LA STATUA DI GIORDANO BRUNO IN CAMPO DEI FIORI
UN MODERNO MITOLOGEMA
Gianni Eugenio Viola, Alessandro Coppola, Claudio Foti, Antonino Isaia, Luca Pescatore, Francesco Maria Rabazzi
Il processo di Giordano Bruno, bassorilievo del basamento della statua in Campo de’ Fiori dello scultore Ettore Ferrari
La storia delle società, come quella dei singoli, non si spiega deterministicamente; nelle sue articolazioni giocano infinite variabili che ne complicano caoticamente il corso portando sovente il disegno degli uomini a risultati inattesi, che esaltano o sminuiscono il significato originale. Così, quando il 9 giugno 1889 (giorno della Pentecoste) si inaugura a Roma, in Campo de’ Fiori, il monumento a Giordano Bruno, si conclude con successo la battaglia non solo per il monumento ma piuttosto per un’impronta laica nella giovane società italiana e in particolare nella nuova capitale. Roma infatti era capitale solo dal 1871 e da pochi mesi sedeva in Campidoglio una maggioranza liberale. La furibonda lotta tra i fautori e gli oppositori del monumento
era durata almeno 13 anni (dal 1876 al 1889). Si poteva rintracciarne l’origine, a ben vedere, nei discorsi pronunciati nel 1865 in occasione dell’inaugurazione del complesso monumentale posto nell’atrio dell’Università di Napoli in ricordo di quattro figli della Campania, Pietro Della Vigna, Giambattista Vico, Tommaso d’Aquino e Giordano Bruno. Gli oratori, concordi, avevano sottolineato la continuità fra Rinascimento e Risorgimento, e decisivo sarà da qui in poi l’inserimento di Bruno in questo movimento del quale diverrà un inatteso esponente.
Questo in buona parte spiega la persistente viva curiosità per le vicende legate alle controversie sulla persona e l’opera del nolano, come quelle sollevate da un inatteso, fortunato rinvenimento.
In occasione della mostra dedicata a Caravaggio, tenutasi a Roma nel maggio 2011, due valenti ricercatori dell’Archivio di Stato di Roma (Michele Di Sivo e Orietta Verdi) hanno rinvenuto uno schizzo, opera del notaio Giuseppe De Angelis che seguì – in qualità di testimone – il nolano negli ultimi passi, fino al rogo di Campo de’ Fiori del 17 febbraio 1600. L’emozionante documento è stato pubblicato con il titolo Bruno e Celestino da Verona: Le immagini del rogo nelle carte criminali dell’Archivio di Stato di Roma in “Bruniana e Campanelliana” (2012,18,2, pp. 519-27). Vi si nota che Bruno sembra vestire una tunica (non sarebbe stato quindi nudo come la versione della Confraternita di S. Giovanni decollato che accompagnava i condannati al patibolo accreditava), che avrebbe avute la braccia legate – forse a un
palo – dietro la schiena, e che il volto era incorniciato da un filo di barba. Fra i molti roghi dell’Inquisizione quello di Giordano Bruno ha lasciato una vivida memoria che i fasti unitari hanno rinverdito, e la statua di Ettore Ferrari, che si volle eretta nei luoghi del rogo, fu vissuta come il campo di battaglia per un confronto tra animo confessionale e animo laico. Ad avviare il progetto e la realizzazione del monumento fu un gruppo di studenti universitari che si incontravano all’Osteria del Melone, vicino alla Sapienza. Adriano Colucci, di Jesi, e Alfredo Comandini, di Faenza, entrambi studenti di giurisprudenza, furono a capo del movimento. Colucci fu poi professore, deputato al Parlamento, apprezzato scrittore e poeta; anche Comandini fu deputato, direttore di diversi giornali, anche del Corriere della Sera. Furono i due giovani a guidare il primo comitato (1876) a raccogliere fondi, a propagandare il progetto che subito inquietò oltretevere. Ma la vera mente fu (come come è giusto ricordare) un ebreo francese, Armand Lévy, profugo della Comune di Parigi, filosofo, ‘rivoluzionario romantico’, poi massone. Si innamorò dell’idea del monumento fino a farne una ragione di vita.
Non fu dunque la massoneria, come si disse, la nutrice del movimento per la statua a Giordano Bruno anche se poi molti massoni furono ardenti sostenitori dell’idea. Furono tutti coloro che si ribellavano al Sillabo papale, anticlericali senza etichette che ebbero, nell’altra fazione, avversari i seguaci del Papa Re, i gesuiti della Civiltà Cattolica, le figlie di Maria, la destra politica timorosa di un nuovo corso moderato, i cattolici più intolleranti restii a qualsiasi autocritica.
Il comitato universitario, malgrado l’entusiasmo profuso negli appelli, raccolse solo un limitato importo. Si formò allora un secondo comitato (1884) che invece raccolse – dopo l’appello lanciato dal Bovio agli intellettuali ‘liberi’ d’ogni latitudine – una forte somma e le adesioni di poco meno di trecento alte personalità culturali non solo europee (e tra gli italiani Garibaldi, Carducci, Crispi, Mamiani, Minghetti).
L’ideazione del monumento venne affidata allo scultore Ettore Ferrari (1845-1929), scultore, politico italiano di sinistra, consigliere al comune di Roma dal 1877 al 1907 (poi Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia dal 1904 al 25 novembre del 1917).
Un primo bozzetto, raffigurante Giordano Bruno in un gesto ritenuto di sfida anticlericale fu rifiutato. Nel 1887 fu presentata una seconda proposta, poi accettata, dove Giordano Bruno era raffigurato raccolto in se stesso, con le mani incrociate sul suo libro chiuso e con lo sguardo dritto davanti a sé. La statua in bronzo realizzata presso la fonderia Crescenzi di Roma venne posta su un basamento di granito rosa di Baveno. La vicenda che portò dal progetto alla realizzazione e alla posa della statua in Campo de’Fiori è una pagine della storia d’Italia che merita di essere studiata.
L’iniziativa di erigere a Roma una statua di Bruno, partita nel 1876, corredata da un Manifesto alla Gioventu dei due Mondi, si era presto arenata per l’insufficente contribuzione raggiunta, ma venne ripresa per due eventi: la morte di Pio IX (1878) e l’annuncio dell’edizione nazionale voluta da De Sanctis (Ministro della P.I.) delle opere latine di Bruno. Il Comitato decise di riprendere il progetto originario della statua e nell’estate 1878 consegnò al Comune quattro bozzetti del monumento, che furono esaminati nell’aprile 1879 da una Commissione che non ne accettò nessuno. Il 31 maggio 1884, gli studenti dell’Università di Roma decisero la costituzione di un nuovo Comitato per un monumento a Giordano Bruno, sollecitando una raccolta di fondi per realizzarlo. Nel dicembre 1884, il Presidente del Comitato propose di realizzare il monumento a Ettore Ferrari, che accettò di eseguirlo gratuitamente. Per sostenere il progetto fu inviato un appello internazionale redatto da Giovanni Bovio, al quale risposero in pochi mesi 278 personalità italiane e straniere, 71 delle quali formarono (gennaio-febbraio 1885) il Comitato Internazionale d’Onore. Nel marzo 1885 fu pubblicato il Numero Unico per Giordano Bruno, un opuscolo di 24 pagine, che conteneva alcuni saggi sulla vita e sulle opere del filosofo nolano, le lettere di adesione al Comitato scritte da personaggi illustri e il primo bozzetto elaborato da Ferrari, nel quale Bruno è rappresentato con la mano destra levata in alto, nell’atteggiamento dell’oratore, e con la mano sinistra che sorregge un libro. Due esemplari superstiti del raro fascicolo sono conservati a Roma: uno presso la Biblioteca di Storia Moderna e un altro presso la Biblioteca Casanatense. Occorreva ottenere dal Comune la concessione dell’area sulla quale erigere il monumento: il Sindaco principe Torlonia temporeggiava.
Il 27 dicembre 1886 Ferrari inviò al Comune una piantina con l’ubicazione del monumento e un nuovo bozzetto della statua, nella quale Bruno è raffigurato in atteggiamento pensoso, con le mani su un libro chiuso. Le elezioni comunali parziali del 19 giugno 1887 rafforzarono la maggioranza clericale in seno al Consiglio Comunale. Questo rese difficile la concessione dell’area. Le nostre ricerche sono valse ad evidenziare due documenti di un certo interesse per la storia del monumento: Politiche culturali e conservazione del patrimonio storico-artistico a Roma dopo l’Unita di Laura Francescangeli (Viella-Archivio Storico Capitolino, Roma, 2014) e “Atti del Consiglio Comunale di Roma dell’anno 1888 – parte prima” (Tipografia L. Cecchini, Roma, 1888). Il primo descrive e contestualizza l’interazione tra i “movimenti” che propugnavano la realizzazione del monumento e le istituzioni alle quali competeva il necessario iter amministrativo, con abbondanza di dettagli sull’organizzazione degli uffici e sulle manovre politiche locali e nazionali. Il secondo lascia intravedere, dietro le dichiarazioni e le motivazioni addotte dai favorevoli e dai contrari, il confronto allora in atto tra due mondi. La corrispondenza degli uffici comunali, contenuta nel c.d. Titolo 12 “Monumenti Scavi Antichità Musei” del citato Archivio Storico, ci mostra una macchina amministrativa capitolina in fase di costruzione e assestamento nel periodo che qui ci interessa, con il delinearsi di un preciso progetto culturale. In questo progetto la tutela del patrimonio storico-artistico “sentito ed esibito come nucleo identitario fondante la sfera dell’autorità e dell’autonomia municipale, in funzione equilibratrice dei poteri accentratori della monarchia sabauda, rivendicandone la rilevanza, più che municipale o nazionale, universale”, andava di pari passo con l’esigenza di iniziative pubbliche per “diffondere e pubblicizzare i valori laici e civili di fondazione dello stato nazionale, inizialmente in singolare contrappunto con la grandezza sacrale dei “segni di pietra” dell’abbattuta teocrazia pontificia”, attraverso numerose “memorie di marmo” (busti, erme e lapidi apposte su edifici) a testimoniare la vita o il passaggio di illustri italiani, esponenti della cultura secolare lontani nei secoli o appartenenti al passato più recente, comunque protagonisti del risorgimento nazionale e campioni di un’italianità e di una coscienza laica sempre vive, anche nei secoli di oppressione straniera e teocratica, da ultimo riscattate proprio grazie all’unità nazionale. E solo in seguito, negli anni Ottanta del secolo, il messaggio politico e pedagogico sarebbe passato attraverso la realizzazione di più imponenti monumenti.
Si tratta (Frantarcangeli) delle “prime prove di leadership ideologica (di) quel ceto dirigente liberale temperato che intorno al moderatismo costituzionale di casa Savoia aveva cucito l’impalcatura dell’unità nazionale”. La classe di governo emergente consolidava la propria egemonia politica nel nuovo Stato suscitando il senso d’appartenenza alla nuova compagine politica e l’adesione ai valori monarchici e nazionali che ne avrebbero costituito il collante.
La documentazione del Titolo 12 ci interessa in relazione agli indirizzi assunti dalla politica monumentale municipale negli anni Ottanta, quando furono realizzate o avviate le opere di maggior rilievo, in una mutata situazione politica. Dopo la caduta della destra storica l’asse politico del governo nazionale si spostava a sinistra con i ministeri Depretis e Cairoli, mentre in Campidoglio si consolidavano gli equilibri politici di cui l’amministrazione Torlonia fu l’espressione più compiuta: una stagione caratterizzata dal compromesso tra liberali moderati e forze clericali organizzate nell’ “Unione Romana”.
A partire dall’appello (1876) del comitato di studenti un timido favore fu accordato dal sindaco Pietro Venturi, che nel 1877 stanziava 200 lire. Di qui in avanti, discussioni senza tregua tra il comitato e l’amministrazione sul contributo da accordare per la realizzazione, sulla collocazione e anche sulla forma del monumento, che nelle parole del sindaco Torlonia avrebbe dovuto essere “all’altezza del decoro di Roma”. Il tutto attraverso una procedura che di fatto mirava ad allungare i tempi e a stemperare il radicalismo delle prime proposte, per accettare alla fine un’opera che evocasse più il pensatore e il filosofo che il ribelle martire del libero pensiero.
Le proposte giunte per la statua tendevano a esaltare l’anticlericale ribelle e il martire del libero pensiero. Il risultato fu che non se ne fece nulla, tanto più che la Commissione edilizia riteneva “inopportuno” collocare una statua ingombrante in una piazza sempre affollata per via del mercato che lì (come ancora oggi) si teneva. Forse un medaglione in bronzo sarebbe bastato, considerata anche la bassa cifra raccolta dal comitato. A quel punto l’Università si offrì per accogliere il monumento con l’effetto di dividere il comitato tra chi riteneva di accettare (e così Bruno sarebbe rimasto oggetto di culto per una ristretta élite intellettuale) e chi invece spingeva per la piazza, che meglio si sarebbe prestata per celebrare pubblicamente il ricordo.
Altre dilazioni e si arriva al 1884, quando si costituisce un nuovo comitato, che raccoglie adesioni anche dall’estero e del quale faceva parte Crispi, che avrà in seguito un ruolo di peso nella vicenda, a mostrare come l’affare avesse acquistato rilevanza nazionale. I tempi non erano evidentemente ancora maturi per l’approvazione in Consiglio, ma ormai lo schieramento liberale a favore si allargava dalla destra storica alla sinistra costituzionale all’estrema radical-democratica.
Nella nuova proposta di Ettore Ferrari (mazziniano, repubblicano e democratico; tra l’altro Gran Maestro dal 1904 al 1917), Giordano Bruno veniva rappresentato nell’atto di pronunciare uno dei suoi passi più famosi: “Un altro Iddio mi destina a ministro non ultimo né volgare del secolo migliore soprastante”, con il braccio destro levato al cielo e lo sguardo rivolto al libro aperto nella mano, “quasi tribuno e profeta di una nuova era di libertà e di emancipazione sociale, quella della democrazia avvenire, atteso vero compimento del moto di popolo risorgimentale”, come scrive Francescangeli.
Il bozzetto subirà diversi adattamenti fino alla proposta che era più vicina a ciò che poteva essere accettato dal Comune, quella a noi familiare con lo sguardo diritto e le mani sul libro: più filosofo che tribuno.
Il 18 maggio 1888 il Consiglio comunale respinse la proposta di concedere un’area in Campo de’ Fiori (29 favorevoli, 36 contrari). I contrari eccepirono con vari argomenti, compresa l’offesa alla religione, l’incompetenza del Consiglio a decidere sulla questione. Per rendere il clima del momento, ecco due stralci degli interventi pronunciati da consiglieri favorevoli: “La statua di Bruno non è che una; essa reca la conquista più cara all’umanità, il libero esame. Non è in questione la dottrina del filosofo, ma il diritto dell’umanità progredita.” (Baccarini) “Non intellettiva, ma educativa, la fede è un bisogno del sentimento quando l’animo si solleva nelle regioni dell’ideale. Ma di fronte ad una scuola che si studia d’irretire nel mistero del soprannaturale le coscienze umane, è necessità ineluttabile l’affermazione della libertà di coscienza. Non saranno i pensatori liberali che alla fede opporranno la scienza. Ma non vogliano gli avversari opporre alla scienza la fede. L’una dev’essere separata dall’altra.” (Baccelli)
Bisognerà attendere fino al dicembre 1888 perché il Consiglio comunale rinnovato e a maggioranza liberale finalmente voti (36 favorevoli, 13 contrari) la concessione dell’area dove ancora oggi si trova il monumento. Nel luglio 1887 il Sindaco Torlonia chiese al Ministro dell’Interno Crispi un chiarimento ‘politico’ sull’erezione del monumento a Bruno in Campo de’ Fiori. Il 7 agosto 1887, dopo la morte di Depretis, Crispi divenne Presidente del Consiglio e il 31 dicembre 1887 destituì il Sindaco di Roma, principe Torlonia; ma il nuovo sindaco Guccioli il 21 gennaio 1888 dichiarò che non riteneva ‘opportuno’ presentare al Consiglio Comunale la richiesta di concessione dell’area per il monumento in Campo de’ Fiori perché la discussione sarebbe stata di ‘ordine filosofico-religioso’, e quindi impropria per un ‘organismo prettamente amministrativo’ quale il Comune. Nel febbraio 1888 si tenne nell’Aula Magna del Collegio Romano un’imponente commemorazione della morte sul rogo di Bruno. A conclusione della cerimonia i partecipanti si recarono in corteo prima a Campo de’ Fiori, dove ci fu una nuova commemorazione di Bruno, e poi sul Campidoglio, dove la manifestazione fu sciolta dalla polizia, poiché i manifestanti volevano recarsi a protestare in Piazza San Pietro. Il Papa Leone XIII, in un discorso ai Cardinali, criticò duramente le ‘celebrazioni bruniane’ tenutesi in molte città, che erano “incoraggiate e favorite dagli stessi uomini di Governo […]”.
Il 21 gennaio 1889, dopo 13 anni di duri scontri politici e religiosi, finalmente la Deputazione Provinciale di Roma approvò la Delibera comunale per l’erezione del monumento a Giordano Bruno. Il 22 gennaio alcuni dirigenti del Comitato, a cui avevano aderito le maggiori personalità dell’epoca tra cui Victor Hugo, Michail Bakunin, Ernest Renan, Herbert Spencer e Swinburne, Haeckel, Whitman, Ibsen, e, fra gli italiani, Bovio, Carducci, Ardigò, Lombroso e Villari, accompagnati da Ettore Ferrari, lo scultore massone considerato un uomo della sinistra “radicale”, effettuarono un sopralluogo a Campo de’ Fiori per stabilire dove collocare il monumento. Dopo ulteriori dispute si riuscì a ottenere che fosse collocato al centro della piazza.
Nel basamento, di granito rosa di Baveno, il Comitato aveva deciso di raffigurare negli otto medaglioni i seguenti martiri del libero pensiero: Jean Huss, John Wycliff, Michele Serveto, Aonio Paleario, Giulio Cesare Vanini, Erasmo da Rotterdam, Tommaso Campanella e Paolo Sarpi. Inizialmente tra gli otto si era pensato d’inserire Galileo ma si decise di sostituirlo con Paolo Sarpi, il teologo scomunicato e pugnalato da sicari della Chiesa di Roma. Per ultimo si decise d’inserire Michele Serveto, medico ed eretico spagnolo bruciato dai calvinisti a Ginevra, con l’obiettivo di attribuire alla statua un valore di libertà universale verso ogni tipo di oppressore e non solo verso l’inquisizione cattolica.
La disposizione degli otto martiri segue uno schema tematico e cronologico: sul lato nord, sopra la rappresentazione di Bruno sul rogo, sono raffigurati i critici della Chiesa che hanno preceduto la Riforma (John Wycliff e Jan Huss); sul lato est, sopra la rappresentazione di Bruno davanti al Sant’Uffizio, sono rappresentati gli esponenti della critica umanistica alle teorie della Chiesa (Aonio Paleario e Michele Serveto); sul lato sud, sopra la rappresentazione di Bruno a Oxford, sono raffigurati i convertiti al Protestantesimo (Erasmo da Rotterdam e Giulio Cesare Vanini); sul lato ovest, posto nella facciata anteriore del monumento, dove c’è l’iscrizione di Bovio, sono raffigurati i sostenitori
di una Chiesa meno autoritaria, meno repressiva (Campanella e Sarpi)..
Anche le tre formelle che rappresentano tre momenti della vita di Bruno subirono delle modifiche. La prima nella versione del 1886 era Bruno che insegna all’Universita di Oxford, in quella definitiva diventa Bruno all’Universita di Oxford, così si metteva in evidenza non tanto il Bruno accademico quanto il rivoluzionario che illustra le sue idee. La seconda, che raffigura la Condanna del Sant’Uffizio, presente in tutti i progetti, rappresenta Bruno che dice ai giudici, che hanno appena pronunciato la sentenza di condanna, la famosa frase: “Voi profferite contro di me la sentenza forse con maggiore timore, di quanto abbia io nel riceverla”. Nella terza formella scompare Bruno che studia il Sistema Copernicano e ritorna Bruno sul rogo, presente nel primo progetto del 1885.
L’iscrizione da apporre sul frontone anteriore venne riscritta, al posto di “A Giordano Bruno dove fu arso / Martire della liberta del pensiero” che suonava troppo statica per suscitare entusiasmi, si decise per i versi del filosofo Giovanni Bovio “A Bruno / il secolo da lui divinato / qui / dove il rogo arse” che con le parole “il secolo da lui divinato” gettava un ponte con il presente e si proiettava verso un futuro di progresso e di civiltà tanto caro alla politica laica e alla cultura evoluzionista di allora. Quella di Giordano Bruno non era una “semplice” statua come
le altre che si vedevano sotto il cielo di Roma. Era il frutto di una sinergia perfetta: ai bassorilievi delle formelle spettava il compito di raccontare i momenti salienti della vita del Nolano, ai medaglioni di fissare nella memoria i crimini commessi dalla Chiesa cattolica – e non solo – contro la libertà di coscienza e di pensiero.
Ma a un osservatore attento il monumento riservava una sorpresa a dir poco stupefacente. I ritratti non erano otto, ma nove. Un medaglione ne conteneva due. Quello del filosofo ed eretico Vanini riportava, seminascosto, un altro ritratto, piccolissimo ma perfettamente riconoscibile: quello di Lutero. Per l’anticlericale Ferrari il ritratto dell’acerrimo nemico del papato non poteva mancare. La presenza di quell’immagine di Lutero fu infatti segnalata per la prima volta (dopo un secolo) dallo storico svedese Lars Berggren solo nel 1991.
Il monumento, aldilà della battaglia politica condotta per erigerlo, è significativo anche per quello che è stato tramandato nella coscienza popolare: più che il pensiero di Giordano Bruno, il suo rifiuto alla sottomissione. Se si fosse pentito, probabilmente avrebbe avuto salva la vita. Per il suo inquisitore, il cardinal Bellarmino (fatto santo dalla Chiesa proprio in risposta alla campagna per il monumento a Bruno), era molto più importante l’abiura che non la condanna. Il rifiuto di Giordano Bruno al pentimento, la sua tenacia nel difendere le proprie idee, la sua spavalderia nell’affrontare la sentenza di condanna con la risposta al Cardinal Madruzzo che gliela leggeva “Tremate più voi nel pronunciare questa sentenza che io nell’ascoltarla” (forse leggendaria come l’ “eppur si muove” di Galileo) ne hanno fatto un simbolo della libertà di pensiero, della volontà dell’uomo di lottare in difesa delle proprie idee.
L’aspetto positivo di questo periodo fu senz’altro la presa di coscienza dell’esistenza di una forza laica che si potesse veramente contrapporre al potere clericale, e che guidò allo scontro aspro le due fazioni che giunsero a scambiarsi tra di loro colpi duri a suon di appellativi anche molto “coloriti” dall’una e dall’altra parte. La Statua di Bruno, come è noto, ha lo sguardo rivolto verso il Vaticano dove i suoi carnefici albergavano. Ciò che colpisce maggiormente non è questo particolare, né il fatto che il volto sia parzialmente avvolto e nascosto nel cappuccio
e neanche che le sue mani incrociate l’una sull’altra appaiano quasi incatenate sul libro sacro chiuso. L’indice della mano destra per esempio tiene il segno in un punto del libro, quasi a significare il lavoro interrotto dai suoi carnefici lasciando incompiuta l’analisi e lo studio che nella sua vita l’uomo compie con l’utilizzo della ragione. La simbologia di tutti questi particolari della statua implicherebbe una riflessione molto ampia e del resto già in gran parte svolta. Ciò che a molti appare degno di ammirazione per il risvolto simbolico è la posizione del piede destro che sporge dal mantello e che oltre a rendere l’idea di un movimento interrotto nel “cammino della conoscenza” spinge a un’altra considerazione. Lo scultore avrebbe potuto rendere l’idea del movimento semplicemente lasciando il piede destro in maniera avanzata rispetto al sinistro che invece rimaneva coperto dal mantello. In verità il piede esce fuori dal basamento della statua ed è proprio questo che apre lo scenario sul quale riflettere, e meritevole di ammirata considerazione per la finezza dell’artista: la parte anteriore è come sospesa nel vuoto quasi a sottolineare l’incertezza di ciò che ci può riservare il futuro, l’indeterminatezza di ciò che non si conosce ancora e si vuole scoprire o addirittura la spiritualità, l’impalpabilità di una dimensione alternativa nella quale ci proiettiamo durante il nostro percorso di vita e di conoscenza. Il mistero racchiuso in questo piccolo particolare sembra alludere ai passi sulla via iniziatica e in qualche modo allude all’esperienza massonica.
Il 9 giugno del 1889, inaugurazione della statua di Bruno Roma: a poche settimane di distanza, a Parigi, l’apertura al pubblico della Tour Eiffel, nell’ambito dell’Esposizione universale che vuole celebrare il centenario dalla Rivoluzione francese, e vicinissima l’inaugurazione a New York della statua della “Libertà che illumina il mondo”. Tre monumenti emblemi dell’avvenire luminoso della civiltà in cui confidava la cultura tardo-positivistica, erede dell’Illuminismo nel combattere l’oscurantismo religioso ed il giogo della tirannide.
L’inaugurazione del monumento assume toni di festa popolare con delegazioni provenienti da tutta Italia e dall’estero. La stampa di tutto il continente ne diede ampia notizia. Fu una vittoria per il ‘massone’ Crispi, ritenuto dal Vaticano regista occulto dell’iniziativa, svoltasi tra l’altro nel giorno di Pentecoste. Per il papa si trattò di uno sfregio al volto della Città Eterna; vennero organizzate veglie nelle Chiese, in riparazione della glorificazione del “più laido degli apostati e nemico acerrimo della fede cristiana”. Leone XIII ribadì che proprio da Bruno erano iniziate le empietà dell’epoca moderna, in primo luogo quell’emancipazione dell’umana ragione da Dio che doveva sfociare nello spirito giacobino. Girò voce che il papa volesse fuggirsene dalla città che ora ospitava quel “campo maledetto” (come i cattolici oltranzisti vollero chiamare Campo dei fiori Venne inaugurato anche un busto di Garibaldi sul Campidoglio; e Colocci poté leggere quanto l’eroe dei due mondi aveva scritto al comitato organizzatore nel lontano ’76: “Possa il monumento da voi eretto al gran pensatore e martire essere il colpo di grazia alla baracca di cotesti pagliacci che villeggiano sulla sponda destra del Tevere” Si trattò di una delle poche battaglie laiche e anti-clericali, combattute e vinte nel nostro Paese, uno scontro fra due Italie, che sulla scuola, la famiglia, la religione, sull’idea stessa di umanità, avevano idee diverse, ma ad uscire sconfitti saranno poi i vincitori del momento. E questo a causa della debolezza del positivismo
italiano di fine secolo, testimoniata dal discorso di commemorazione di Bruno affidato allo psichiatra Enrico Morselli, il quale si lanciò in una ricostruzione materialistica ed evoluzionistica, del pensiero del nolano.
La bancarotta della cultura positivistica non si deve alla ripresa spiritualistica, quanto al suo concetto feticistico ed ideologico della scienza: “Non ci fu bisogno dell’idealismo per distruggere la profondità di tanta ‘scienza’”, rileva amaramente Bucciantini nel suo ormai ‘classico’ studio sulla statua a Giordano Bruno e alle vicende che l’accompagnarono. Per dirla con il Gadda de I miti del somaro (1944) che molto apprezzava “l’Arrostito” (come amava chiamarlo), il positivismo di fine Ottocento aveva perso il suo slancio propulsivo: “Ma se la consapevolezza “scientifica” e “documentaria” del positivismo acquistò valore di mito e divenne mito a sé medesima, ciò accadde in modo puro e ingenuo; e non fu gioco di putta, né calcolo di ruffianona bugiarda”.
Del resto, Gadda non manca di richiamarsi a Bruno nella sua Meditazione milanese (1924), dove l’universo vitale e senziente dell’Arrostito gli appare confusa anticipazione della leibniziana “rete complessa” in cui tutto comunica e si risponde. Ispirazione prossima a quella che anima la “filosofia naturale” di Italo Calvino: il naturalismo
di Bruno risveglia l’idea, che era già in Lucrezio e Ovidio, della sostanza
unitaria che accomuna gli umani alla natura tutta, in un universo di partecipazione a cui siamo chiamati a collaborare.
L’affaire della statua di Bruno fa emergere in Italia le stesse “fratture profonde” che la Francia conosce con il caso Dreyfus; non a caso a Campo de’ Fiori ci si radunò nel 1898 in favore di Zola, processato dopo il suo“J’accuse”. Da allora la piazza divenne luogo simbolo delle battaglie libertarie, delle lotte in favore della laicizzazione dello Stato; e tale è rimasta. Del resto, ci aveva già pensato Giovanni Gentile a porre le basi di una composizione fra gli opposti schieramenti. Il martirio del nolano era il simbolo stesso dell’affermazione della libertà di pensare come atto vitale, e la sua riflessione restava momento fondante del cammino con cui si era costruita l’autocoscienza della nazione italiana; Bruno poteva così trovare posto nei programmi dell’insegnamento della Filosofia previsti dalla riforma del ’23. Ormai reso quasi innocuo, in virtù di quel nesso hegeliano tra filosofia e religione, per cui la prima porta la seconda ad un più alto contenuto spirituale, senza comunque annullarla. Nel pensiero di Gentile (che forse ‘salvò’ il monumento) il teologo determina la fede, il filosofo la verità; il pensiero bruniano si rivolge alla divinità presente nella Natura, mentre spetta alla dimensione trascendente rivolgersi alla mens super omnia; ma per questa occorre un lume soprannaturale, che non è del Bruno filosofo, ma in generale non è del pensiero moderno che, per comprendere, si affida alla ragione e non alla fede. Certo il rogo di Bruno fu un errore dei giudici, riconosce Gentile; ma proprio quel rogo ha posto fine all’illusione di una possibile conciliazione tra l’antica fede ed il moderno, dove la libertà di pensiero è conquista storica definitiva. Ed oggi “tutti i roghi ormai sono spenti”. Ma nel mondo cattolico, l’affaire Bruno non appariva certo conclusa. Ancora nel 1940 padre Agostino Gemelli poteva affermare che, se il processo contro Galileo fu un errore, fu giusto e ineccepibile quello contro il nolano, “disgraziato” che aveva smarrito la testa nel “bestemmiare orribilmente e nel dire le sciocchezze che ha detto”. Dovette attendere dieci anni Togliatti per rispondergli, con la sua acuminata ironia, dalle colonne di “Rinascita” (Giordano Bruno e noi, VII, 1950, n.8-9, pp431-32). Solleticavano il popolino, intanto, i versi di Trilussa: “Fece la fine dell’abbacchio ar forno / perché credeva ar libbero pensiero”. La manifestazione popolare per l’inaugurazione della statua di Giordano Bruno -9 giugno 1889- è una delle prime nella storia d’Italia che sia fotograficamente documentata. In quel giorno di Pentecoste, l’Italia nuova si dà appuntamento in Campo de’ Fiori, a un tiro di schioppo dal Vaticano, per celebrarsi come Italia laica.. Treni speciali trasportano a Roma pellegrini laici dai quattro angoli di un Paese che è andato scoprendo per effetto di un’insistita campagna d’opinione la figura e in qualche caso l’opera di Giordano Bruno. Ventimila, nei calcoli della Questura, i manifestanti raccolti alla base dell’imponente statua di bronzo disegnata a Ettore Ferrari. Cui va aggiunta la gente affacciata alle finestre e ai balconi delle case prospicienti la piazza; sono romani benestanti che hanno pagato una specie di affitto giornaliero ai popolani residenti nel Campo. Invano il cardinale Rampolla, segretario di Stato di papa Leone XIII, ha cercato di spaventare la cittadinanza prevedendo disordini di piazza, e arrivando a offrire biglietti ferroviari gratuiti a quanti volessero allontanarsi dalla capitale. La manifestazione del 9 giugno è un successo anche per l’ordine perfetto con cui le più varie delegazioni e associazioni d’Italia – consiglieri comunali, notabili provinciali, reduci garibaldini, operai mazziniani, studenti universitari – sfilano in corteo dalla stazione Termini a Campo de’ Fiori. Il tutto in un clima di festosa animazione descritto l’indomani
dal cronista del Messaggero: “Si vendono banderuole di carta, fazzoletti con il ritratto di Giordano Bruno, busti e statuette di gesso, opuscoli d’ogni specie”. “La folla sparpagliata dovunque si fa sempre più fitta” e “tutte le classi sociali vi sono rappresentate”. Il cronista aggiunge: “Moltissime le donne”, affermazione che però le fotografie smentiscono.
Una ‘brunomania’ -come fu sdegnosamente qualificata dai gesuiti della “Civiltà Cattolica”- percorse la cultura democratica italiana negli anni a ridosso dell’inaugurazione della statua. Libri, libelli, opuscoli, saggi, biografie romanzate, commedie teatrali, opuscoli commemorativi: oltre duecento titoli nel solo biennio 1888-89. Che la statua inaugurata il 9 giugno 1889 in Campo dei Fiori rappresentasse comunque una dichiarazione di guerra contro ogni verità rivelata, è quanto riusciva chiaro a tutti i cattolici d’Italia, a cominciare dal Papa. Leone XIII tenne il 30 giugno 1889 in una allocuzione davanti al Concistoro a ribadire come Giordano Bruno fosse stato doppiamente apostata, convinto eretico, ribelle fino alla morte all’autorità della Chiesa: “Così dunque le straordinarie onoranze tributate a tal uomo, dicono alto e chiaro, essere ormai tempo di romperla colla rivelazione e la fede: l’umana ragione volersi emancipare affatto dall’autorità di Gesù Cristo”.
Il mondo intero guardò quel giorno all’Italia e al cupo pensoso monaco nero scolpito da Ettore Ferrari per Campo de’ Fiori. Ma il sogno dell’Italia laica ebbe breve durata e quando la Conciliazione divenne una realtà Eugenio Pacelli (Pio XII) chiese la rimozione della statua (almeno da quel luogo). Non la ottenne: il re e Mussolini non ebbero il coraggio di consentire una sconfessione troppo sfacciata dell’eredità risorgimentale. Mussolini anzi nel discorso di ratifica del Concordato, il 13 maggio 1929, dichiarò: “Bisogna che io dichiari che la statua di Giordano Bruno, malinconica come il destino di questo frate, resterà dov’è”.
In questa vicenda appaiono ben documentate le meschinità della classe dirigente dell’epoca, le compromissioni, le prudenze, i timori di turbare la curia vaticana e anche il coraggio ribelle, la testardaggine di portare a compimento la statua pensata da Ettore Ferrari. Due Italie inconciliabili.
Il conflitto coinvolse segretari di Stato vaticani, presidenti del Consiglio, sindaci della capitale, Gran maestri della massoneria, cardinali, predicatori. Non coinvolse gli studiosi di Giordano Bruno filosofo che marginalmente: pochi poiché Bruno era portatore di un pensiero allora poco e male esplorato, come la sua opera. Ma cittadini senza nome parteciparono con fervore a manifestazioni, raccolte di denaro, pubblicazioni di libri e di pamphlet, polemiche pubbliche, cortei che i giornali dell’epoca documentarono. La svolta arrivò con Francesco Crispi presidente del Consiglio, che rimosse ogni ostacolo. Vinse con lui la laicità ‘provvisoria’ dello Stato. Fu un gran giorno di festa quel 9 giugno 1889 che l’Italia celebrò mentre a Parigi si apriva l’Esposizione universale.
TRATTO DA “HIRAM” 3/2020