PAGANI E CRISTIANI
MILLE VOLTI DI UN CONFLITTO
di Giancarlo Rinaldi
Ndr – E’ stata sempre costante nella libera muratorìa la preoccupazione per una politica che assicurasse al principio della tolleranza non solo uno spazio all’interno dell’organizzazione politica e sociale, ma si traducesse anche nella attenzione a capire le ragioni degli altri. Tolleranza, quindi, non come mera sopportazione per chi sostiene il falso, a fronte di una verità posseduta in modo sottratto a ogni dubbio, ma soprattutto come consapevolezza del pluralismo delle verità e riconoscimento delle ragioni che stanno a base di ciascuna di esse. E’ per questo che abbiamo ritenuto importante portare l’attenzione su di un momento cruciale in cui tolleranza e intolleranza si sono scontrate nel modo più violento nella cultura occidentale, quando ad un’epoca se ne è sostituita un’altra con l’avvento dell’Europa cristiana dopo la civiltà romano-ellenistica; così abbiamo domandato a Giancarlo Rinaldi – che a questo tema delle “ragioni dei pagani” ha dedicato la sua attività scientifica con la pubblicazione di due importanti lavori (La Bibbia dei pagani, Bologna 1997 e 1998 e Pagani e cristiani. La storia di un conflitto, Roma 2016) – di volerci illustrare le conclusioni cui è giunto attraverso i suoi studi su questo importante tema. Rinaldi (docente di storia del cristianesimo antico presso l’Università degli Studi l’Orientale di Napoli e direttore del Master in Studi Storico Religiosi presso lo stesso Ateneo) ci presenta in questo suo contributo un quadro interessante e per molti aspetti nuovo di un tema che soltanto negli ultimi tempi la storiografia ha imparato a guardare con occhi diversi e più liberi.
V’è stato in Italia un comune diffuso convincimento secondo il quale la Bibbia sarebbe quasi un testo di raccolta di preghiere, pertanto destinato alla elevazione spirituale del clero. Una malintesa ‘laicità’ ha cavalcato questo pregiudizio. D’altro lato l’eredità del Concilio di Trento, che istituiva la Chiesa quale unico tramite autorizzato per la lettura di quelle pagine, ha consacrato nella realtà dei fatti il monopolio del clero nella lettura e nello studio dei testi biblici. Una paradossale convergenza tra laicità e clericalismo il cui conto, per la cultura italiana, è stato pesante: l’estraneità di un capolavoro letterario al bagaglio di competenze dell’italiano medio. Sono sempre stato tentato da una lettura ‘laica’ della Bibbia. Questa non elimina un eventuale approccio ispirato alla fede, ma si propone come distinta: si vuol far tesoro della Bibbia come antologia di documenti prodotti nella storia, che tale storia attesta, nelle sue diverse coniugazioni di lingua (ebraico e greco), di luogo e di epoca di composizione. Sin dagli anni universitari, frequentando i miei corsi di filosofia e di storia, mi posi la consueta domanda sulle cause molteplici dei motivi che condussero al tramonto della civiltà ‘classica’ (‘pagana’, per intenderci con un termine approssimativo ma utile): come fu possibile che un complesso di valori letterari e artistici, una intera vetusta visione del mondo abbia ceduto il posto in breve volger di decenni a un’altra visione del mondo, quella giudaica, partorita in un remoto angolo del Vicino Oriente Antico e poi diffusa, con accomodamenti, da zelanti missionari che tale visione componevano con la fede nel mite Nazareno. Non fu difficile scoprire che i primi quattro secoli dell’era volgare furono travagliati da un conflitto tra due concezioni di Dio, del mondo, dell’uomo. La grande antitesi ebbe a svilupparsi a più livelli: quello che diremo giudiziario, il quale si tradusse in processi contro i cristiani accusati di crimini connessi alla loro stessa denominazione; quello a livello popolare che vide i cristiani bersagliati con accuse messe in giro ad arte e infondate (cannibalismo, incesto, ostilità alla res publica, etc.); quello colto – finalmente – che prese corpo in una molteplicità di scritti di filosofi i quali erano collegati da una comune filigrana che consisteva dal tentativo di difesa dell’antica paideia tradizionale verso quella che si prospettava come la minacciosa corrosiva novità cristiana. Se paragoniamo quell’antica polemica anticristiana, a cui pensatori come Celso, Porfirio, Guliano imperatore diedero voce, con le animosità anticristiana di cui oggi siamo testimoni, possiamo dire che mentre le voci antiche si elevavano a difesa di una Tradizione, quelle moderne intendono picconare senza soverchi scrupoli e senza neanche porsi il problema di una successiva pars costruens o, diciamolo pure, senza darsi pensiero di selezionare un nucleo salvabile da un contorno deprecabile. Noi possiamo leggere quel che rimane della letteratura anticristiana grazie agli antichi apologeti i quali composero, da parte cristiana, confutazioni a quelle accuse riportando brani dei loro avversari. I meccanismi di selezione della storia sono stati implacabili contro i pronunciamenti dei difensori del mondo antico anche perché alla fortuità della conservazione di testi andò ad aggiungersi l’opera di un’occhiuta censura e di una precoce inquisizione. Tuttavia, se si ha pazienza, è possibile ricomporre quelle voci antiche, intenderne il senso generale e anche analizzare particolari tematiche. Verso la fine degli anni ’80 mi posi il problema del ruolo che le Scritture sacre a giudei e cristiani avevano avuto in questo ampio contesto polemico. Così ragionavo: se è vero che la Bibbia è stata il fondamento di fede dei cristiani dobbiamo domandarci se i loro avversari ebbero consapevolezza di questa centralità. In tal caso sarebbe stato estremamente interessante conoscere i pareri che su questo testo i pagani ebbero a esprimere, presumibilmente critici e corrosivi.
Vi fu una controversia anticristiana incentrata sulla Bibbia? La bibliografia sul tema era allora piuttosto scarsa e un volume che trattasse il tema nella sua complessità mancava. Fu così che, armato di certosina pazienza e di una forbice, mi diedi a leggere i testi della letteratura patristica che ci restituivano obiezioni di parte pagana e dove trovavo citazioni, allusioni, riferimenti alla Bibbia estraevo questa voce dei soccombenti, cioè dei pagani, la disponevo su svariate schede per poi ordinarle secondo la successione che mi sembrava la più comoda: quella stessa dei libri biblici, cioè da Genesi all’Apocalisse di Giovanni. In un volume che si prospettava decisamente ampio decisi di includere per ogni brano (greco e latino) la relativa traduzione italiana e la nota di commento.
Ne venne fuori una vasta, molto vasta ‘mappa’ del pensiero pagano intorno alle Scritture. Il titolo mi si presentò accattivante: Biblia gentium, la Bibbia dei pagani. D’intesa con l’editore decisi di presentare il testo al prof. Carlo Maria Martini, che allora era rettore della Pontificia Università Gregoriana di Roma e non ancora arcivescovo di Milano. Rimanemmo sorpresi per l’interesse che tale autorità in materia ebbe a esprimere, e felici della sua disponibilità a prendere parte al progetto di stampa con una sua autorevole presentazione. Il volume vide la luce nel 1989 e da sùbito incominciò a camminare con le gambe proprie, percorrendo molta strada, conoscendo apprezzamenti più all’estero che nell’Università dove allora lavoravo, ma ciò non fa cronaca laddove si pensi che proprio nei vangeli per quattro volte è Gesù stesso a ribadire Nemo propheta in patria.
Il volume serviva come una bussola agli studiosi di storia delle religioni ai quali mostrava come un medesimo testo veniva diversamente recepito e giudicato a seconda delle precomprensioni dei lettori. Ma serviva anche agli studiosi di esegesi biblica e del pensiero cristiano antico poiché documentava come le accuse dei pagani avessero determinato la necessità di approntare risposte da parte dei cristiani. La letteratura esegetica di questi ultimi doveva necessariamente acquisire un’anima e un intento apologetico. Il dibattito religioso in età romana imperiale fu molto più denso di quel che noi oggi possiamo pensare; pertanto l’identità di un gruppo non scaturiva dall’esperienza del dialogo bensì da quella della controversia.
Tutto ciò potrebbe sembrare strano all’uomo moderno il quale (così si spera) è piuttosto avvezzo al dialogo, cioè alla disposizione verso l’ascolto, all’eventualità di arricchire così le sue cognizioni e convinzioni e anche, nel caso, di modificarle. Per l’uomo antico le cose non stavano così. Tranne nel caso degli scettici di diverso indirizzo filosofico (un’assoluta minoranza), si partiva dalla considerazione che se la verità è una, ogni affermazione a questa contraria deve necessariamente essere falsa. Applicando questa massima all’àmbito delle convinzioni di fede si dava la stura a controversie infinite: l’errore (come poi l’eresia) riguardava una questione di vita e di salvezza come la religione, quindi risultava pernicioso.
Non è impossibile riportare in poche righe le critiche dei pagani. Possiamo però osservare che queste riguardavano prima di tutto la forma letteraria del testo biblico. L’ebraico, con i suoi suoni gutturali e la sua scarsità di vocaboli, doveva risultare immediatamente indigesto a qualsiasi persona dotata di un minimo di paideia classica. Ma anche la prosa greca dei libri del Nuovo Testamento risultava perdente se, ad esempio, veniva paragonata alla paludata eleganza di un Platone o di un Isocrate. Per gli antichi la veste letteraria era fattore primario e così possiamo comprendere il tormento di un maestro di retorica come Agostino d’Ippona nell’avvicinarsi alle Scritture. Impietose proseguivano le accuse, ed erano davvero molteplici: la Bibbia racconta, deformandoli, quei bei miti antichi narrati egregiamente a suo tempo dai poeti greci! Perché poi attribuire a Gesù un ruolo unico se nella storia si annoverano tanti uomini saggi e facitori di miracoli come, ad esempio, Apollonio di Tiana? Inoltre: la devozione che i cristiani tributano a Gesù perché non può associarsi a quella verso altri personaggi eroici, dèi e semidei? Non mancarono i pagani che misero in evidenza quelle pagine delle scritture giudaiche dove abbondavano guerre e violenze perpetrate dagli ebrei nella terra di Canaan in nome dell’Eterno degli eserciti. Le crudeltà di un’epoca remota, di tribù in guerra per la terra stridevano
con la sensibilità filosofica che nella pace additava il traguardo sociale e in una divinità esente da ira l’esemplare a cui far corrispondere l’anima levigata del saggio. Insomma, per farla in breve, i pagani puntavano impietosamente il dito sulle tante pagine ‘indigeste’ delle Scritture. Certamente quei brani presi alla lettera potevano sconcertare il lettore. Fu così che, da parte dei Padri della Chiesa, fu chiamata in causa l’esegesi allegorica. Si trattava di un procedimento interpretativo che ravvisava il significato vero di un testo non in ciò che esso immediatamente comunicava, ma che invece rimandava a un livello diverso e più alto di significato. Così le già citate cruente guerre degli ebrei per il possesso di Canaan, nel pensiero dell’alessandrino Origene, raffiguravano gli sforzi che l’anima virtuosa doveva compiere a ogni costo per contrastare i vizi. Mel campo dell’esegesi le critiche dei pagani contribuirono a definire quell’allegorismo che avremmo poi dopo
tanto tempo trovato, con finalità altamente etiche, anagogiche, ad esempio, nella Commedia di Dante.
Dopo circa nove anni dalla pubblicazione di Biblia gentiummi decisi a realizzarne una seconda edizione. Nel frattempo avevo raccolto nuovi brani di autori pagani. Decisi di dividere l’opera in due tomi: nel primo v’erano i profili degli autori pagani dai quali avevo attinto, nel secondo presentavo i loro brani ma solo in traduzione italiana e con un commento molto più ampio.
Nel frattempo continuavo le mie ricerche sul rapporto tra le comunità giudaiche e quelle cristiane con la società antica, individuando in quest’ultima sia le masse prive di formazione culturale, sia gli intellettuali, sia i rappresentanti del potere romano. Sulla scorta di un’ampia serie di lavori portati a termine, mi persuasi a impegnarmi per offrire al lettore un ampio panorama generale di quella che era stata la polemica tra pagani e cristiani. La casa editrice Carocci di Roma aprì con tempestività e stile le sue porte accogliendo questo progetto. Fu così che nel 2016 venne alla luce Pagani e cristiani. Storia di un conflitto.
Divisi le più di trecento pagine di cui consta il volume in due ben distinte parti. Nella prima presentavo una storia di tale conflitto partendo dagli antefatti che riguardavano i giudizi dei pagani verso l’etnia e la religione ebraica. Bastava elencare le accuse ricorrenti per rendersi conto che tutto quanto sarebbe stato poi infelicemente prodotto sotto le insegne dell’antisemitismo, anche di stampo recente, non era altro che una riedizione di luoghi comuni che sui giudei circolavano sin dall’età dell’imperatore Caligola (37-41 dC) se non prima, nella città di Alessandria d’Egitto. Queste accuse, pari pari, furono poi impiegate contro i cristiani creando una strana circolazione di luoghi comuni controversistici. Un esempio valga per tutti. Sembra strano ma è così: il più antico crocefisso che possiamo vedere non fu disegnato da mano cristiana ma consiste in un’immagine ritrovata a Roma nella palestra del Palatino, cioè del palazzo imperiale. Qui un pagano, per dileggiare qualche suo conoscente cristiano, aveva raffigurato un uomo con la testa d’asino posto in croce con abito servile. Ai piedi della croce v’era un personaggio, pure in abito da servo, che con la mano mandava un bacio al personaggio crocefisso, questo era l’atto di iactare basia ricorrente nella pietà di quei pagani che veneravano così la statua della loro divinità. Una scritta in greco commentava “Alexamenos adora (il suo) dio”. Questa immagine, ancora oggi visibile, promana una forte carica polemica che si dispiega a più livelli. Intanto sia l’adorante che l’adorato sono raffigurati come schiavi: questa è un’attestazione della ricorrente accusa rivolta ai cristiani di far parte di una religione di gente di bassa estrazione sociale. Il documento attesta che nell’età in cui fu creato (inizi del terzo secolo d.C.) i cristiani compiutamente veneravano Gesù come Dio. Ma fa riflettere anche il particolare della testa d’asino. Se leggiamo alcune accuse rivolte da pagani ai giudei troviamo che costoro erano rimproverati di avere nella parte più intima del loro tempio gerosolimitano la statua di un asino e di adorarla. Si tratta di una (assurda) accusa ancora una volta di origine alessandrina: in Egitto l’asino era animale collegato a Tifone, il dio malvagio uccisore di Osiride. Dunque con questo particolare l’anonimo disegnatore voleva affermare che quella dei cristiani altro non era se non una deviazione dal giudaismo. Il carattere giudaico della religione cristiana ha costituito un’acquisizione piuttosto recente degli studi storico religiosi, eppure la cosa doveva risultare ben chiara a quell’antico rozzo disegnatore del Palatino! Sempre nella prima parte del mio Pagani e cristiani l’indagine giungeva a comprendere anche aspetti piuttosto inediti della ricerca.
Così emergeva il ruolo di agente anticristiano che ebbe il Senato romano, piuttosto che gli imperatori. Questa assise, infatti, era l’organo preposto alla conservazione della tradizione patria la quale era, ad un tempo, tanto politica quanto religiosa poiché allora non esisteva una compiuta distinzione delle due sfere. Infatti il Senato rimase a Roma l’ultima roccaforte dell’antico paganesimo quando tutt’intorno, sia nell’Urbe come nell’impero, già alte si ergevano le basiliche e i sempre più affollati luoghi di sepoltura dei martiri. Un folto gruppo di iscrizioni
latine trovate sul territorio Vaticano attesta le devozioni di questi ultimi nostalgici pagani. Vi leggiamo delle loro iniziazioni ai culti del mistero: Cibele e Attis, Iside e Osiride, Mitra e così via. Queste iniziazioni assicuravano uno stato di beatitudine oltre la morte e, per tale specifico aspetto, dimostravano che le ansie degli antichi iniziati e quelle dei seguaci di Gesù, in questo crepuscolo di paganesimo, venivano ad avvicinarsi se non a coincidere.
Mi colpì anche il ruolo da protagonista che i governatori delle varie province romane avevano quando si trattava di risolvere il problema posto dai cristiani. Quella diffusa storiografia che parlava di rapporto tra cristiani e imperatori mi sembrava obsoleta: bisognava chiamare in causa e adeguatamente tener conto del ruolo dei governatori locali che, come magistrati, rappresentavano con ampio margine d’autonomia il potere di Roma. Fu così che compresi come mai in epoche di persecuzione anticristiana v’erano territori in cui regnava la sicurezza
per i devoti di Gesù e, al contrario, in periodi di generale tolleranza qua e là si ebbero invece episodi di persecuzione per costoro. Mi colpì anche il fatto che quasi sempre i governatori locali cercavano in ogni modo di evitare la condanna a morte dei cristiani; i loro uffici erano oberati da mille altri adempimenti di maggior rilievo, tuttavia la fermezza con la quale i credenti volevano andare incontro al loro destino sortiva poi l’esito desiderato.
Nella seconda parte di Pagani e cristiani realizzai qualcosa di veramente nuovo: una serie di capitoli ciascuno dei quali riguardava un personaggio oppure un aspetto della religione cristiana così come giudicato dagli avversari pagani. Il valore generale di queste pagine, dal punto di vista storiografico, sta nel fatto che esse abbiano restituito la parola ai ‘perdenti’. È ben noto che la storia sono sempre i vincitori a scriverla. Proprio per questo motivo sarebbe oltremodo utile se potessimo disporre anche del punto di vista dei soccombenti. Esempio
eloquente: come sarebbe interessante se per quanto riguarda la storia della conquista del West potessimo disporre anche della versione dei nativi americani! Dunque, nell’àmbito degli studi sul cristianesimo antico risulta davvero utile conoscere per uno stesso evento o per la medesima persona anche il punto di vista dei pagani. Prendiamo un tema a caso: le cause della decadenza dell’impero romano e il suo successivo sgretolamento sotto i colpi delle invasioni barbariche. I discorsi su tale argomento ebbero una vera e propria impennata quando nell’anno 410 d.C. si diffuse la notizia che il barbaro re dei Goti
Alarico era entrato a Roma mettendola a ferro e a fuoco: sembrava crollato d’incanto il mito della aeternitas Romae! Numerose imbarcazioni di notabili romani lasciavano in lacrime i porti dell’Italia per rifugiarsi sulle più sicure e prospere coste del nord Africa. Non solo i pagani, ma anche molti tra i seguaci della nuova fede, turbati, pensavano che l’aver voltato le spalle agli dèi antichi e l’aver aderito a un culto nuovo aveva comportato la cessazione della protezione degli olimpici verso l’impero in termini tecnici: la rottura della pax deorum. I discorsi e le polemiche infiammarono gli animi di tutti e fu così che Agostino d’Ippona si determinò a dir la sua mettendo mano a quel vastissimo prolisso capolavoro dal titolo La citta di Dio. Qui la sua filosofia della storia veniva esposta evidenziando sia l’eterna lotta tra la città terrena e quella celeste, insomma una dicotomia non troppo lontana dal suo antico manicheismo, sia il crollo dei potentati terreni, come quello di Roma, evento considerato non come una tragedia bensì come una naturale tappa verso l’epilogo dell’umana vicenda. Ancora una volta le accuse dei pagani avevano sollecitato la riflessione teologica dei pagani.
Un altro aspetto che è emerso a tutto tondo dalla mia ricerca è la circolazione fitta di accuse, moduli di pensiero, luoghi comuni tra pagani e cristiani che si ebbe in età romana imperiale. Noi siamo abituati a considerare distintamente la storia del cristianesimo dallo studio delle religioni del mondo classico, così la storia del giudaismo da quella delle sette cristiane. Ma questo non è il metodo corretto e appropriato poiché i diversi gruppi non conoscevano tali divisioni! La vita sociale di quegli antichi era molto più serrata e fitta, determinando una circolazione di testi, documenti, oggetti, idee e fedi religiose. Era sempre in agguato la diffidenza verso i gruppi circoscritti, accusati di costituire società segrete; da qui era poi breve il passo verso l’accusa di macchinare contro la società se non contro l’intero genere umano. Questo fu anche il caso del cristianesimo. Se il culto pagano si svolgeva alla luce del sole, davanti a un tempio dove un’ara a cielo aperto consentiva ai sacerdoti o alle autorità di celebrare il sacrificio a beneficio del popolo tutto, così non era per i cristiani i quali solevano riunirsi in case private (domus ecclesiae) ai primi bagliori antelucani per celebrare un culto riservato esclusivamente ai membri battezzati. V’erano tutti gli elementi per far scattare l’accusa di costituire una setta segreta, in più avversa al genere umano. Di qui, anche, le persecuzioni.
Questa stessa accusa era stata già rivolta all’indirizzo degli ebrei in tempi antichi. La ritroveremo poi utilizzata contro gruppi ereticali dalla stessa chiesa una volta assurta a posizioni di egemonia e di potere verso la fine del secolo quarto. Talvolta si ebbe una convergenza di accuse tra pagani e manichei presso i quali era diffusa, infatti, la convinzione secondo la quale i cristiani avrebbero falsificato i testi delle loro scritture sacre. Stranamente questa medesima obiezione fece poi capolino anche nel Corano e nel più antico islam.
Diverso era l’atteggiamento che gli gnostici avevano verso coloro che appartenevano alla “Grande chiesa”. Più che una vera e propria chiesa, distinta dalle altre, quella degli gnostici era una corrente di pensiero trasversale. Costoro partivano dalla convinzione che Dio era parte costitutiva dell’anima della parte migliore dell’umanità, quella a cui loro, gli pneumatici, sentivano di appartenere. Questa parte divina era imprigionata nella caligine dolorante dei corpi e della materia. Si trattava di un motivo antico che in Grecia aveva fatto capolino già con le correnti orfiche e che era stato consacrato da Platone, il maestro grande della religiosità classica. Gli gnostici, con Platone, appunto, procedevano a una svalutazione della dimensione materiale a tutto vantaggio di quella più spirituale e intima. Pertanto la salvezza non poteva derivare, come aveva insegnato Paolo di Tarso, dal dramma cruento del Calvario, bensì da una consapevolezza intima e tutta spirituale di far parte di Dio stesso. La gnosi era, appunto, salvezza attraverso la conoscenza della propria vera identità. Il carattere intellettuale di questi gnostici li qualificava come interlocutori preferiti verso il mondo pagano il cui valore portante era il pensiero filosofico e non la fede come assenso sovente irrazionale. Fu per tale motivo che, nell’età dell’imperatore Gallieno, alcuni gnostici s’insinuarono nella scuola romana del filosofo Plotino per diffondere i loro testi e le loro dottrine. Ne nacque una epocale polemica che costrinse il maestro a pronunciare una serie di lezioni ‘antignostiche’ le quali furono poi messe per iscritto dall’allievo Porfirio e, in tempi recenti, ricongiunte e
ricomposte in unità: ecco la paideia antignostica di Plotino. La materia del contendere era prioritariamente il disprezzo che questi gnostici nutrivano verso il cosmo, laddove Plotino, in sintonia con la tradizione classica, ammirava nel cosmo (vocabolo che in greco significa ‘ordine’) una armonia divina, eterna e insuperabile. Laddove gli gnostici, all’unisono con i cristiani, configuravano con le loro apocalissi la distruzione degli elementi del cosmo, i pagani parlavano della sua perfezione ed eternità. La controversia si prolungò lungo i secolidella scolastica medioevale.
Nella seconda parte di Pagani e cristiani inserii capitoli che riguardavano il giudizio dei pagani su figure quali quelle di Maria, la madre di Gesù, Paolo di Tarso, Pietro, l’evangelista Giovanni; e poi temi svariati: cosa pensavano i pagani del battesimo, dell’eucaristia, del culto cristiano? Insomma, un’altra metà del cielo è stata ricostruita per far meglio comprendere quella che già conoscevamo. La storiografia sul cristianesimo antico deve rendersi polifonia con il restituirci l’eco sia pur lontana di discorsi di pagani, giudei, manichei, gnostici e così via. Se dovessi concludere con un unico pensiero molto sintetico non esiterei a dire che lo studio di questi temi (e in generale della società antica) deve necessariamente presentare un approccio pluridisciplinare. Le società, le culture, le religioni più interessanti sono quelle di crinale, cioè quelle che risultano composte o che palesano l’integrazione di più fattori. Si usi, se così si vuole, il termine ‘sincretismo’ per indicare questa realtà. Sta di fatto che nessuna società si presenta all’analisi dello storico allo stato ‘puro’. Forse anche per questo mi è stato più agevole esaminare la vicenda del cristianesimo antico nel suo più ampio contesto ‘pagano’ nel momento presente, mentre assisto all’intrecciasti di etnie diverse, al loro fondersi e confondersi, insieme a lingue, culture e fedi che interagiscono. studi possono essere liberamente scaricati in formato
Hiram n.2/2018