NON SONO MALATA…SONO ROTTA

NON SONO MALATA…SONO ROTTA

 Di  Elena Canestri

«Venivo considerata surrealista.

Non è esatto. Non ho mai dipinto dei sogni. Ciò che ho rappresentato è la mia realtà.»

Così si sentiva lei e lo scriveva nelle frasi nascoste sui suoi appunti, franca, con la dignità e la rassegnazione dolce e dolorosa che serve per vivere quando la nostra essenza più evidente, il nucleo caldo della nostra vitalità viene spezzato dalla sorte. La forza delle sue espressioni nelle poche immagini di lei catturate in foto lo dicono, la svelano ancora più dei simboli dei suoi dipinti. Gli occhi profondi ci appaiono orgogliosi, ma anche saggi, sono intrisi dell’intelligenza e dell’onestà di chi non si ostina inutilmente a nascondere la propria fragilità e il dolore provato… sono quelli di chi sa che cadere in una spirale di negazione reattiva e segretamente rabbiosa dei propri limiti, può distruggere la parte più bella di noi stessi e l’amore per gli altri, anche il più profondo. E lei un amore totale e appassionato lo aveva… Lei è Frida Kahlo, all’anagrafe Magdalena Carmen Frida Kahlo y Calderón. Nata nel 1907 da un fotografo tedesco emigrato in Messico e da madre messicana proveniente da una famiglia benestante di origini spagnole e amerinde, amava dire di essere nata nel 1910 tanto si sentiva figlia di quella rivoluzione che nel suo tormentato e adorato paese pose fine alla dittatura militare del presidente Porfirio Diaz portando -in un crescendo di incessanti scontri tra esercito e popolo-, alla promulgazione della Costituzione degli Stati Uniti Messicani nel 1917.

Frida ebbe una vita travagliata come quella del suo paese: affetta dalla deformazione congenita della spina bifida al tempo scambiata per poliomelite, aspirava agli studi medici. Si iscrisse per questo alla scuola preparatoria, ma ben presto si rilevò attratta dal fermento sociale che si respirava nei movimenti studenteschi intellettuali dell’epoca e si appassionò al socialismo nazionale iniziando a frequentare un gruppo di giovani che in nome di quell’ideale indossavano un cappello come segno distintivo, i Cachuchas. Si legò a José Vasconcelos Calderón, politico, filosofo e scrittore socialista e si innamorò del giornalista studente di diritto Alejandro Gómez Arias, con cui fu vittima a soli diciotto anni di un terribile incidente sul bus in cui i due viaggiavano al rientro dalla scuola.

Quell’evento che costò a Frida numerose fratture e ben venticinque interventi chirurgici, non le spezzò la sola spina dorsale, ma l’intera esistenza. Costretta per molto tempo a letto fra un’operazione e l’altra, menomata dall’impossibilità di tornare a muoversi liberamente senza i dolori che l’afflissero per tutta la vita, si dedicò alle letture sul comunismo e soprattutto all’arte. Iniziò a dipingere ritratti e autoritratti sostenendo che lei stessa era il soggetto che meglio conosceva e vi riuscì grazie a uno specchio che i genitori le fecero montare sul letto a baldacchino. Varie fonti fanno risalire a quel periodo la sua completa immersione nel mondo della pittura: nelle sue frasi appuntate in un diario si legge che il lavoro riusciva a renderla meno infelice e che attraverso i suoi ritratti sfogava la voglia di mostrarsi apertamente con onestà, senza ipocrisia.

Tutta la sua esistenza fu permeata da questa volontà di non nascondere la propria realtà, di ignorare le convenzioni sociali in nome dell’autenticità. Una volta recuperata la possibilità di camminare sottopose le proprie opere a Diego Rivera, famoso pittore e muralista di idee comuniste che divenne celebre per le sue creazioni a sfondo politico e sociale. Lui ne fu così colpito che la inserì a pieno nella vita sociale e culturale messicana, così che lei stessa divenne un’attivista del partito comunista e a soli ventidue anni, benché Rivera ne avesse ventuno più di lei, lo sposò. Per Frida questo fu un amore totale, paterno e consolatorio, ma anche passionale e tumultuoso, frastagliato da tradimenti, avventure e ricongiungimenti, ma sempre unito da un filo, come quel corridoio che fecero costruire tra le loro due dimore per vivere vicini, ma con la libertà dei loro spazi personali e artistici. Nonostante le vicende che negli anni travolgono i due in una spirale spesso sofferta e rabbiosa, fra di loro resta sempre una scintilla di intuizioni intellettuali che si incrociano, si intrecciano e ispirano a vicenda, una simbiosi cerebrale che li fa aleggiare sempre in un sentire simile. Sono uniti in un’instancabile voglia di osservarsi stupirsi e stimarsi nelle reciproche differenze. Le ampie sfumature del loro amore sono un ventaglio aperto, libero dal possesso e autentico di ammirazione e cariche…cariche di tutto: contrasti e pulsioni ancestrali, stima e desiderio che esplodono e si sciolgono sempre in una struggente comprensione, nella compassione reciproca. Nessuno dei due rinunciò mai alle tinte forti della propria personalità e Frida restò, anche nel dolore, sempre godere dei piaceri terreni della vita, senza dimenticare la vera essenza delle cose. Concetti che riassume in molte frasi e che emergono da ogni suo dipinto: “tanto assurdo e fugace è il nostro passaggio per il mondo- scrive – che mi rasserena soltanto il sapere che sono stata autentica, che sono riuscita ad essere quanto di più somigliante a me stessa mi è stato concesso di essere” e nella sua autenticità è forse possibile sfidare noi stessi a non riconoscere valori universali validi per ognuno. La sua idea era quella di rappresentare la propria realtà per quanto astratta potesse apparire ad un occhio non attento: ma chi osserva bene può vedere nel rosso, una delle tinte centrali nei suoi lavori, il sangue e la perdita, come nei quadri che rappresentano i suoi sofferti aborti e la sua colonna vertebrale ferita. Nella natura che esplode intorno a lei si

colgono i simboli di fortuna o sventura e la struggente bellezza che ad un tratto si svela anche se discontinua persino nel più cupo dei cieli. Con la sua opera Frida definisce la tragedia come una cosa così ridicola e assurda da dover essere esorcizzata con la reazione della vita e mai nascosta, ma raffigurata nella sua crudeltà. Questa è la sua vera rivoluzione: credere nella sostanza e non nella forma, riconoscere la propria fortuna nonostante le sventure che attraversano una vita. In uno dei momenti più dolorosi, poco più di tre settimane dopo l’aborto all’Ospedale di Detroit in cui perse il figlio tanto desiderato, il 29 luglio 1932 scrisse: “Ero cosi entusiasta di avere un piccolo Dieguito che ho pianto molto, ma visto che e successo non c’è altra scelta che resistere… […] comunque ho la fortuna di un gatto, perché non muoio cosi facilmente, ed e sempre qualcosa!”. Nello stesso modo riconosce l’ineluttabile passare del tempo, degli istanti della propria vita e la definisce tanto interessante e intensa che il problema è solo saperla vivere.

Nonostante il tormento per il rapporto con il suo corpo che rappresenta come intrappolato in una gabbia d’acciaio e il dolore per la libertà che questo le nega, Frida continua a credere nella collettività sostenendo che nessuno è separato dagli altri e che nessuno lotta solo per sé stesso: “L’angoscia e onesta nello svelarsi: è così che lascia dietro di se nel suo tempo e oltre, l’eco sonora di un pensiero moderno e coraggioso, carico di saggezza e consapevolezza e lancia con i suoi scritti, i colori, le vesti e gli atteggiamenti, un grido così pieno di realtà da suggerire il significato di un’esistenza. Nelle immagini fotografiche che abbiamo di lei, la vediamo mentre guarda l’acqua e la sfiora con una mano seduta su una barca con lo sguardo assorto di chi ha un animo straripante intrappolato in un corpo bloccato, ma che vede ancora la bellezza intorno. Appassionata alla natura, ai fiori del suo giardino e agli animali, come le tre scimmiette che vivono con lei e si ritrovano in alcune sue opere, non si arrenderà mai a il dolore, il piacere e la morte – scrive- non sono nient’altro che un processo per esistere. La lotta rivoluzionaria in questo processo è una porta aperta all’intelligenza”. Allo stesso modo la pittrice sfida i canoni sociali stereotipati e ricorda l’importanza dell’equità tra esseri umani e in particolare fra uomo e donna, così come sempre si sofferma sull’importanza della bontà al di sopra della fama e del successo. In un dipinto del 1940 l’artista si autoritrae al centro dell’opera, seduta, vestita da uomo, con i capelli corti e in mano le forbici con cui aveva tagliato le ciocche sparse sul pavimento; sopra di lei si leggono il testo e le note di una canzone popolare messicana, che dice “Guarda, se ti amavo, era a causa dei tuoi capelli. Ora che sei senza capelli, non ti amo più”. Un’opera che è stata attribuita alla reazione dell’artista per la separazione con il marito, ma che svela anche una sua propensione più volte già mostrata nelle foto di famiglia in cui compare vestita da uomo: la sfida rivolta allo spettatore è abbattere la rete di consuetudini sociali e l’abbaglio dell’apparenza e guardare oltre, vederla come una donna e leggerne la sostanza, l’interiorità al di là delle vesti. Una delle frasi più intense su di lei è riportata nella pubblicazione “Frida: una biografia di Frida Khalo” in un passaggio di Herrera, Hayden che scrive: “per il proprio spirito giovanile, era in grado di ispirare fiducia ai bambini e così catturare la loro sognatrice freschezza attraverso l’arte, quello sguardo infantile che sembra contenere il mutismo degli animali e il peso della saggezza”. Lei stessa del resto scriverà di sentire di vivere in un pianeta di dolore, trasparente come il ghiaccio, come se avesse imparato tutto in una volta, in pochi secondi.

Questi concetti si leggono chiari in un frammento di una lettera scritta dall’artista a Diego Rivera: “Non me ne frega niente di quello che pensa il mondo. Sono nata puttana, sono nata pittrice, sono nata fottuta. Pero sono stata felice nel mio cammino. Tu non capisci quello che sono.

Io sono amore, sono piacere, sono essenza, sono un’idiota, sono un’alcolizzata, sono tenace. Sono io, semplicemente sono…”

Frida, artista e donna, ha contribuito a rappresentare il Messico in tutte le sue tinte raffigurandone la flora e la fauna, cactus, piante tropicali, rocce laviche, cervi, scimmie, cani in tutte le loro declinazioni, nella forza e nella sorte feroce di un paese lacerato e saccheggiato. La sua intenzione era quella di ricorrere a soggetti tratti dalle civiltà native precolombiane, per affermare la propria identità meticcia, evidente anche nel modo di vestire, sempre ispirato al costume delle donne di Tehuantepec, un comune di Oaxaca, che aveva la reputazione di “società matriarcale” in cui le donne comandavano i mercati locali ed erano famose per deridere gli uomini.

“Sono carne e spirito delle Americhe -si definiva- sono figlia di una figlia di una figlia nata dallo stupro dei guerrieri avidi d’oro […]: non fu vittoria, ne sconfitta, fu la dolorosa nascita di una civiltà  meticcia, fusione inestricabile di passato che non passa, memoria che non si spegne, vita che nasce dalla morte e morte che da la vita. […] Ho nelle vene il sangue di ebrei ungheresi e di indios taraschi, discendo dalla mescolanza di genti perseguitate e conquistate, costrette alla fuga e disperse, discendo da generazioni di sconfitti mai domati che hanno perso tutto fuorché il bene più prezioso: la dignità!”.

Ma il lascito più grande di Frida è ancora attualissimo e forse valido per tutta l’umanità: parla di impegno collettivo, di bellezza interiore, della reazione all’assurda crudeltà dell’esistenza e delle umiliazioni che porta, cui si può però rispondere con il fuoco della vita, con uno sguardo esausto ma sempre aperto e critico, con l’autenticità e l’amore. Amore per la politica, per l’arte, per gli animi più sensibili, le menti aperte, orgogliose e integre, gli esseri indifesi, il mondo intorno: la vita! Isolata dalla sorte del suo corpo martoriato, costretta a tappe ben diverse da quelle delle sue coetanee e dal ciclo di una vita mai realizzatosi nella tanto desiderata maternità, non si arrese mai e rimase con gli occhi aperti tormentati ma vitali, rabbiosi ma dolci e pieni di comprensione verso le altre creature del mondo. La sua arte, del resto, come la definì il poeta e critico d’arte francese André Breton è “una bomba avvolta in nastri di seta”.

TRATTO DA “HIRAM”  3/2020

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