con gli esiti più recenti della fisica subatomica, sia con la speculazione filosofica (basti pensare a Pitagora e alla sua armonia delle sfere) e quella dell’intuizione mitopoietica.
Un nome non è una semplice formula di riconoscimento, un segno di identificazione sociale. Nell’ideologia arcaica e tradizionale delle società preclassiche esso era molto di più, costituiva l’intima essenza, la cifra
riposta dell’individuo: era l’individuo stesso. Questa filosofia, estesa anche alle cose e agli animali, aveva una base dottrinaria, un’applicazione rigorosa che discendeva dalle antiche cosmogonie per Logos. Creare, infatti, nella lingua degli Egizi si diceva mt rn (ipotetica pronuncia: mat ren), “dare un nome”; si riteneva che una cosa cominciasse a esistere solo nel momento in cui le veniva attribuito un nome, certo non scelto a caso (esso doveva, infatti, corrispondere alle più segrete modalità dell’individuo). Perciò “io ti dò un nome”, significava ripetere – ritualmente – la cosmogonia già attuata dal demiurgo, stante che il particolarenon differisce dall’universale, quanto
a qualità, bensì solo per i suoi aspetti quantitativi (precorrimento dell’equazione microcosmo- macrocosmo). Il REN, in Egitto, aveva carattere magico; per questo si faceva ricorso in pubblico a nomi innocui, di comodo, tenendo ben nascosto il “vero nome”, a scanso di malintenzionati. Il faraone e gli altri dignitari avevano una lunga serie di nomi didascalici, ma quello essenziale doveva restare un segreto; conoscere gli dèi voleva dire conoscere i loro nomi e, quindi, condizionarli. Da qui formulari complessi e invocazioni rituali, comuni a tutto il mondo antico, che possono far sorridere chi non si rende conto dell’ideologia che vi era sottesa. Il nome autentico era un fatto di magia bianca, ma i rischi di incorrere in quella nera erano davvero notevoli. Da qui l’esigenza della segretezza più assoluta, perché conoscere il nome di una persona significava, appunto, averla alla propria mercé.
Il modello esemplare di questa concezione è costituito dal famoso racconto mitico di Iside, che riuscì con uno stratagemma a carpire il vero nome del dio supremo, Ra (Sole). Il vecchio nume era stato morso da un serpente e soffriva molto; così la furba dea si offrì di guarirlo con le sue arti magiche a condizione che egli le rivelasse il suo vero nome, il solo modo per poter intervenire. Distruggere un nome equivaleva a distruggere anche l’anima di chi l’aveva portato in vita; per questo, tante volte, si raschiava dalle iscrizioni funerarie il nome di un faraone di cui era stata decretata la damnatio memoriae (il caso più eclatante è quello del re Amenophis IV – Akhenaton adAmarna).
Non diversamente in Mesopotamia: Marduk mu-mu, cioè Marduk (il capo del pantheon accadico) “creò le cose dando a esse un nome”; così “nome” e “creare” si scrivono, si leggono, si pronunciano allo stesso modo. E due parole dallo stesso suono, o scritte in egual modo, non hanno per l’ideologia arcaica una semplice affinità formale, esse sono la stessa cosa (i calembours, i giochi verbali, erano una delle attività preferite da scribi e sacerdoti). Mu, dunque, sta per “nome” e “creazione”; il termine era stato ripreso dai Semiti accadici dal lessico
sacrale dei Sumeri. La “sillaba sacra” per eccellenza (quella che aveva dato vita al mondo) ebbe così un seguito, una continuità nel rito, quel rito che Malinowski ha definito correttamente la celebrazione narrativa
di una realtà primordiale. La ripetizione del Mu garantiva la conservazione degli esseri con le “formule di potenza”: il nome, insomma, era quello che gli indù chiamano tutt’ora mantra, la parola “forte”; la “sacra sillaba MU” rivela evidente affinità essenziale con il mistico AUM (OM), il suono creatore della religiosità indiana. L’accadico, come si sa, fu una lingua ufficiale e diplomatica usata per le relazioni internazionali tra le corti babilonesi ed egiziane, etc. Più tardi fu anche una delle lingue ufficiali dell’impero persiano e, per suo tramite, poté venire in contatto con i Greci della Ionia: chi può dire che
la “parola perduta” non possa essere stata all’origine del termine m y t h o s, anch’esso parola fondativa, per eccellenza? La radice di mythos è MU; essa, si afferma, è la stessa che si riscontra in mystérion mystikòs,
nel verbo m y é o, m y é o m a i, “serrare le labbra, chiuderle” (o anche “chiudere gli occhi”). Questo radicale passa al latino m u – t u s, “muto”; esso, perciò alluderebbe al “silenzio iniziatico”, che non è – però – il silenzio banale, nel senso corrente del termine, ma piuttosto
“parola all’interno”, che va sussurrata, modulata e mai detta a tutto fiato. Il segreto è tale solo in quanto è ineffabile.
D’altro canto il mito esemplare ha sempre carattere cosmogonico; quindi si riferisce alla creazione del mondo, tout court, allude in ogni caso a situazioni esistenziali, realmente fondative sul piano ontologico.
E, purtroppo, la nostra conoscenza dei miti si è svolta per troppo tempo lungo il canale obbligato della mitologia greca (a partire dal termine stesso, troppo lungamente soggetto a equivoci e contrapposizioni con il
Logos, di cui è responsabile la filosofia greca). Sappiamo tutto dei miti greci ma quasi nulla del loro contesto rituale e un mito senza rito non è più tale, esso è devitalizzato, non più capace di trasmettere conoscenza universale.
Ma, per fortuna, la riscoperta degli antichi patrimoni mitici del vicino Oriente, del complesso di credenze tuttora vitali, in parte, delle società
etnologiche (i cosiddetti “primitivi viventi”), ci ha restituito una visione più equilibrata, più profonda, del mito. A tanto ha dato un contributo
decisivo l’esegesi simbolica, una forma di pensiero integrale di cui solo da pochi decenni si sta rivalutando l’enorme carica potenziale.
Così grazie al lavoro pionieristico di una “archeologia dello spirito”, attuata dagli storici delle religioni (basti il nome di Mircea Eliade), il mito è tornato fra noi. E il mito è il “nome” delle cose, la cifra nascosta del reale.
Forse la migliore definizione del mito, certo la più radicale, è quella fornita da Gerardus van der Leeuw1: Il mito, propriamente parlando, non è che la parola stessa […] è una parola pro – nunciata, che ripetendosi possiede la potenza decisiva, appunto la “parola perduta”, che diede vita ai mondi e di cui si è perduta la chiave interpretativa.
Per ritrovarla occorre, in qualche modo, essere iniziati, cioè ri-nascere a una nuova e più alta visione conoscitiva. L’iniziazione, per dirla con Mircea Eliade, equivale a una mutazione ontologica del regime esistenziale2; il neofita diventa un altro, egli è “nato due volte” (d v i j a, in sanscrito). Così nell’antico Egitto, il defunto assolto dal tribunale di Osiride veniva dichiarato maak h e r u, parola tradotta convenzionalmente con “giustificato”, ma che ha il senso proprio di “giusto di voce”, ovvero colui che ha la giusta modulazione di voce, giusta perché ormai conforme alla M a a t, l’ordine cosmico. Il defunto “solarizzato” si trasforma in Maa- kheru, assimilato al divino, conosce e si è identificato con la parola creativa, il mito appunto. Gli Egiziani, per altro, conoscevano dei particolari sacerdoti, chiamati perkher u, “evocatori alla voce”, capaci, con un’appropriata modulazione della voce, di evocare le forme, di creare letteralmente. È ovvio che un per-kheru fosse anche un Maa-Kheru, seppure ancora in vita; tramite l’iniziazione era possibile conseguire il potere, normalmente limitato al momento della “grande iniziazione”, il passaggio della soglia, da parte del defunto assolto. Il mito corrisponde al Verbo di cui parla l’evangelista Giovanni (il principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio). Ma non è solo la tradizione cristiana esoterica a conoscere il significato della parola creativa: almeno ottocento anni prima dell’apostolo, i Veda indiani avevano già affermato: All’inizio era Brahman con il quale era Vac, la Parola, e Vac era Brahman. L’analogia con il Vangelo di San Giovanni è evidente, ma non è tutto: un intero inno del Rg-Veda ( il X) è dedicato a Vac ( corrispondente al latino v o x, vocis, e l’italiano derivato v o c e). E Vac è la vibrazione essenziale che ha dato vita ai mondi, che ha creato tutto ciò che esiste. In Egitto, nella teologia menfita, la stele di Shabaka afferma che Ptah, il dio demiurgo
di Menfi, creò il mondo con il “cuore” e con la “lingua”, cioè con il pensiero e con la parola (e il Verbo, cioè il mito, è pensiero all’interno e parola all’esterno, come manifestazione). La teologia menfita risale almeno agli inizi del terzo millennio; essa è, dunque, la più antica testimonianza letteraria di creazione per L o g o s, il primo modello dell’evangelista Giovanni.
In Grecia sono evidenti le sopravvivenze di un’arcaica religiosità per L o g o s, qui generalmente di matrice mediterranea. È noto il rilievo che in ambiente ellenico assume il “riso degli dèi”; il dio che ride assicura la conservazione del cosmo, il rinascere ciclico della natura. Demetra (la Terra Madre, da Dameter)è l’esempio più illuminante: la nutrice Baubò la induce a ridere e ciò basta perché tutta la natura, sfiorita, possa rinascere. In Sicilia, nella variante delmito demetriaco raccolta dallo storico Diodoro (V libro), è il riso di Demetra a dar vita al germoglio del grano (ho ghélos ghynaikòs epóiesen, “il riso della donna creò”).
Demetra in Sicilia (come bene ha visto lo storico delle religioni Giuseppe Martorana in K ò k a l o s, e poi in Il riso di Demetra), crea senza collaborazione maschile; il riso femminile è la genesi di ogni vita. Gli “dèi che ridono”, però, sono anche luminosi; il verbo greco gheláo significa a un tempo “brillare” e “ridere” e il “ridere” è anche un “sorridere”, un risplendere; allude perciò a una valenza acustica e a una luminosa. D’altro canto il suono non è altro che luce a ridotta frequenza vibratoria, e la luce è un suono, non più percepibile, a elevatissima frequenza vibratoria. La radice *G E L, *GLE di ghèlos, il “riso” e di gheláo è, probabilmente, anche all’origine della nozione di gloria e “stato acustico e luminoso”, insieme. Anche nei popoli a torto ritenuti primitivi si ha notizia di teologie per Logos: in Polinesia Iao crea con la parola (il mito vivente); in alcune tribù brasiliane la Parola precede addirittura il Padre, l’Essere Supremo trasformatosi in deus otiosus.
Ovunque, insomma, è attestata l’idea estremamente arcaica del mondo creato con la “parola di potenza” (e gli esempi potrebbero moltiplicarsi con facilità). L’energia creativa degli dèi deve essere in qualche modo conservata: nomina sunt numina, afferma la nota equazione proposta da Max Müller. Perciò nell’antico Egitto i sacerdoti del Sole conservavano gli hekau-ra le “formule di potenza”, gelosamente custodite nei recessi templari. A Roma, la primitiva religione dava immenso valore agli Indigitamenta, un formulario rituale contenente gli attributi delle divinità e le formule di invocazione più corrette per ciascuna di esse, giacché solo “sintonizzandosi sulla stessa frequenza d’onda” degli dèi, per così dire, si riteneva che fosse possibile accedere alle varie modalità del divino, ciascuna delle quali è personificata in un “dio particolare”. Per dare attualità al nume occorre evocarlo alla voce, cioè “nominarlo”, nominando qualcosa infatti gli si dà vita, esistenza.
Nella Genesi le creature di Dio ebbero vita pienamente fondata solo nel momento in cui Adamo, fatto a immagine e somiglianza del Creatore, le chiamò per nome, diede a esse un nome. Anche adesso, a livello di retaggio ormai inconsapevole, un bambino ha “vita piena”, esiste come personalità definita, solo a partire dal momento in cui gli è stato conferito un nome e lo si è battezzato (il battesimo è una iniziazione).
Se il mito, come abbiamo visto, si identifica in ultima analisi con la parola creativa, il nome ne è il modello esemplare Antichissimo termine indoeuropeo, il nome ha il senso originario di “evocazione”; nel sanscrito, n˝ma significa soprattutto “essenza”, nella dialettica della pra krti (il principio creativo della natura) si polarizza con r u p a, “sostanza”, il supporto della manifestazione formale. Al sanscrito n˝ma sono affini il greco ónoma, il latino n o m e n, il germanico n a m e, etc. e tutti hanno la stessa radice fondamentale. Namen equivale a nominare, e nominare vuoi dire letteralmente “evocare”, una cosa o una persona si nominano. Questa evocazione presuppone
una forza in fieri; questa unica, immensa, forza che permea di sé l’universo intero, in termini religiosi altro non è che il Sacro, potere ambivalente che attrae, e al contempo suscita un irrefrenabile timore (il mysterium tremendum et fascinans, di cui parla Rudolf Otto ne II Sacro). Che questa forza una, di cui tutte le altre sono semplici manifestazioni particolari, esista davvero è cosa accettata ormai anche dalla scienza profana e sperimentale (fino alla morte Einstein cercò di disegnare una teoria unificata del campo).
Nominare sacralmente, ritualmente, comporta un’esatta modulazione della voce creativa, la ripetizione su scala della cosmogonia divina: perciò, nell’ideologia tradizionale arcaica, un nome non potrà mai essere dato a caso, esso deve corrispondere all’essenza dell’individuo o della cosa evocati. Che la Parola abbia un’intima capacità creativa è un fatto oggi accettato anche dai fisici e la scienza ha sostanzialmente confermato l’esattezza delle intuizioni mitiche del Logos, universalmente attestate nella storia delle religioni.
L’unica differenza consiste in un problema di linguaggio, nella scelta dei vocaboli. Sappiamo adesso, dopo le scoperte della fisica delle particelle, che non si può parlare a stretto rigore di “cose”, bensì di “eventi” instabili, il cui insieme costituisce una fitta ragnatela di interrelazioni energetiche che chiamiamo universo. D’altro canto sappiamo pure che ogni fenomeno (dal greco phainoúmenon, “ciò che viene alla luce”) assume una forma in funzione della frequenza vibratoria, basta che essa sia modificata e il fenomeno sarà divenuto un altro fenomeno. La vibrazione è, dunque, il segreto creativo nel mondo della manifestazione formale; la vibrazione è insieme suono e luce e si caratterizza sub specie ondulatoria perché lo spazio è curvo
(lo Sfero intuito dagli antichi sapienti). Tutto ciò che si “materializza” è in realtà un “grumo” di energia predeterminato dalle vibrazioni, tutto l’universo vibra incessantemente.
La vibrazione è l’attuarsi dell’energia, della Forza, nel cosmo: chi vieta di identificare la vibrazione della scienza con il Verbo creativo, il mito? Chi vieta di identificare l’energia, la Forza presente nel mondo fisico con il Sacro?
L’unico ostacolo è costituito dal linguaggio, dal rifiuto dell’interdisciplinarità, dalla prevenzione ideologica o confessionale (da qui il permanere del secolare contrasto tra scienza e religione).
L’universo è nato da una grande esplosione, il big- bang; sotto l’effetto di questa grande vibrazione iniziale il cosmo continua a espandersi. Lo afferma la cosmologia degli ultimi decenni, prove alla mano, e dunque dobbiamo crederle. Perché allora non dovremmo credere, al di là della lettera del linguaggio, alla verità del Fiat Lux, alla realtà del mito della Parola creativa? Il nome, si diceva, è un’espressione esemplare del mito, potremmo dire del mito in azione; dare un nome a un essere comporta
una grande responsabilità, significa ripetere in piccolo l’atto creativo iniziale del demiurgo, nominare qualcuno significa letteralmente qualificarlo, perché gli si infonde l’essenza. Così l’onomastica delle origini, la scienza dei nomi, ha carattere sacro, è qualcosa di terribilmente serio con cui non sarà mai lecito giocare impunemente.
A maggior ragione lo è l’antroponimia perché riguarda i nomi di persona, nomi divini perché l’uomo è un “dio mortale”. D’altronde la nozione magico-sacrale del nome si riscontra anche in altre culture
tradizionali.
Nel mondo ebraico il nome è shem. Esso equivale all’essenza ed è stato lungamente al centro delle riflessioni cabalistiche. Il modello esemplare di shem, che ha anche il valore semantico di “audizione” è costituito dal “Nome esplicito” (shem ha – mephorash) di Dio: YHVH. L’unione spirituale delle quattro lettere sacre del nome YHVH, che compendiano tutte le realtà, rappresentava infatti l’unione del Nome, cioè l’unione della realtà universale, la realizzazione – come afferma Leo Schaya – dell’unità totale nel cuore dell’uomo. Il nome di Dio sostituisce nel pensiero cabalistico la parola perduta, esso è invocazione oltre che evocazione. Shem riflette l’essenza della realtà.
Ma anche in Cina, culla di una venerabile tradizione sapienziale, il nome è ben più di un semplice codice di riconoscimento personale: ming. Questa parola è polivalente nella lingua del celeste impero: ming vale per “nome”, ma anche – a seconda dei contesti – “essenza, luce, destino, tempio”. Questi significati, spesso, si intrecciano fra di loro e non sempre è possibile scinderli. Gli è che anche in Cina, come nelle altre civiltà arcaiche tradizionali, il nome cela un grande mistero, il mistero stesso della realtà.
Ming è l’essenza luminosa dei fenomeni; ogni ming si rifà al grande M i n g, il “nome universale”, che viene assimilato al Tempio cosmico, al Tempio dello Spirito. E che il nome fosse un tempo considerato come prezioso e vitale lo dimostrano anche gli indizi linguistici. Tra questi abbiamo un interessante “reperto” che riflette ancora il ricordo della “dottrina del nome”: ignominia. La parola, nel lessico corrente, si ritiene sinonimo di infamia e di obbrobrio. Le equazioni, tuttavia, sono esatte solo se rapportate al piano etico di comune riferimento, improprie se si tiene giusto conto del valore etimologico del termine.
Ignominia, dal punto di vista linguistico, è calco del latino i g n o m i n i a, composto di i (n), prefisso con senso negativo, di separazione, e di ( g) nomen, “ nome”. L’ignominia è, perciò, una “cosa senza nome”, ovvero
la peggiore disgrazia che si possa dare per la mentalità arcaica e tradizionale. In certo modo l’ignominia corrisponde, in ambito morale, alla distruzione ritualizzata del nome. Come si ricorderà, raschiare da
una tomba il nome del defunto, per l’ideologia preclassica, equivale a ucciderne anche lo spirito, significa annichilirlo: insomma, una “seconda morte”. Una “cosa senza nome” in realtà non può esistere, è letteralmente un “nulla”. Così l’i g n o m i n i a, nel suo valore semantico, si annuncia come zero metafisico e si traduce in zero cosmologico:la “nullità” come fonte del sentimento dell’infamia. L’ignominia, quanto a senso, corrisponde all’infamia. Questo termine, infatti, è il contrario di fama, calco del latino fama che appartiene alla famiglia linguistica dei verbi “fare”, “dire”, “parlare”. Fama è “quel che si dice”, infamia “ciò che non si dice” e che, dunque, non può aver nome perché il nome – l’abbiamo visto – è il “detto primordiale”, l’evocazione sonora originaria. In questo senso l’infamia è davvero sinonimo (dal greco s y n ó n y m o s, “che ha il nome in comune”) dell’ignominia. Esse condividono la sorte d’essere “senzanome”.